La mia voce in viola


UN LIBRO DI SENTIMENTI, PASSIONE E VERITA’: PIACEREBBE A MONTANELLI
Di Filippo Grassia

Un libro di sentimenti e di verità, scritto con il cuore, senza calcoli: leggibilissimo e godibilissimo. Per questo avrà fortuna. Indro Montanelli l’avrebbe divorato di gusto, lui che ogni settimana scommetteva scaramanticamente sulla sconfitta della Viola, per la scorrevolezza, la puntualità e l’incisività dello stile. A lui, che scriveva senza fronzoli, piaceva dire: “Se un lettore qualunque fatica a leggere un tuo pezzo in metropolitana, vuol dire che non sei un buon giornalista, non lo sei ancora”. Lo diceva con un pizzico di cinismo, quanto gli serviva per porsi in affettuosa antitesi con Bettiza che su ogni frase ci ricamava. Guetta avrebbe fatto la sua figura nella squadra di Montanelli, mi sento di affermarlo dopo essere stato con Cilindro per sette anni al “Giornale Nuovo” e averlo seguito in altre escursioni. Mi direte che questo è un romanzo (o meglio, un saggio) e non un foglio quotidiano di carta stampata. Ma il discorso non cambia di una virgola laddove la chiarezza di esposizione, come nel nostro caso, non ha niente da spartire con la banalità. E poi, come scriveva Vasco Pratolini, “le idee non fanno paura a chi ne ha”.
In questa opera, che non è minimale e poi spiegherò il perché, l’autore la fa da protagonista, ma in modo lieve. E’ la storia particolare, soggettiva e comunque vera delle cose viola dai primi anni ottanta a oggi, una storia raccontata dall’osservatorio ora ingenuo, ora tifoso, ora privilegiato di David. E’ un libro che riesce a essere molto fiorentino senza cadere nel provincialismo tipico delle città mediane che vorrebbero ma non possono. Da queste parti il calcio è cosa essenziale, attraversa e abbraccia ogni ceto sociale, fa parte del Dna comune, non è la metafora della vita, è la vita stessa. Altrimenti la nuova Florentia in C2 non avrebbe più pubblico della vecchia Fiorentina in A. L’amore non si misura di norma a peso, stavolta però i numeri dicono quanto intenso e profondo è il sentimento che lega la gente di qualsiasi strato sociale alla squadra di pallone. Un concetto sospeso in ogni capitolo.
Se c’è un motivo che ho apprezzato in modo particolare, è il modo con cui Guetta si pone nei confronti dei suoi interlocutori. Di ciascuno racconta il suo rapporto con sincerità perfino sorprendente. La diplomazia è una utopia. I colori sono forti, i sentimenti espressi con forza. Prendete ad esempio i riferimenti al damigello di Vittorino Cecchi Gori dal cognome lunare. O talune sorprendenti rivelazioni. Come il mancato passaggio di Batistuta a Robbiati in un Roma-Fiorentina perso sul filo di lana nell’anno del mancato scudetto trapattoniano. “Ma guarda quanto è egoista”, mi dissi vedendo in tivù la scena del mancato raddoppio che avrebbe significato la quinta vittoria consecutiva. Da Guetta imparo invece che Batigol non passò il pallone al compagno meglio piazzato per via di uno screzio da spogliatoio.

E’ un peccato, questo sì, che David (a me piace chiamarlo Davìd con l’accento sull’ultima vocale) non abbia avuto uno spazio nazionale. Nel panorama dei radiocronisti di “Tutto il calcio minuto per minuto” farebbe un figurone. Lo conobbi in un pomeriggio d’estate del ’93, presentatomi dal satellite di Vittorino Cecchi Gori. In quei giorni avevo ricevuto l’offerta di dirigere Canale 10 e iniziare una strana avventura televisiva che abortì a metà strada. Inevitabile con quei compagni di cordata. “Guetta?”, dissi. “E chi è?”. Invece sapevo molto di lui.
Per una curiosa coincidenza un’amica di Lucca, straordinaria tifosa viola, mi aveva detto: “Guarda che se accetti la proposta e vai a Firenze, devi prendere Guetta. E’ uno incredibile, lo devi ascoltare, macina parole a un ritmo spaventoso, ti mette l’ansia, ti fa venire l’infarto, ma è unico. O sei allo stadio o devi vivere la partita con le sue parole. Dammi retta”. A distanza di tre giorni ricevetti un pacchetto con tre cassettine, sul nastro altrettante radiocronache di Guetta: uno spettacolo. Mi ero detto, dieci minuti e via. Dopo un’ora ero ancora lì a gingillarmi con la voce di Guetta che dava di ogni azione una interpretazione particolarissima: vera, falsa, chissà, alla Guetta. Il massimo per chi ha la Fiorentina nel cuore, nell’anima, nella testa.
Con Davìd ho trascorso un anno e mezzo a Firenze, un anno e mezzo tanto difficile quanto esaltante. In quel periodo ho imparato ad amare la città dei Medici. E i fiorentini mi hanno riservato un trattamento speciale, da re. Il giorno che chiusi con Canale 10, lanciarono dei volantini a mio favore: non lo dimenticherò mai. Per questo e altro ancora sono felice dello spazio riservatomi dall’editore Giannelli e dall’autore Guetta: felice ed onorato. Nel libro di Davìd ho ripercorso tante tappe della mia vita, sarà così per tutti coloro che portano un giglio all’altezza del cuore.

