Lui fa un affare, la Fiorentina non so, e comunque un difensore era certamente di troppo.
Forse Dainelli era il più vendibile, ma resta l’amarezza che avverto in tanti tifosi viola.
Ho scambiato alcuni sms con lui nel corso della giornata, ma al contrario di altri che hanno una visione molto particolare del modo di fare giornalismo, non intendo renderli pubblici.
Per una volta preferisco riportare l’articolo che ho scritto sul Corriere Fiorentino, che oggi ha anticipato l’addio del capitano.
Ciao Dario, ci vediamo a fine carriera a Firenze.

Nel luglio 2004 Dario Dainelli era talmente contento e anche un po’ incredulo di venire alla Fiorentina che arrivò al raduno nel grande albergo di Firenze sud accompagnato dal babbo, un distinto signore letteralmente malato per i colori viola. Anche lui è sempre stato tifoso, ma un po’ meno del genitore, se non altro per via della professione, che da quando aveva 19 anni lo ha portato in giro per l’Italia. Modena, Cava dei Tirreni, Andria, Lecce, Verona e Brescia, dove è cresciuto moltissimo prima di essere scelto da Lucchesi per indossare la maglia che sognava fin da bambino. Ora che se ne va il dispiacere è doppio, per il giocatore ma ancora di più per l’uomo, sempre disponibile con tutti, mai visto veramente arrabbiato con qualcuno. Un ragazzo dotato di una sensibilità scarsamente riscontrabile nella vita di tutti i giorni e meno ancora nel calcio. Un episodio tra i tanti che lo hanno visto protagonista in questi anni: nello stabile del suo appartamento fiorentino vive la professoressa di un ragazzino tifosissimo viola che sta combattendo una battaglia molto seria per sopravvivere, La prof informa Dainelli della situazione e Dario organizza la visita al Meyer di Prandelli, un altro che in questi casi non si tira mai indietro. Poi, certo, c’è anche il giocatore, spesso sottovalutato per via di quelle amnesie che certamente ci sono state, ma che hanno fin troppo scalfito nell’immaginario collettivo le valutazioni sulle sue prestazioni. Il momento più basso è datato 29 ottobre 2006, quando il Palermo vince a Firenze per 3 a 2 con doppietta di Amauri e gioia incontenibile con annesso balzo irridente di Guidolin. Il secondo gol del brasiliano è una beffa per Dainelli, che nel finale si fa saltare come un birillo, rimanendo a guardare il seguito dell’azione. Prima e dopo quel giorno ci sono state però ottime prove, accompagnate spesso da un senso di diffidenza generale che trae origine dall’aria quasi distaccata di un difensore che ha un ghigno inversamente proporzionale, tanto per rimanere in casa nostra, a quello di Passarella. Dainelli è un sorridente per natura e anche quando molla un calcione lo fa sempre con l’aria del bravo ragazzo. Siamo convinti che anche gli arbitri, quando lo hanno espulso, si siano sempre sentiti un po’ in colpa per quello che facevano. La diffidenzaè però una brutta compagna di viaggio, che non molla Dainelli fino al 29 settembre scorso, il giorno della gara di Liverpool. Prima di quella magica serata in cui annullò Torres, era diventato difficile giocare al Franchi per via dei mormorii e pure di qualche fischio che arrivavato da maratona e tribuna. Dainelli però non si è mai lamentato, dando in questo un esempio importante a tanti compagni molto più permalosi. E quando nell’agosto 2008, dopo la partenza di Ujfalusi, è scattato il toto-capitano, lui, che avrebbe dovuto ereditare naturalmente la
fascia, se ne è stato in silenzio masticando amaro e aspettando che gli venisse riconosciuta quella leadership invece sempre negata a livello mediatico. Il fatto è che tutti lo consideravano in partenza, forse anche Prandelli, che infatti non lo difese con troppa convinzione. Qualche mese dopo, a ennesima riconferma avvenuta, Dainelli lo fece notare alla sua maniera, sorridendo, ma con molta amarezza. Non venne multato e anche quello fu un segno di carisma. Col passare dei mesi e nonostante qualche problema di salute, soprattutto alla schiena, nessuno ha più messo in dubbio che il capitano della Fiorentina dovesse essere Dainelli, naturalmente fino all’arrivo dell’estate, quando tutti lo davano già alla Sampdoria con tanto di casa affittata a Bogliasco. Invece è rimasto ancora, per giocare quello che alla fine è stato lo spezzone di stagione più convincente dei suoi oltre 1600 giorni alla Fiorentina. Stupisce quindi un po’ che se ne vada proprio adesso, ma evidentemente alla fine si deve essere arreso anche lui: non si può stare in paradiso, cioè a Firenze, a dispetto dei santi. Certamente sarà un distacco dolce con l’ambiente, senza porte sbattute in faccia e con rapporti che saranno mantenuti anche da Genova. Lui d’altra parte ha fatto così con gli amici veri che se ne sono andati via negli anni scorsi. Per esempio Pazzini e Toni, che continuano a frequentare il suo ristorante di Peccioli, non a caso chiamato “La locanda degli amicone” e specializzato in funghi e tartufi. La cucina è una delle grandi passioni di Dainelli, lasciata un po’ da parte dopo la nascita otto mesi fa del piccolo Ettore. Nel suo locale si sono svolte anche trattative di mercato, come quella volta in cui Spalletti chiese proprio a Pazzini se, visto che con Prandelli giocava pochissimo, gli fosse piaciuto andare alla Roma. Dainelli giocò ancora da difensore e convinse l’amico a lasciar cadere ogni tentazione.
Perchè il ruolo del capitano lo ha sempre interpretato a 360 gradi, dentro e fuori dal campo, magari scherzando un po’. Lo fece con Mutu, proponendo una colletta fra i compagni alla notizia della maxi multa del Chelsea. Il suo comunque è un arrivederci perché finita la carriera tornerà quasi certamente a Firenze. Adora la città, come la compagna Rebecca che ha avuto un ruolo importante nella decisione finale. Triste, ma inevitabile, dopo l’arrivo di Felipe.

