GIORNALISTA MAI
La prima volta che ho pensato di voler diventare giornalista è stato a dieci anni e non ho mai capito bene il perché. Non c’è mai stato nessuno in famiglia che lo sia stato, a casa il giornale lo portava mio nonno la sera ed insomma non c’era tutta questa grande passione per la carta stampata. All’interno della comunità ebraica, che ho frequentato fino ai quattordici anni, per questa mia passione mi guardavano come se fossi un alieno, permettendomi comunque di fare e disfare tre giornalini di cui ero sempre il direttore: quando si dice la modestia… Finita la terza media riuscii a incontrare un paio di giornalisti de La Nazione per chiedere consigli, con la (mia) segreta speranza che mi avrebbero fatto scrivere qualcosa. La risposta fu identica e sconfortante: «te lo sconsiglio, è un mestiere in decadenza, vedrai che nel futuro non ci sarà più bisogno di giornalisti. Bisogna sacrificarsi molto ed avere delle conoscenze». Grazie dell’aiuto, grazie davvero. Era il 1974 e le stesse cose me le sono sentite ripetere per almeno vent’anni, fino a quando non è toccato a me dare consigli a chi voleva cominciare. E siccome mi ricordavo della fitta al cuore provocata da quelle parole, ho sempre cercato di spiegare a modo mio in cosa consistesse questo mestiere un po’ da puttane, invitando chi avevo davanti a proseguire se davvero ne aveva voglia.
La verità è che io giornalista nel senso pieno del termine non lo sono mai diventato. Nessuno mi ha mai assunto e così mi sono inventato imprenditore di me stesso, vendendo pubblicità, sempre con un senso di provvisorietà che mi angoscia da una vita, ma che forse è anche la mia vera forza. Non ho mai dato nulla per scontato e so che ogni anno bisogna ripartire da zero, in tutti i sensi. Però ho avuto anch’io la grande occasione e per almeno un paio di anni ho creduto che sarei diventato un giornalista “come tutti gli altriâ€?. Nel 1987 la Federazione Italiana Editori Giornali e l’Associazione Nazionale della Stampa avevano indetto una borsa di studio per permettere “l’accesso alla professioneâ€? a 35 giovani particolarmente meritevoli. L’assunzione al termine dell’anno di prova era quasi certa, visto che erano gli editori stessi a promuovere l’iniziativa. Mandai il curriculum e non seppi nulla fino al settembre del 1990, quando mi comunicarono che ero entrato fra i tremila idonei a sostenere le prove. Mi presentai a Roma e mi andò bene perché arrivai trentaquattresimo. Quando nel marzo del 1991 mi dissero che ero dentro la lista magica, provai un senso di indicibile euforia e vidi dischiudersi tutte le porte del Paradiso. Per cominciare la borsa di studio ci volle ancora un anno e così, ormai quasi trentaduenne, iniziai entusiasta l’avventura. Lavorai a La Nazione, all’Ansa e a Panorama, mi presi grandi soddisfazioni, vivendo per dodici mesi quella professione che era sempre stata il mio sogno. Alla fine però non arrivò niente, se non vaghe promesse di contratti a termine lontano da Firenze ed è stato a quel punto che ho finalmente smesso di pensare di voler fare il giornalista da grande. In compenso, a causa di quelle frequentazioni nelle redazioni, ho vissuto un doloroso divorzio e cominciato un’altra vita: qualcosa effettivamente è cambiato…

PRONTO MARIO
Ora che aveva comprato la Fiorentina, Mario Cecchi Gori poteva “finalmenteâ€? ascoltare le mie radiocronache dalla sua casa di Roma. La prima volta fu a Bergamo, quando perdemmo nel finale e lui fu comunque disponibile a commentare la partita. Gli piaceva il mio modo di trasmettere ed io trovavo incredibile che allo 06/3232… rispondesse immediatamente lui, senza il filtro di almeno una mezza dozzina di segretari particolari. E se non era Mario, toccava alla signora Valeria fissare le modalità di collegamento per quelle partite in trasferta che loro non potevano seguire. Una volta a Genova contro la Sampdoria raccontai ai cerberi che mi davano la caccia in tribuna stampa che stavo trasmettendo solo ad uso e consumo di Mario Cecchi Gori e siccome non erano affatto convinti glielo passai tramite radio. Il presidente si arrabbiò di brutto perché gli scagnozzi di Mantovani gli stavano facendo perdere parte della cronaca, il tutto in rigorosa diretta, e potei continuare a trasmettere. Col passare del tempo mi passò il timore reverenziale delle prime partite, anche se il passaggio decisivo avvenne solo un anno più tardi, a causa di un imbarazzante scambio di persone. Quando ero borsista a La Nazione, Angelo Giorgetti mi prendeva spesso in giro con questa storia delle telefonate di Cecchi Gori e così mi chiamava spesso facendomi degli scherzi. Un sabato sera suonò il cellulare: «David, sono Mario Cecchi Gori, domani non vengo a Firenze a vedere la partita, mi puoi far chiamare dalla radio?»
«Sì, va bene Agio, ma il sabato sera non potresti pensare a trom… invece che venire a rompere i cog… a me?»
«Ma veramente…»
«Dai, lo so che sei te, figurati se ci casco. Ti immagini se Mario Cecchi Gori, con tutte le cose che ha da fare il sabato sera e le attrici che si ripassa, chiama me»
«David, ma sono io, te lo assicuro, sono il presidente»
Era davvero Mario Cecchi Gori e precipitai velocemente in un turbinio di scuse e di “io credevo che fosse un mio amico giornalistaâ€?, “sa, scherzano sempre su questa cosa…â€?.