TIFOSI
Avevano ragione loro, Lodà, Rocchi e Sartoni. C’era magari un po’ troppa fantasia nella loro ricostruzione dei fatti, però era vero che la Fiorentina stava andando verso la rovina. Ci hanno provato in tutti i modi a fare qualcosa, ed è proprio per questo iper attivismo a fin di bene che non ho mai calcato la mano quando hanno commesso alcuni errori. Come tenere fuori Luna dalla contestazione della Fiesole. Mai uno striscione contro chi aveva avuto per nove anni la responsabilità della Fiorentina, possibile che non avesse colpe? Il fatto che nel finale della storia Lucianone nostro si fosse seriamente impegnato per vendere la società gli ha probabilmente restituito una discutibile verginità, ma non tutti hanno capito i motivi del suo “salvataggio”. Una sciocchezza è stata poi aspettare Mancini sotto casa sua alle una di notte. Il tecnico ha poi certamente strumentalizzato pro domo sua tutta la vicenda, ma a quell’ora di solito si va a dormire e non ci si mette a discutere di tattica o si dimissioni.
Comunque sia, l’amore ostinato, e dall’esterno incomprensibile, dei tifosi viola è stato fondamentale per non sparire definitivamente. Senza di loro la Fiorentina sarebbe stata solo un guscio vuoto, al massimo un ricordo struggente per chi come me l’aveva avuta come fedele compagna di tutta una vita.

FARNETICAZIONI TELEFONICHE
9 dicembre 2001, Lazio-Fiorentina all’Olimpico. Tre file sopra la mia postazione è seduta Valeria Marini, tragicamente inviata fissa per “Quelli che il calcio…”. Decido nell’intervallo di chiederle se mi rilascia un’intervista, lei prende il telefonino e compone il numero di Cecchi Gori.
«Vittorio, c’è qui un giornalista che vuole parlare con me: che devo fare? … Si chiama Guetta. Sì, va bene, te lo passo».
E comincia così il mio ultimo colloquio con il presidente-ex senatore-produttore.
«David, qui mi hanno tradito tutti, ma ti rendi conto mi hanno venduto Repka e Leandro (sai che perdita!) senza dirmi niente. Mi vogliono ammazzare, ma io so’ più forte di tutti»
«Vittorio, senza le cessioni di Repka e Leandro a settembre la Fiorentina falliva…»
«Ma che fallimento! Ho dei soci pronti ad entrare, mi hanno pugnalato alle spalle, io non volevo vendere nemmeno Rui Costa»
«E con cosa pagavi gli stipendi?»
«I soldi ci sono!!! Ma ora arrivo a Firenze e cambio tutto, mi volevano prendere la Fiorentina per un tozzo di pane, ma te ne rendi conto?»
«Vittorio, e Barucci? Lo hai incontrato?»
«Ma chi caz.. è Barucci? Ma che vuole? Io non voglio vedere nessuno, Mancini ci porterà in Uefa»
«Vittorio, sta per ricominciare il secondo tempo, ti devo lasciare perché vado a trasmettere la radiocronaca»
«Aho, ma dille queste cose alla radio, perché non mi chiami a fine partita? Faccio un intervento e così spiego per bene la situazione»
«Magari alla prossima trasferta, ora ti sento un po’ troppo agitato. Ciao Vittorio».

IL CORAGGIO DI POGGI
Quello di Ugo Poggi è stato l’ultimo serio tentativo di salvare la Fiorentina, peccato che Cecchi Gori stesse ormai affogando nel disastro economico da lui stesso provocato. Il nuovo presidente chiese a tutti con molta umiltà di dargli una mano, «perché solo uniti avremmo evitato il disastro», che lui pensava circoscritto ad una nuova retrocessione. Devo riconoscere a Poggi una grande lealtà nel comportamento con Canale Dieci. In quei pochi mesi di presidenza non mi ha mai fatto pressioni per far cessare gli attacchi all’ex presidente-ex senatore-quasi ex produttore. Quando anche lui gettò la spugna, perché stufo delle continue menzogne di Vittorio, capii che ormai non c’era più nulla da fare. Speravo però che qualcuno potesse intervenire per comprare la Fiorentina o che comunque il “sistema calcio” avrebbe impedito che sparisse per sempre una delle grandi del campionato.

SEMPRE PIU’ GIU’
Occupazione della sede da parte dei tifosi, un pregiudicato riciclato da Vittorio come possibile socio, la marcia dei ventimila tifosi per dire basta alle nefandezze cecchigoriane: che giornate da incubo! A giorni alterni Vespa e Costanzo spiegavano ai loro milioni di telespettatori quanto Cecchi Gori fosse bravo ed incompreso, facendoci passare tutti per imbecilli. Senza dimenticare quel brav’uomo di Carraro, che nel gennaio 2002 certificò come ottimo il bilancio viola, beatificando Vittorio e dicendoci in pratica di non rompere più le scatole. Che schifo.
Poi, improvvisamente, ecco arrivare Zerunian Sarkis ad insegnarci come si doveva vivere. Accanto a lui Bianchi Ottavio, che una volta fallito il compito in panchina centrò, da presidente, l’impossibile obiettivo di peggiorare la situazione. Di loro due, i posteri ricorderanno nei secoli dei secoli un unico gesto significativo: l’accredito sui rispettivi conti correnti degli ultimi sei mesi di stipendio, proprio il giorno prima di essere cacciati dal tribunale di Firenze. Che tempismo! Proprio quello che era mancato quando dovevano chiedere al loro padrone di onorare le cambiali che avrebbero restituito alla Fiorentina gli ormai famosi 72 miliardi “imprestati” nel 1999. Mancavano proprio Zerunian e Bianchi a completare la galleria degli orrori degli ultimi tre anni viola, ora eravamo definitivamente a posto.

VEDE DOTTORE…
Ma sì, mettiamoci anche un po’ di leggerezza nel raccontare quegli ultimi mesi di dolore. Il professor Fazzini, stimato presidente dell’ordine dei dottori commercialisti, venne scelto dal tribunale per una missione impossibile: salvare la Fiorentina, rispettando la legge. Fu così che un ottimo professionista si trovò per mesi sulle prime pagine dei giornali, intervistato da radio, siti internet e televisioni un giorno sì e l’altro pure. A lui la cosa doveva piacere moltissimo, perché, sempre armato di un sorriso smagliante, non ha mai rifiutato un contatto con i cosiddetti media. E con tutti aveva indistintamente questo intercalare, “vede dottore”, che fece della strampalata congrega dei giornalisti fiorentini la categoria accademicamente più avanzata d’Italia. Sentii dare del dottore a certa gente che aveva concluso con fatica le scuole medie, principi del congiuntivo dall’italiano improbabile o in alcuni casi impossibile. Mi sarebbe piaciuto che qualcuno glielo avesse fatto notare con discrezione, ma persi ogni speranza quando mi capitò di ascoltare l’ennesima intervista, concessa stavolta nientepopodimeno che a Giorgio Masala.
«Abbiamo qui il professor Fazzini, allora professore ci dica a che punto siamo con le cambiali di Cecchi Gori?»
«Vede dottore…».