Bisogna essere sinceri: il gol non era proprio impossibile da fare, ma sul tiro di Montolivo Castillo è scattato prima degli altri e per questo si è trovato da solo col pallone tra i piedi davanti alla porta sguarnita.
Cioè bisognava essere lì al momento giusto nel posto giusto.
E prima aveva fatto un paio di cose interessanti: le perplessità restano tutte, ma stavolta ha avuto ragione lui e poi, se farà ancora bene, io sarò felicissimo di essermi sbagliato su uno dei tre punti critici di cui parlo da fine agosto.
Abbiamo vinto una gara fondamentale per la corsa al quarto posto, l’abbiamo vinta giocando una gara viziata dalle tantissime assenze e trascinati da un Montolivo ancora strepitoso.
Stavolta davvero ci siamo, il ragazzo è continuo da fine settembre e questo pomeriggio si è caricato la squadra sulle spalle, una specie di Batistuta del centrocampo.
E ha segnato ancora Mutu: ma non era diventato un soprammobile per la Fiorentina?
Invece, se appena appena infila due mesi di salute piena, è ancora un campione, come era stupido dubitare negli scorsi mesi.

Ha ragione l’immenso Alfredo Provenzali: “Tutto il calcio minuto per minuto” è una fiaba e nessuna trasmissione televisiva potrà mai sostituire la magia delle voci delle radio.
Quelle voci: di allora, ma anche di oggi, perché sono tutti bravissimi e di molto superiori a quasi tutti quelli del video.
Auguri quindi ad una trasmissione eccezionale che compie 50 anni, che è stata per almeno tre lustri il mio giocattolo preferito, il mio premio alle fatiche settimanali.
E però oggi arriva a Firenze il Bari, e allora ho pensato che verrà in tribuna stampa a trasmettere un signore ultra cinquantenne che si chiama Michele Salomone e che segue i pugliesi dal 1978, cioè 32 anni.
Seguirlo però è un po’ limitativo come concetto.
Forse è meglio dire inseguito, perché per lunghissime stagioni, esattamente come il sottoscritto che però ha iniziato “solo” nel gennaio 1983, è scappato per anni dalle tribune stampe di mezza Italia, ha trasmesso da curve e balconi, è stato considerato, come tutti quelli che facevano le radiocronache, un intruso.
Perché il punto è proprio questo: nonostante che dal 1999 si corrispondano per trasmettere cifre impossibili da pensare solo qualche anno e che in qualche piazza (compresa purtroppo Firenze…) le radio private paghino alle società più o meno quanto scuce la Rai, ma senza avere il canone e facendo sacrifici enormi per recuperare almeno in parte quei soldi, l’idea è sempre quella di essere figli di un dio minore.
Lo dico e lo scrivo non con vittimismo, ma anzi con orgoglio.
Perché nel frattempo qualcuno di quelli che c’erano trent’anni fa è diventato addirittura nonno, eppure è ancora lì mezz’ora prima della partita a cercarsi la postazione, a discutere se l’hanno messo da un’altra parte in tribuna stampa, ad elemosinare un’intervista post partita con qualcuno della propria squadra senza avere altre venti emittenti prima.
Siamo un manipolo di gente innamorata pazza della radio e della propria squadra e nel giorno in cui rendiamo omaggio ai nostri fratelli maggiori della Rai vorrei che si ricordasse anche il lavoro che stiamo facendo da oltre tre decenni.