SCOOP CON BAGGIO
Ero riuscito ad avere il numero di telefono torinese di Baggio, che stava passando un periodo difficile, e due settimane prima del suo ritorno a Firenze da avversario provai a chiamarlo per registrare un’intervista. Erano le dieci di sera e lo trovai voglioso di parlare. Venne fuori ciò che i tifosi viola già immaginavano: quella maglia della Juve che Baggio aveva lanciato ai suoi nuovi tifosi dopo una gara di Coppe era un gesto chiesto ed imposto dalla società e non certo un moto dell’anima. Baggio, insomma, non si sentiva affatto juventino e raccontava con parole accorate della sua nostalgia per Firenze. Capii di avere in mano del materiale scottante ed il giorno dopo chiamai un paio di redazioni per sapere se volevano avere uno stralcio della chiacchierata. Ricevetti risposte evasive ed un po’ supponenti fino a quando non fui “intercettatoâ€? da Benedetto Ferrara di Repubblica, che mi convinse a dargli l’esclusiva dell’anticipazione, in cambio della citazione del mio nome nel pezzo, che sarebbe andato nell’edizione nazionale del giornale, e di Radio Blu, che sarebbe apparsa sotto il titolo.
Il giorno dopo scoppiò il finimondo. Venni cercato da tutti i giornalisti fiorentini per avere tutta l’intervista, gli unici che non chiamarono furono quelli che avevano sottovalutato la mia proposta e che adesso erano arrabbiati con me, non ho mai capito bene il perché. Da Torino Tuttosport e La Stampa scrissero addirittura che l’intervista era stata inventata e alla radio arrivò la telefonata di Caliendo, il procuratore di Baggio: un dialogo illuminante che venne opportunamente registrato da Rinaldo.
«Lei è il signor Rinaldo Pieroni, proprietario della radio?»
«Sì, signor Caliendo, mi dica»
«Sa, c’è questa storia dell’intervista di Baggio che sta provocando dei problemi a Roberto. Le consiglierei vivamente di non mandarla in onda»
«Mi pare che Baggio sapesse benissimo di parlare con Guetta in un’intervista che sarebbe stata registrata. Non vedo dove sia il problema»
«Il problema è che se voi mandate quell’intervista, io vi faccio chiudere la radio»
«Benissimo, signor Caliendo, grazie della telefonata».
L’intervista andò in onda nell’intervallo della radiocronaca di Lecce-Fiorentina, la settimana prima della gara con la Juve, nel momento di massimo ascolto e Radio Blu per fortuna non venne chiusa. E Robertino? Il più grande di tutti. Quando lo rividi a Torino nel settembre successivo ero un po’ imbarazzato perché sapevo bene quante rotture di scatole aveva avuto dalla Juve per “colpaâ€? del mio scoop.
«Sei arrabbiato?», gli chiesi
«Ma vaia, bischero, vieni qua», e ci abbracciammo.

6 APRILE 1991
Che giornata! Fu in quel pomeriggio che la curva Fiesole disegnò la più bella coreografia mai vista in uno stadio di calcio, con Firenze stilizzata in viola sul fondo bianco. Arrivava la Juve e per la prima volta c’era Baggio da avversario. La storia la sanno tutti: il gol di Fuser, il rifiuto di tirare il rigore, la parata di Mareggini, la vittoria finale. Quel sabato dimenticammo tutte le miserie di una stagione davvero avara di soddisfazioni e conquistammo qualcosa che andava al di là dei due punti. Uscendo dal campo prima del tempo per una sostituzione, Robertino raccolse una sciarpa viola e se la mise al collo: la Juve si era comprata il campione, ma l’anima era rimasta qui.