ULTIMI GIORNI
Il 30 giugno 2002 passai il pomeriggio in preda ad uno stato di febbrile angoscia: se la Fiorentina non avesse trovato quindici miliardi, avrebbe chiuso lì la sua gloriosa storia. Era la domenica della finale mondiale e non succedeva niente. Finalmente, alle nove di sera, Gianni Ceccarelli mi inviò un messaggio sms per informarmi che Inter, Milan e Juve avevano comprato Moretti e Ceccarelli (il giocatore, non il giornalista) proprio per quindici miliardi. Era la conferma alla mie speranze di salvezza: il “sistema calcio” non ci avrebbe fatto morire!
Seguirono giornate convulse, con tante false notizie e millantatori vari che si accreditavano di volta in volta come possibili acquirenti. Ma io sapevo che i debiti erano così alti che solo Cecchi Gori avrebbe potuto tirare fuori il coniglio bianco ed iscrivere la gloriosa A.C. Fiorentina alla serie B. Il 25 luglio andò deserta l’asta per acquistare la maggioranza della società, quasi una rivincita per Vittorio, la dimostrazione che non c’era proprio nessuno pronto a buttare i soldi per la squadra di calcio di Firenze. Tutti quelli che cercavano solo pubblicità erano spariti, dall’untuoso Repetti agli olandesi volanti, passando per Fratini, che durante un Pentasport avevo implorato in diretta di intervenire. Non restava che lui, Cecchi Gori, l’uomo che ci aveva rovinato e da cui dipendevamo tutti per non sparire.

LA FINE
Gli ultimi giorni di luglio li passai in un crescente delirio di sterile attivismo. Chiamavo almeno due volte al giorno Benedetto Ferrara, in ritiro a Roncegno, nella speranza che lui, informatissimo, mi desse qualche buona notizia. Martellavo continuamente il mitico ragionier Righetti, per sapere qualcosa del famoso bonifico da 22 milioni di Euro che ci avrebbe iscritto al campionato; mi attaccavo al telefono con Lodà, che aveva a sua volta un filo diretto col professor Barucci, riesumato da Cecchi Gori come consulente. Ormai non ero più un giornalista, ma solo un tifoso distrutto che aveva la fortuna di conoscere gente che lo avrebbe informato prima degli altri. Condussi dei Pentasport allucinanti, trasmettendo solo angoscia a chi ci ascoltava. Letizia e le bambine erano al mare, io tornavo la sera a casa e mi buttavo sul divano incapace di qualsiasi iniziativa. Per una settimana mi svegliai continuamente alle quattro del mattino e come uno zombi mi mettevo davanti al televisore in uno stato catatonico. Una volta mi venne quasi da piangere a vedere su Raisat album degli spezzoni della Fiorentina degli anni settanta. C’erano Antognoni e Merlo, con la maglia tutta viola e senza sponsor: quella era la mia Fiorentina, la squadra che quando perdeva rovinava la mia domenica. Come era potuto succedere che stesse per scomparire?
Ogni giorno però il direttore del Corriere dello Sport-Stadio Italo Cucci ci rassicurava che ci saremmo salvati, facendo addirittura passare Cecchi Gori, con cui aveva un contatto diretto, come un martire: vende il cinema Adriano, no, c’è un piano di Tatò, lo aiutano le banche. Una sera, esasperato, feci una sparata terribile contro il sindaco Domenici e l’assessore Giani, colpevoli a mio parere di immobilismo e sostenni il giorno dopo un contraddittorio proprio con Giani, che spiegò agli ascoltatori come invece lui ed il sindaco avessero tentato (inutilmente) di percorrere ogni strada possibile. Aveva ragione, ed è proprio a Domenici e Giani che tutti i tifosi viola devono qualcosa se non ci hanno seppellito definitivamente il giorno della morte della vecchia Fiorentina.
Il 30 luglio riuscii a ricordarmi di essere ancora un giornalista e realizzai lo scoop della banca colombiana che aveva mandato un fax in Fiorentina per assicurare l’arrivo dei soldi. La mia fonte era sicura e perciò sparai la notizia, che venne immediatamente ripresa da tutte le testate nazionali. Era l’ultimo penoso bluff dell’ex presidente-ex senatore-ex produttore, una cosa talmente ridicola che ci sarebbe stato da ridere, se non fosse stato per la gravità del momento.
Il 31 luglio mattina Lodà e Sartoni mi assicurarono che tre bonifici erano partiti da tre banche diverse per coprire i 22 milioni di Euro necessari per iscrivere la Fiorentina al campionato. Eravamo quasi fuori tempo massimo, ma in Federazione avrebbero aspettato anche l’ultimo secondo pur di non escluderci. Fu una giornata terrificante, passata al telefono a farci coraggio: arrivano, stanno per arrivare, le banche chiudono tra pochi minuti e dei soldi non c’è traccia, non arriva più niente. Speravo ancora in un colpo a sorpresa di Vittorio, tipo lui che si presenta a Roma con l’assegno in mano proprio mentre la Fiorentina sta per essere spedita in Eccellenza. La mazzata finale me la dette alle 20.30 Leonardo Bardazzi, che mi chiamò dalla redazione fiorentina di Stadio: .
Maledetto! Dieci, mille, un milione di volte maledetto! Ci hai rovinato, hai ucciso un amore vero solo per le tue pazzie, ci hai tenuto in ostaggio negli ultimi due anni, ci hai costretto nell’ultimo mese ad uno stato di febbrile angoscia che è stato quasi peggio della mancata iscrizione. Maledetto, non ti perdonerò mai.
Dormii tre ore quella notte, e quando mi alzai alle sei del mattino del primo agosto guardai allo specchio la mia faccia stravolta. Mi dissi: ora basta, dobbiamo ripartire. Dovevo condurre una diretta lunghissima, la più difficile trasmissione della mia vita e non potevo permettermi di comunicare agli altri la mia angoscia. Avremmo ricominciato anche dall’Eccellenza, avremmo fatto vedere al mondo di che cosa sono capaci i fiorentini, come successe con l’alluvione nel 1966. Arrivai a Prato e cominciai a parlare…