Si compra Natali dal Torino retrocesso e quindi (forse) non assistito da una difesa stile Inter degli anni sessanta e si pensa a Dainelli già con la maglia della Sampdoria.
Si compie un’ottima operazione di mercato acquistando Felipe, che però era riserva nell’Udinese che sta scivolando nelle zone basse della classifica e Dainelli lo si vede già in panchina, “perché la coppia dei centrali viola non può che essere quella costituita da Felipe e Gamberini”.
Ma perché?
E, soprattutto, come mai non si tiene conto che questa è stata la migliore stagione di Dainelli, che se fosse alla Juve andrebbe diritto in Nazionale al posto dell’ectoplasma Le Grottaglie?
Ci deve essere qualcosa di congenito che non va nel rapporto tra Dainelli e il popolo viola, parte della critica compresa.
A me Felipe piace molto, però dico che se la deve giocare alla pari, cosa che accadrà certamente con Prandelli, per avere un posto da titolare.
Con buona pace di tutti quelli a cui Dainelli, non si sa perché, resta proprio antipatico.

Piccola confessione: sul cinque a zero ho messo la televisione che avevamo in tribuna stampa su Parma-Juve, nella speranza che gli emiliani pareggiassero.
Lo so che per noi e per il quarto posto sarebbe stato meglio di no, ma è più forte di me: io tifo sempre contro la Juve.
Ho raccontato questo per dire di quanto fossi tranquillo e di quanto la Fiorentina ha stravinto la gara sotto tutti i punti di vista.
Il secondo gol di Gilardino è stata poesia pura, nella costruzione e nella finalizzazione.
Che grande attaccante abbiamo, e quanto se la tira poco rispetto a tanti altri!
Molto bene Felipe, ancora meglio Kroldrup, nessuno sotto il sei e umiliazione gigantesca per i senesi (in quattro idioti mi hanno offeso gratuitamente mentre tornavo a prendere la macchina, ma con gente del genere non c’è niente da fare).
Stasera ce la godiamo a tutto tondo, da domani pensiamo al Bari.

Poiché la sostanza conta molto di più dell’apparenza, a me il Corvino di oggi, ascoltato nella lunga diretta delle 12 di Radio Blu, è piaciuto.
Più misurato del solito, attento più a spiegare come stiano le cose che ad ingaggiare guerre all’arma bianca in chi non crede del tutto o in parte nel suo operato.
Cominciamo col dire che Felipe è una grande operazione, che chi storce la bocca lo fa per partito preso e che il risparmio di tre milioni di euro rispetto alla richiesta estiva dell’Udinese giustifica il ritardato arrivo di un difensore che non sia uguale a Kroldrup e Dainelli.
“Faccio quello che il mercato mi consente di fare”, ha detto Corvino ed è un’onesta ammissione della situazione in cui deve operare, rispettando budget di spesa e di monte ingaggi.
Credo che stia pensando seriamente al centrocampista, perché come noi è preoccupato dagli infortuni e che se dovesse capitare l’occasione per cambiare Castillo lo farebbe senza pensarci troppo su.
Preferisco mille volte un Corvino così ad altre sue versioni che mi sono sembrate sinceramente eccessive.
E adesso occhio e cuore solo al Siena.