L’AFFARE ROGGI
Per un po’ nella nuova Fiorentina regnò il caos più completo. Talune scelte vennero fatte seguendo consigli di amici e di amici degli amici. Basta pensare a chi venne affidato l’ufficio stampa… Ad un certo punto, finalmente, sembrò chiaro che ci volesse uno dentro il mondo del calcio e così fu scelto Moreno Roggi. Aveva un ottimo passato da calciatore, troppo breve per colpa di una distorsione al ginocchio mal curata che lo costrinse ad interrompere l’attività quando già era in Nazionale. Innamorato da sempre della Fiorentina, Roggi aveva dimostrato di possedere un’intelligenza al di sopra della media e rimboccatosi le maniche svolgeva da anni con successo il lavoro di procuratore. Guadagnava più di quanto avrebbe preso in viola, ma accettò entusiasta il nuovo incarico. L’inizio non fu però dei migliori. Lasciò che Di Chiara si svincolasse a costo zero e passasse al Parma, mentre a Firenze tornava Carobbi, suo ex assistito; scambiò Buso con Branca della Sampdoria, acquistò Maiellaro dal Bari, pagandolo un po’ troppo. Si diceva che da Los Angeles Vittorio Cecchi Gori, l’unico figlio (per fortuna!) di Mario e Valeria, non fosse affatto contento dell’operato del direttore sportivo e soffiasse sul fuoco. Il punto di non ritorno fu l’acquisto dal Napoli di Marco Baroni. All’ex difensore delle giovanili viola era stato dato un valore in verità eccessivo: dieci miliardi di lire, tutte in contanti. A quel punto Mario Cecchi Gori sbottò e in un’intervista a Radio Blu parlò apertamente di imbroglio, accusando neanche troppo velatamente Roggi di disonestà. Antognoni, dirigente della Fiorentina e amico da sempre di Moreno, non sapeva più che pesci prendere, l’ambiente viola, era tanto per cambiare spaccato in due fazioni. Roggi si dimise, entrò in una fase di depressione ed un paio di mesi più tardi, con un gesto di gran classe invitò alcuni giornalisti nella sua casa all’Ugolino, anche quelli che si erano schierati contro di lui. Come ringraziamento del lavoro svolto in quei mesi insieme, regalò a tutti i presenti un orologio Swatch, che nessuno rifiutò. Personalmente non ho mai pensato che Roggi avesse voluto fare la “crestaâ€? su Baroni perché se voleva rubare ci sarebbero stati tanti modi meno appariscenti per spillare quattrini a Cecchi Gori. Ero semmai perplesso per le operazioni di mercato da lui condotte e ancora oggi, quando capita di parlarne insieme, non riesce a convincermi che fosse davvero meglio dare via Di Chiara per riprendere Carobbi.

PRIGIONIERI DI DUNGA
La Fiorentina finì il campionato al dodicesimo posto, con l’unico acuto della vittoria casalinga contro la Juve. Il giovane Malusci, esploso nell’ultima fase della precedente stagione, stava pagando un’inevitabile crisi di crescita ed il bilancio di Lazaroni era desolante. Al suo attivo poteva vantare solo l’invenzione tattica di Di Chiara terzino e la completa fiducia concessa al diciannovenne Massimo Orlando, ma il resto era da dimenticare. Mario Cecchi Gori avrebbe voluto mandare via Lazaroni subito, a fine campionato, ma c’era, insormontabile, il problema Dunga. Il capitano, ancora una volta tra i migliori, aveva detto più volte che Lazaroni doveva rimanere. E così fu, fra il malumore generale. Si tentò invano di trattenere Fuser, arrivato in prestito dal Milan, e per sostituirlo arrivò da Lecce per una cifra davvero ingiustificata il timido Mazinho, che fece un grande pre-campionato, per poi sparire nell’anonimato. Intanto si aspettava dall’Argentina il fantasista Diego La Torre, che era già stato acquistato e di cui si parlava un gran bene. Il rampollo di casa Cecchi Gori aveva nel frattempo deciso di occuparsi sempre più da vicino delle vicende viola e fu per questo che si mise a guardare le cassette della Coppa America, dove La Torre era impegnato. All’improvviso Vittorio scoprì un ragazzone di ventidue anni nativo di Reconquista, un centravanti po’ grezzo tecnicamente, che però la metteva dentro quasi sempre. Il suo nome era Gabriel Omar Batistuta.