2001/2002
Non ce la faccio a mettere in ordine razionalmente gli avvenimenti dell’ultimo anno di vita della Fiorentina. Altri lo hanno fatto con dovizia di date e di particolari, io proprio non ci riesco. Posso solo fidarmi delle mie sensazioni, dei ricordi di un’agonia che negli ultimi giorni è stata davvero straziante. E’ ovvio che si sta parlando “solo” di una squadra di calcio, però è come se mi avessero strappato qualcosa dentro, e non solo per i problemi legati al lavoro. Certo, c’era anche la preoccupazione di sapere che fine avremmo fatto con i nostri programmi e le nostre radiocronache, ma quel malessere che sentivo affiorare giorno dopo giorno arrivava da molto più lontano. Era la rabbia per l’impossibilità di fare qualcosa che salvasse quei ricordi tutti in viola che avevo fin da bambino, quei trentacinque anni di stadio e di amore verso una squadra che non era mai stata dei presidenti o dei giocatori, ma solo nostra, dei tifosi che l’hanno accompagnata in tutte queste stagioni. E’ impossibile perdonare chi ha ucciso la Fiorentina, io almeno non lo farò mai.

LO STRAPPO
Finalmente nel giugno del 2001 decisi che ne avevo abbastanza di Cecchi Gori e di tutta la sua banda di tirapiedi che si stavano alternando a Firenze. Con onestà dissi ai responsabili di Canale Dieci che ero ormai giunto al punto di non ritorno e che avrei attaccato continuamente Vittorio, in radio ed in televisione. Presero atto della mia decisione e non tentarono nemmeno di convincermi a cambiare idea. Grazie alla bolgia dantesca in cui era precipitato l’intero gruppo Cecchi Gori, riuscii a sopravvivere senza troppi problemi fino al rocambolesco arrivo alla guida della Fiorentina dell’ex esperto di leasing Sarkis Zerunian, che cercò inutilmente di bloccare i miei attacchi. Dal Ring dei Tifosi sparavo puntualmente contro Cecchi Gori, aspettandomi ad ogni puntata la telefonata di ammonizione o addirittura la soppressione del programma. Ed invece niente, evidentemente anche i vecchi ruffiani del presidente-ex senatore-produttore avevano capito che non c’era più nulla da fare.

FALLIMENTO SI’, FALLIMENTO NO
C’è un antico adagio fiorentino che dice: “fatti un nome, piscia a letto e diranno che hai sudato”. Ecco, nel mio appiattirmi a tutto ciò che mi raccontava il professor Barucci, non ho fatto altro che seguire questa vecchia massima popolare. Consideravo l’ex ministro del Tesoro e grande tifoso viola la massima autorità in materia finanziaria, e siccome mi aveva detto che finire di fronte al tribunale fallimentare sarebbe stata la nostra fine, ho recepito al cento per cento il suo suggerimento, scatenando una furibonda campagna radiofonica e televisiva contro l’ipotesi del fallimento. Manca certamente la controprova, ma se a settembre il giudice Puliga non avesse “assolto” dai suoi misfatti la Fiorentina, siamo sicuri che le cose non sarebbero potute andare meglio?

ZIG ZAG
Boicottiamo gli abbonamenti perché in questo modo si aiuta Cecchi Gori.
No, andiamo a fare gli abbonamenti per evitare il fallimento. Stringiamoci intorno a Mancini, perché solo così ci potremo salvare.
Facciamo la guerra a Mancini, che si è scagliato contro Luna, a sua volta è entrato in conflitto con Cecchi Gori, che non vuole più vendere la Fiorentina.
Qualsiasi compratore è meglio di Cecchi Gori, anche Tootoonchi con quattro o, il discusso e discutibile Pulsoni, la catena di orafi aretini di Pupo, la holding lussemburghese di Luna.
E se invece Berlusconi desse una mano al suo amico Vittorio e rimettesse a posto i conti? In fondo chi ha portato a Firenze Batistuta, Rui Costa, Toldo e Chiesa? Due anni fa eravamo in Champions Leagues…
Poveri giocatori, sono rimasti lo stesso a Firenze e non prendono una lira da mesi: dobbiamo solo applaudirli per l’impegno che ci mettono.
Sono solo una banda di mercenari, che pensano unicamente ai quattrini: peggio di così non ci poteva capitare, proprio nell’anno più disgraziato.
Come si fa a non uscire pazzi da questo ping-pong di sentimenti, questo fiume in piena di parole dove tutti si sentivano autorizzati a dire tutto e due giorni dopo il contrario?