Cristiano Zanetti è uno dei più forti centrocampisti italiani e nei primi cinque mesi della stagione ha surclassato nel rendimento Felipe Melo, costando dodici volte meno.
Ma Cristiano Zanetti, che va per i 33 anni, ha anche una media di 21 presenze a campionato nelle ultime tre stagioni juventine, dove saranno certamente peggio della Fiorentina come staff medico e atletico, ma non penso che siano proprio dei dilettanti.
Ventuno presenze significano poco più della metà, una percentuale che sinceramente non basterebbe alla Fiorentina per sentirsi tranquilla.
Sto seguendo con molta preoccupazione l’evolversi dei problemi fisici di Cristiano, anzi l’involversi, perché pare che nonostante le tre settimane di sosta non riesca ad esserci col Siena.
Si va, se non faccio errori, a oltre quaranta giorni di stop senza che ci sia stato un evento traumatico.
E abbiamo a questo punto due centrocampisti per due ruoli: Doandel e Montolivo, a meno di non voler riciclare Santana, Marchionni, Gobbi o Jorgensen.
Era il secondo, anzi il primo, dei tre appunti mossi a Corvino: non è che non avendo sostituito Kuzmanovic siamo un po’ corti a centrocampo?
Sul difensore Pantaleo ci ha accontentato alla grande, ora aspettiamo il seguito.

UN ABBRACCIO FORTE AD ANTONELLO

Mi sbaglierò, ma tutto questo grande rilancio di Toni io proprio non lo vedo.
A quasi 33 anni e con una classe che non è certo paragonabile a quella dei grandi attaccanti penso che l’ex viola abbia imboccato da almeno un anno la parabola discendente e tanto per essere ancora più chiari non esiste il minimo paragone con Gilardino.
Più preoccupante invece mi sembra, per le nostre ambizioni da quarto posto, questa ritrovata freschezza di Totti, che oggi ha rilasciato una grande intervista a Repubblica.
Altro giocatore, altra classe e se davvero starà bene a giugno non vedo perché non si debbe portare ai Mondiali.
Magari insieme a Montolivo, che dovrà ripartire esattamente da dove aveva finito il suo 2009.

Voglio solo la salute dal 2010, per me e per le persone a cui voglio bene, possibilmente per tutti.
Il resto non mi interessa: soldi, potere, donne, successo, non me ne frega niente.
Se arrivo o continuo a combinare qualcosa di buono nel mio lavoro bene, altrimenti pazienza.
Ho conosciuto da vicino il dolore come mai mi era successo nei miei 49 anni e solo per questo sono stato un uomo fortunato, anche perché non sono stato io a soffrire ma uno dei migliori amici.
Lo sapevo già, ma l’ho capito una volta di più che la fortuna più grande è poter stare bene, altro che vincere al Superenalotto o andare a piangere come fanno quegli idioti con i pacchi ad “Affari tuoi”, tutta gente da prendere a pedate nel fondo schiena quando si scioglie in lacrime perché ha azzeccato o sbagliato l’ultima scelta o quando si mette a leggere lettere penosissime.
Ma non divaghiamo: vi auguro uno straordinario anno, il quinto insieme, da vivere con le persone che amate.

Chi ha scritto quello che state per leggere è un giovane signore e scrittore molto in gamba che conosco personalmente per via del suo tifo appassionato per la Fiorentina.
Ma stavolta la passione calcistica non conta niente, seguite invece con attenzione quello che racconta oggi su Repubblica, fatevi un esame di coscienza e proviamo a vedere se col nuovo decennio che parte dopodomani riusciamo ad essere un po’ meno penosi di quello che siamo.