MERCENARI
Una cosa comunque è certa, e lo hanno dimostrato un anno più tardi i calciatori delle altre squadre finite in mezzo a crisi finanziaria addirittura peggiori di quella viola: tranne Di Livio e al massimo un altro paio di eccezioni, tutti gli altri giocatori della rosa della stagione 2001/2002 si dovrebbero vergognare per il comportamento tenuto nei dieci mesi in cui invece ci avrebbero dovuto salvare. Con la Fiorentina ancora in serie A, sarebbero arrivati da Stream quei 45 miliardi che avrebbero garantito l’iscrizione al campionato. Sono stati indegni della maglia che portavano e dell’affetto di una città che ha capito troppo tardi a che gioco questi signori stessero giocando. Eravamo così (giustamente) pieni di rabbia verso Cecchi Gori, che non ci siamo accorti di come ci prendessero per il naso. Sparito il 30 settembre Chiesa per infortunio, è sparita tecnicamente la squadra, ma questi atleti (presunti) avevano ingaggi da favola, basta pensare che la Fiorentina era al settimo posto in Italia come emolumenti pagati. Ed invece hanno pensato solo a mettere in mora la società ormai boccheggiante, hanno tirato indietro la gamba, sono stati penosi come uomini. Due di loro, quel fenomeno di Marco Rossi e Nuno Gomes, hanno perfino cercato di far fallire prima del tempo la Fiorentina per cinquanta milioni di premi non pagati. Un altro, il “simpatico” Morfeo, ha per mesi fatto finta di avere la bua al piede pur di non giocare. Scandalosi tutti, ma qualcuno più degli altri.
Ho un sogno impossibile nel cassetto. Una bella partita della vergogna, con in campo i protagonisti della nostra ultima stagione, una specie di passerella al contrario: il disastroso Amoroso, il supponente sputasentenze Baronio, l’uomo della notte Cois, il sindacalista Vanoli, l’ex umile Torricelli, l’irascibile moviola Pierini, lo “scusatemi, ma ho fatto una scelta di vita” Adani, il “chi mi tira in porta segna” Taglialatela, quel fenomeno di Marco Rossi, il portoghese sbagliato e stramiliardario Nuno Gomes, l’inarrivabile Morfeo, l’impomatato Mijatovic (se ce la fa a scendere in campo), il decotto Ganz, il ragazzo prodigio con annesso sito personale Moretti. Per questa storica occasione vorrei anche due allenatori in panchina: il montato Mancini, l’amico di Cecchi Gori, e il grande bluff, cioè Bianchi, magari con Peppinello Pavone (mai presa una responsabilità o un’iniziativa, solo i tanti milioni netti di stipendio) a fargli da degno assistente. Che spettacolo sarebbe sentire il Franchi venire giù dai fischi per questi uomini (ci vuole un certo sforzo a chiamarli così) che hanno finito di ammazzare la Fiorentina.

ROSSITTO COME RUI
A dicembre dimenticammo improvvisamente Batistuta per merito di Terim. Dopo un inizio stentato, la squadra cominciò misteriosamente a volare e alla seconda vittoria consecutiva, di ritorno da una trasferta ad Udine, cominciai addirittura a fare tabelle scudetto. Fu proprio in quella partita in Friuli che assistemmo ad un vero e proprio miracolo calcistico, qualcosa che avrebbe richiesto spiegazioni trascendentali: all’inizio del secondo tempo, infatti, Rossitto cominciò a giocare divinamente. Dribblò anche tre uomini in fila e non sbagliò più un passaggio, roba da confonderlo con Rui Costa. Logicamente il merito era tutto di Terim, talmente bravo psicologicamente da convincere lui, Bressan, Pierini e Firicano di essere diventati dei fenomeni. Vincemmo ancora in casa contro il Verona, pareggiammo con uno spettacolare tre a tre a Torino con la Juve (il primo punto in dieci anni al Delle Alpi!) e strapazzammo il Milan al Franchi con un umiliante quattro a zero. Fantastico. Quasi troppo bello per essere vero, ed infatti, come da tradizione, trovammo il modo di rovinare tutto in poche settimane.

IL DEMIURGO
«Mario, ma perché hai deciso di venire a lavorare nel gruppo Cecchi Gori?»
«Perché io sono uno che risolve i problemi. L’ho sempre fatto nella mia vita e sarà così anche con Vittorio. Vedrai, ci divertiremo».
Il colloquio tra me e Sconcerti andò in onda a Radio Blu sabato 2 dicembre 2000, pochi giorni dopo l’addio del “direttore” al Corriere dello Sport-Stadio e a poche settimane dal suo ingresso nel gruppo Cecchi Gori. Mario venne subito a trovarci Canale Dieci per preparare la truppa a clamorosi cambiamenti editoriali.
«I soldi ci sono – ci disse – non fatevi ingannare da chi afferma il contrario, è solo gente che ce l’ha con Vittorio. Adesso però voglio da voi aggressività: dobbiamo essere ovunque, nulla ci deve fermare». Sconcerti era senz’altro un grande giornalista, ma sapeva di televisione più o meno quanto me di cucito, e dopo pochi giorni, di fronte ai mille problemi tecnici quotidiani, si era già dato una calmata. L’annuncio del suo arrivo venne dato durante la cena di fine anno dei giornalisti sportivi toscani, senza, pare, che ne sapessero niente Luna ed Antognoni. Non appena appresa la fatale notizia, Lucianone nostro sparì come era solito fare nei momenti difficili, mentre Antognoni cominciò la sua guerra neanche troppo sotterranea a colui che aveva sempre considerato un avversario.

NEMICO DEL MIO IDOLO
E così, ad un certo punto, sono entrato anch’io nella lista nera di Giancarlo. Provo con molti sforzi a capire cosa gli sia passato per la testa: siccome avevo lavorato (bene) con Sandrelli e da anni conducevo alla radio una rubrica con Sconcerti, non potevo che essere un loro alleato. E se ero un loro alleato, diventavo automaticamente un suo nemico. Questa storia, in fondo molto stupida, va avanti da troppo tempo e temo che le parole velenose di Antognoni abbiano involontariamente fatto breccia nella parte più idiota della tifoseria. Una volta, in piena bufera, presi carta e penna per scrivergli una lettera affettuosa, in cui mi sforzavo, nonostante tutto, di capire il suo stato d’animo giustificandolo pure, visto che aveva appena deciso di lasciare la Fiorentina. La sua risposta fu agghiacciante: dopo qualche giorno andò in una radio e disse che “Guetta si sa perché si comporta così (non ho mai capito a cosa si riferisse): vuole diventare addetto stampa della società”. Una falsità assoluta ed inedita, condita da un’altra dichiarazione in cui affermava che “di Guetta comunque non mi occupo troppo perché è un pesce piccolo”. Era chiaramente in guerra con il mondo e, attaccandomi, pensava di conquistare chissà quale fortino. Una settimana prima in televisione mi aveva urlato: “stai zitto te, che fai parte del clan dei Marsigliesi”. Potevo tranquillamente querelarlo, prendere un sacco di soldi, ma avrei fatto a botte con la mia coscienza e con quello che lui ha rappresentato per me nei quindici anni in cui giocava. Ho lasciato perdere e non me ne pento: i sogni di un ragazzo non possono essere svenduti in una causa per risarcimento danni. Meglio dimenticare.

SCINTILLE
Ovviamente l’imperatore-due ed il demiurgo entrarono in rotta di collisione dopo nemmeno una settimana di lavoro insieme. Il pretesto era il rinnovo del contratto di Terim, ma si vedeva benissimo che si detestavano da tempo. Si scontrarono la prima volta a Bergamo, il sabato prima della partita, e nelle settimane successive continuarono a lanciarsi frecciate che facevano solo il male della Fiorentina.
Tutti noi, comunque, volevamo che il tecnico turco rimanesse e così in una fredda sera di gennaio andò in scena un corto circuito mediatico che a rivederlo ora può sembrare assurdo. Tutta Firenze si mise infatti in fila davanti alla casa del presidente-senatore-produttore ad aspettare il fatidico incontro risolutore Terim-Cecchi Gori.
«Non ci sono problemi, Fatih rimarrà con noi altri tre anni», dichiarò trionfante Vittorio, al termine della maratona.
«Me ne vado a fine stagione», rispose il giorno dopo l’imperatore-due, che si era già promesso al Milan. E noi lì, a fare dirette fiume di ore e ore per raccontare il nostro dolore per l’addio del grande allenatore. Ridicolo, semplicemente ridicolo. La Fiorentina si era nel frattempo dissolta in campo, con tre sconfitte consecutive che l’avevano ricacciata a metà classifica.

DIMISSIONI
Le due magie di Baggio in Fiorentina-Brescia del 24 febbraio 2001 segnarono il punto di non ritorno nella storia tra la Fiorentina e Terim. Con appena due pareggi nelle ultime cinque partite, Cecchi Gori decise che era finalmente (per lui) arrivato il momento buono per licenziarlo. Sconcerti provò ad opporsi con poca convinzione, mentre Antognoni dette coerentemente le dimissioni da una vita in viola perché non era assolutamente d’accordo con l’iniziativa, e aveva ragione. L’imperatore-due prese però tutti in contropiede e convocò una conferenza stampa in un albergo per annunciare che non sarebbe stato Vittorio a licenziarlo, ma lui ad andarsene, insieme a tutto lo staff tecnico, più Antognoni.
Andai anch’io all’ultimo incontro di Terim con i giornalisti e mi trovai precipitato nel peggiore degli incubi. Scoprii però il lato più vero di Antonio Di Gennaro, un gentiluomo d’altri tempi, che in preda a chissà quali fantasmi della mente mi aggredì in mezzo alla hall, accusandomi di aver manipolato alla radio dei fax per attaccare Antognoni. Una cosa idiota e pazzesca, e ogni altra parola sul signore in questione mi pare sinceramente sprecata. Poi venni avvicinato da un tifoso che conoscevo solo di vista e che voleva picchiarmi in quanto “servo di Cecchi Gori”. Si trattava di Gaetano Lodà, che due giorni dopo appose davanti al suo locale un simpatico cartello con scritto “noi non possiamo entrare”, e sotto la mia foto insieme a quella di Cecchi Gori, Sconcerti e Sandrelli, intanto rientrato in Fiorentina. Infine, il colpo ad effetto. Prima che iniziasse la conferenza stampa, davanti ad una cinquantina di giornalisti, Terim mi invitò ad uscire dalla stanza perché la mia presenza non era gradita. Il gentiluomo Di Gennaro rincarò la dose sogghignando: “e adesso cosa rispondi? Eh, vediamo un po’ cosa dici”. Fu particolarmente apprezzabile la solidarietà dei colleghi: nessuno mosse un dito in mia difesa, ma io non mi spostai di un centimetro.

SQUALLORE TELEVISIVO
Ripartii stravolto dall’albergo della conferenza stampa per andare a condurre il Pentasport, ma una volta arrivato a Prato venni pregato da Sandrelli di tornare a Canale Dieci perché Sconcerti aveva sciaguratamente deciso di esternare. Ero perplesso, ma non potevo mandare uno dei miei giornalisti allo sbaraglio e poi Massimo mi aveva rassicurato, dicendomi che anche Isler di Rete 37 avrebbe partecipato alla trasmissione. Insomma, non sarebbe stato un monologo senza contraddittorio. Una volta giunto in televisione, mi accorsi con terrore che avevamo più o meno dieci minuti per preparare il programma e, soprattutto, che di Isler non c’era traccia. Chiesi ai giornalisti presenti se avessero voluto intervenire, ma se la dettero tutti a gambe, tranne Manola Conte, che mi venne coraggiosamente in soccorso.
La rissa televisiva se la ricordano (purtroppo) quasi tutti, con l’uscita infelice di Sconcerti ad Antognoni (“ma si può sapere cos’hai fatto tu per la Fiorentina”), le urla isteriche via telefono della moglie di Giancarlo e le farneticazioni sconcertiane sul futuro roseo della società. Ero distrutto da una giornata piena di veleni e non riuscii a tenere le redini della trasmissione. Sbagliai anche a non mandare in diretta Di Gennaro, che aveva chiesto di intervenire telefonicamente. Due giorni dopo quella serata da incubo, andai da Sandrelli in Fiorentina per annunciargli che me ne andavo da Canale Dieci perché non reggevo più la tensione di una contestazione che trovavo assurda. Massimo mi chiese di non mollare, di defilarmi magari un po’, ma di continuare a condurre il Ring dei Tifosi. Mi convinse con una frase: «se te ne vai adesso, sembra che tu abbia preso posizione, schierandoti con Terim. E invece se sei sempre stato equidistante tra le parti: è come se avessi qualcosa di cui ti vergogni o delle colpe da farti perdonare». Aveva perfettamente ragione: non dovevo farmi perdonare proprio niente.