Quel ragazzo senza braccia
sul treno dell’indifferenza
di SHULIM VOGELMANN
CARO direttore, è domenica 27 dicembre. Eurostar Bari-Roma. Intorno a me famiglie soddisfatte e stanche dopo i festeggiamenti natalizi, studenti di ritorno alle proprie università, lavoratori un po’ tristi di dover abbandonare le proprie città per riprendere il lavoro al nord. Insieme a loro un ragazzo senza braccia.
Sì, senza braccia, con due moncherini fatti di tre dita che spuntano dalle spalle. È salito sul treno con le sue forze. Posa la borsa a tracolla per terra con enorme sforzo del collo e la spinge con i piedi sotto al sedile. Crolla sulla poltrona. Dietro agli spessi occhiali da miope tutta la sua sofferenza fisica e psichica per un gesto così semplice per gli altri: salire sul treno. Profondi respiri per calmare i battiti del cuore. Avrà massimo trent’anni.
Si parte. Poco prima della stazione di (…) passa il controllore. Una ragazza di venticinque anni truccata con molta cura e una divisa inappuntabile. Raggiunto il ragazzo senza braccia gli chiede il biglietto. Questi, articolando le parole con grande difficoltà, riesce a mormorare una frase sconnessa: “No biglietto, no fatto in tempo, handicap, handicap”. Con la bocca (il collo si piega innaturalmente, le vene si gonfiano, il volto gli diventa paonazzo) tira fuori dal taschino un mazzetto di soldi. Sono la cifra esatta per fare il biglietto. Il controllore li conta e con tono burocratico dice al ragazzo che non bastano perché fare il biglietto in treno costa, in questo caso, cinquanta euro di più. Il ragazzo farfugliando le dice di non avere altri soldi, di non poter pagare nessun sovrapprezzo, e con la voce incrinata dal pianto per l’umiliazione ripete “Handicap, handicap”.
I passeggeri del vagone, me compreso, seguono la scena trattenendo il respiro, molti con lo sguardo piantato a terra, senza nemmeno il coraggio di guardare. A questo punto, la ragazza diventa più dura e si rivolge al ragazzo con un tono sprezzante, come se si trattasse di un criminale; negli occhi ha uno sguardo accusatorio che sbatte in faccia a quel povero disgraziato. Per difendersi il giovane cerca di scrivere qualcosa per comunicare ciò che non riesce a dire; con la bocca prende la penna dal taschino e cerca di scrivere sul tavolino qualcosa. La ragazza gli prende la penna e lo rimprovera severamente dicendogli che non si scrive sui tavolini del treno. Nel vagone è calato un silenzio gelato. Vorrei intervenire, eppure sono bloccato.
La ragazza decide di risolvere la questione in altro modo e in ossequio alla procedura appresa al corso per controllori provetti si dirige a passi decisi in cerca del capotreno. Con la sua uscita di scena i viaggiatori riprendono a respirare, e tutti speriamo che la storia finisca lì: una riprovevole parentesi, una vergogna senza coda, che il controllore lasci perdere e si dedichi a controllare i biglietti al resto del treno. Invece no.
Tornano in due. Questa volta però, prima che raggiungano il giovane disabile, dal mio posto blocco controllore e capotreno e sottovoce faccio presente che data la situazione particolare forse è il caso di affrontare la cosa con un po’ più di compassione.
Al che la ragazza, apparentemente punta nel vivo, con aria acida mi spiega che sta compiendo il suo dovere, che ci sono delle regole da far rispettare, che la responsabilità è sua e io non c’entro niente. Il capotreno interviene e mi chiede qual è il mio problema. Gli riepilogo la situazione. Ascoltata la mia “deposizione”, il capotreno, anche lui sulla trentina, stabilisce che se il giovane non aveva fatto in tempo a fare il biglietto la colpa era sua e che comunque in stazione ci sono le macchinette self service. Sì, avete capito bene: a suo parere la soluzione giusta sarebbe stata la macchinetta self service. “Ma non ha braccia! Come faceva a usare la macchinetta self service?” chiedo al capotreno che con la sua logica burocratica mi risponde: “C’è l’assistenza”. “Certo, sempre pieno di assistenti delle Ferrovie dello Stato accanto alle macchinette self service” ribatto io, e aggiungo che le regole sono valide solo quando fa comodo perché durante l’andata l’Eurostar con prenotazione obbligatoria era pieno zeppo di gente in piedi senza biglietto e il controllore non è nemmeno passato a controllare il biglietti. “E lo sa perché?” ho concluso. “Perché quelle persone le braccia ce l’avevano…”.