GUETTA CIRCONCISO
Mi hanno fatto striscioni offensivi, inciso svastiche sulla moto, inviato vergognose lettere anonime a casa, minacciato fisicamente, e posso facilmente immaginare quale mente eccelsa si sia nascosta dietro a queste operazioni. Ma quello che mi ha fatto più paura è ciò che accadde una sera a casa mia. Suonò il cellulare e Valentina voleva andare a rispondere, come era già successo tante altre volte. «Lascia Vale – gli gridai – vado io!». Dall’altra parte una voce di ragazzo mi urlò: «Guetta, ebreo di m…., ti conviene non girare da solo, perché prima o poi ti spezziamo le gambe». Rimasi senza fiato: e se avesse risposto mia figlia di cinque anni, si sarebbero fermate queste bestie? Non credo. La domenica dopo la rissa televisiva, fra i vari striscioni offensivi su di me, ce ne fu uno che nessuno fece togliere. C’era scritto “Guetta circonciso”, e con questo i delinquenti che lo avevano innalzato credevano di avermi offeso. Il giorno dopo, chiamai la Comunità ebraica e chiesi di essere nuovamente iscritto, quattordici anni dopo che me ne ero andato.

MANCINI A TUTTI I COSTI
Sandrelli mi ha sempre detto che dovendo ricostruire da zero e in pochi giorni uno staff tecnico, era logico prendere subito un bel po’ di gente. Può anche darsi che abbia ragione in teoria, ma certamente sbagliarono nelle scelte e negli stipendi concessi. Sconcerti era diventato l’amministratore delegato della Fiorentina e non poteva non sapere la situazione in cui versava il bilancio viola. Per ingaggiare Mancini, che aveva cominciato la stagione come vice di Eriksson, venne messa su un’operazione a tutto campo con la Federazione, che alla fine concesse la sospirata deroga tra mille polemiche. Al nuovo tecnico vennero incredibilmente promessi gli stessi soldi di Terim, una follia in considerazione della differenza di esperienza e di prestigio tra i due. E andò molto peggio con Giuseppe Pavone e Ottavio Bianchi, due autentici bluff, smascherati definitivamente solo nell’estate del 2002.

SCHIZZOFRENIA
E la squadra? Trascinata da un Chiesa stratosferico e dai soliti Toldo e Rui Costa, la Fiorentina resse in campionato, evitando di venire risucchiata nella zona retrocessione. Buona parte del merito fu anche di personaggi come Luciano Dati, Marcello Manzuoli ed Alberto Benesperi che al di là delle ottime capacità professionali riuscirono a tenere unito il gruppo. I terremoti societari e gli stipendi non pagati per mesi non incisero più di tanto perché lo spogliatoio si dimostrò granitico.
In più c’era la solita Coppa Italia, dove i viola, con Terim ancora in panchina, avevano conquistato la finale a spese del Milan. Mancini fu bravo a capire che non era davvero il caso di procedere a delle rivoluzioni e fece di necessità virtù, schierando spesso la squadra con una sola punta (l’immenso Chiesa, che segnava sempre) e Rui Costa accanto. Il portoghese non gradì molto, ma si adeguò come sempre per il bene collettivo. Dopo una bella vittoria contro la Roma di Batistuta, che avrebbe poi vinto il campionato, uno Sconcerti scatenato annunciò a Canale Dieci l’intenzione della società di allungare il contratto a Mancini fino al 30 giugno 2003. Accidenti che fretta, forse un po’ troppa per i miei gusti.

SCUSE E SPIEGAZIONI
Ho sempre considerato Stefano Sartoni, il leader storico del Collettivo, una persona leale con cui a volte posso anche non essere d’accordo e mi piace che sia un tipo che non sfugge mai al contraddittorio. Fu solo per questo rapporto speciale che accettai di partecipare all’incontro che mi propose, un incontro strano con Gaetano Lodà e Dimitri Rocchi proprio nel locale dove io non sarei mai potuto entrare perché indesiderato. Chiesi a Luis Laserpe di accompagnarmi, sia per precauzione che per avere un testimone. Ero molto arrabbiato con Lodà, che mi fece correttamente le scuse per ciò che era successo il giorno delle dimissioni di Terim ed anche per quel cartello che lui considerava solo una goliardata. Cominciammo quindi a parlare del futuro della Fiorentina e mi venne disegnato uno scenario assolutamente inedito, quasi da fantapolitica calcistica. Lodà, Rocchi e Sartoni esibirono fogli e documenti degni del miglior giornalismo investigativo. Considerandomi (bontà loro) una voce importante per i tifosi, volevano che anch’io fossi a conoscenza di come la società viola stesse inevitabilmente andando verso la rovina. Mi dissero che i giochi non si facevano a Firenze, in piazza Savonarola, ma a Roma, dove sul pianeta calcio regnava incontrastato il banchiere Cesare Geronzi. Lo stesso arrivo di Mancini era stato “imposto” dalla GEA (la società che cura gli ingaggi e i diritti di immagine di diversi calciatori e allenatori e di cui fa parte anche la figlia di Geronzi), per cui non ci dovevamo stupire delle cifre concesse ad un tecnico esordiente. Uscii da quelle tre ore di colloquio perplesso e turbato: e se avessero avuto ragione loro?

COPPA ITALIA
A maggio cominciò la triste stagione degli addii. In una struggente serata di campionato, dopo Fiorentina-Atalanta, Toldo salutò tutti piangendo e commuovendo uno stadio intero. Lo avevano già venduto al Barcellona e con lui se ne andava uno dei più grandi portieri della storia viola, particolarmente ricca di straordinari numeri uno. Rui Costa e Chiesa invece sembrava che dovessero rimanere, e anzi Sconcerti, probabilmente dimenticandosi del bilancio, aveva già promesso al portoghese un sostanzioso aumento di stipendio, che peraltro Rui non aveva neanche chiesto. Intanto erano stati concordati gli ingaggi di Stankovic, Mihajlovic, Andersson e Marchioni, tutta gente che sarebbe stata probabilmente pagata con i soldi del Monopoli.
Il 13 giugno vincemmo la nostra ultima Coppa Italia, pareggiando in casa contro il Parma, già sconfitto all’andata. Il clima era surreale, le bandiere tornavano allo stadio dopo lo sciopero dei mesi precedenti e Cecchi Gori in tribuna sembrava imbambolato, come se sapesse che era la sua ultima volta al Franchi. Che differenza col successo di cinque anni prima. Sconcerti si scaraventò felice negli spogliatoi per festeggiare, mentre i tifosi andarono a piazzale Michelangelo per coprirlo quasi interamente di viola. La domenica dopo, per una serie di eventi causali, custodii per una notte la Coppa a casa mia. E mentre la guardavo appoggiata sul divano del soggiorno mi dicevo che era senza dubbio bellissima, ma che in fondo l’avevamo già vinta molte altre volte. Lo scudetto, invece, era tutta un’altra cosa: se solo avessi immaginato quello che stava per succedere…