Nel frattempo tutti i passeggeri che seguono l’evolversi della vicenda restano muti. Il capotreno procede oltre e raggiunto il ragazzo ripercorre tutta la procedura, con pari indifferenza, pari imperturbabilità. Con una differenza, probabilmente frutto del suo ruolo di capotreno: la sua decisione sarà esecutiva. Il ragazzo deve scendere dal treno, farsi un biglietto per il successivo treno diretto a Roma e salire su quello. Ma il giovane, saputa questa cosa, con lo sguardo disorientato, sudato per la paura, inizia a scuotere la testa e tutto il corpo nel tentativo disperato di spiegarsi; spiegazione espressa con la solita esplicita, evidente parola: handicap.
La risposta del capotreno è pronta: “Voi (voi chi?) pensate che siamo razzisti, ma noi qui non discriminiamo nessuno, noi facciamo soltanto il nostro lavoro, anzi, siamo il contrario del razzismo!”. E detto questo, su consiglio della ragazza controllore, si procede alla fase B: la polizia ferroviaria. Siamo arrivati alla stazione di (…). Sul treno salgono due agenti. Due signori tranquilli di mezza età. Nessuna aggressività nell’espressione del viso o nell’incedere. Devono essere abituati a casi di passeggeri senza biglietto che non vogliono pagare. Si dirigono verso il giovane disabile e come lo vedono uno di loro alza le mani al cielo e ad alta voce esclama: “Ah, questi, con questi non ci puoi fare nulla altrimenti succede un casino! Questi hanno sempre ragione, questi non li puoi toccare”. Dopodiché si consultano con il capotreno e la ragazza controllore e viene deciso che il ragazzo scenderà dal treno, un terzo controllore prenderà i soldi del disabile e gli farà il biglietto per il treno successivo, però senza posto assicurato: si dovrà sedere nel vagone ristorante.
Il giovane disabile, totalmente in balia degli eventi, ormai non tenta più di parlare, ma probabilmente capisce che gli sarà consentito proseguire il viaggio nel vagone ristorante e allora sollevato, con l’impeto di chi è scampato a un pericolo, di chi vede svanire la minaccia, si piega in avanti e bacia la mano del capotreno.
Epilogo della storia. Fatto scendere il disabile dal treno, prima che la polizia abbandoni il vagone, la ragazza controllore chiede ai poliziotti di annotarsi le mie generalità. Meravigliato, le chiedo per quale motivo. “Perché mi hai offesa”. “Ti ho forse detto parolacce? Ti ho impedito di fare il tuo lavoro?” le domando sempre più incredulo. Risposta: “Mi hai detto che sono maleducata”. Mi alzo e prendo la patente. Mentre un poliziotto si annota i miei dati su un foglio chiedo alla ragazza di dirmi il suo nome per sapere con chi ho avuto il piacere di interloquire. Lei, dopo un attimo di disorientamento, con tono soddisfatto, mi risponde che non è tenuta a dare i propri dati e mi dice che se voglio posso annotarmi il numero del treno.
Allora chiedo un riferimento ai poliziotti e anche loro si rifiutano e mi consigliano di segnarmi semplicemente: Polizia ferroviaria di (…). Avrei naturalmente voluto dire molte cose, ma la signora seduta accanto a me mi sussurra di non dire niente, e io decido di seguire il consiglio rimettendomi a sedere. Poliziotti e controllori abbandonano il vagone e il treno riparte. Le parole della mia vicina di posto sono state le uniche parole di solidarietà che ho sentito in tutta questa brutta storia. Per il resto, sono rimasti tutti fermi, in silenzio, a osservare.

« Pagina precedentePagina successiva »