2000/2001

Serata calda di fine giugno, Cecchi Gori invita i giornalisti nel suo attico in Lungarno Corsini. Cena in piedi e sul maxi schermo le partite dell’Europeo. E’ in forma, il presidente-produttore-senatore. Antognoni e Luna se ne stanno un po’ defilati a benedire la ritrovata unione, mentre non c’è Poggi, dimissionario da qualche settimana. Si parla di tutto, di calcio e di donne. Vittorio muore dalla voglia di raccontarci il fresco fidanzamento con la Marini, a noi in verità interesserebbe di più sapere della cessione di Batistuta e di come verranno spesi i settanta miliardi incassati. «Ci rinforzeremo – spiega – non vi preoccupate. Se adesso uscissi di casa e andassi in giro per il centro, non ci sarebbe nessuno che mi insulterebbe: la gente mi vuole ancora bene». Peccato che non gli sia venuta la stessa tentazione due anni dopo…
Ad un certo punto qualcuno chiede del veronese Brocchi, inseguito da mesi e Vittorio casca dalle nuvole.
«Lucia’ vié qua – ordina a Luna – ma che facciamo con sto’ Brocchi, lo prendiamo o no?».
Ed è qui che deve essere nato l’equivoco fatale, perché di brocchi quell’estate non ne presero uno solo, ma tanti. Come spesso gli succedeva, Lucianone nostro aveva esagerato nell’eseguire i desideri del principale…

SOLDI BUTTATI
Arrivarono infatti con pagamento cash Nuno Gomes (trenta miliardi), Leandro (venti miliardi), quel fenomeno di Marco Rossi (sedici miliardi), Vanoli (otto miliardi per la sola comproprietà), Amaral (quattro miliardi): roba da chiedere la perizia psichiatrica per chi aveva condotto e avallato simili trattative. Quella campagna acquisti dissennata fu la mazzata finale per una società che già boccheggiava per i 72 miliardi “imprestati” alla Fin.Ma.Vi (cioè a Cecchi Gori stesso) e per aver dato in pegno alle banche i soldi degli abbonamenti e dei diritti televisivi delle stagioni successive. Incalzato dalla contestazione dei tifosi, il presidente-senatore-produttore aveva però sciaguratamente ordinato di comprare lo stesso, anche se non c’erano più soldi. Luna ed Antognoni avevano fatto il resto, acquistando a fine mercato giocatori che valevano al massimo la metà del prezzo pagato. Per non parlare poi degli ingaggi elargiti: nove miliardi lordi a Nuno Gomes, sei a Leandro, due a quel fenomeno di Marco Rossi e ad Amaral, due e mezzo a Vanoli.
Il livello societario era talmente da basso impero che ad un certo punto anche un certo Simone Santercole si trovò in una posizione di potere. Era figlio di Gino Santercole, a sua volta nipote di Adriano Celentano e in quanto tale appartenente al famoso Clan. Una riedizione in giacca e cravatta del buon vecchio Mario Bartolelli, figlio del potente Sergio, bomber inespresso dei primi anni novanta. La competenza calcistica e l’esperienza a livello di società di Santercole junior rasentava pericolosamente lo zero, ma il neo dirigente poteva contare sua una sola decisiva qualità: sua madre, risposandosi, era infatti diventata la signora Luna, e tanto bastò per insediarlo al secondo piano in piazza Savonarola.

FACILE ORA
Già, facile dirle ora queste cose. Perché non le ho tirate fuori al momento giusto, denunciando il livello di degrado che aveva raggiunto la mia amata Fiorentina? La giustificazione maggiore è legata alla consapevolezza che non esistevano alternative a Cecchi Gori, e qui purtroppo ho avuto ragione. La famosa fila di compratori disposta ad acquistare la società non è mai esistita, quando invece ne sarebbe bastato uno solo tra quelli che si sono fatti pubblicità a nostre spese per evitare il tracollo. Inoltre, un conto è viverle giorno per giorno certe situazioni ed un altro è storicizzare adesso tutto quello che è successo. Voglio dire che come molti non avrei mai pensato che si potesse arrivare alla distruzione della società. E non ci ho creduto fino alla sera del 31 luglio 2002. Ho comunque sbagliato, molto sbagliato, nelle valutazioni, mantenendo per un anno di troppo un atteggiamento possibilista nei confronti di Cecchi Gori e di tutta la corte dei miracoli che gli stava dietro. E ho pagato, duramente pagato per questo errore.

I DUE IMPERATORI
Il Trap se ne era intanto andato da gran furbo, dando la colpa dell’addio ad una aggressione nell’ultima giornata di campionato, ma io non ci ho mai creduto. La verità è che aveva intuito da mesi come sarebbe andata a finire, e poi c’era la Nazionale ad aspettarlo. Per sostituirlo, siccome un imperatore (Luna) non ci bastava, ecco arrivare a Firenze pure il secondo, Fatih Terim. Erano divertenti tutti e due. Uno come controfigura di Carlo Verdone, nel muoversi e nel parlare, l’altro per le emozioni regalate sul campo da dicembre a gennaio. Non ho però mai capito che cosa avesse di davvero speciale e non è mai riuscito a contagiarmi col suo famoso carisma, o forse ero io che non mi accontentavo di qualche corsa sotto la pioggia verso la Fiesole, chissà. Terim aveva vinto degli scudetti in Turchia, impresa non impossibile potendo allenare il Galatasaray, e una Coppa Uefa che lo aveva lanciato ai massimi livelli sul palcoscenico europeo: sinceramente non mi sembrava paragonabile a Trapattoni.
PRESUNZIONE
L’inizio di Terim fu da incubo. A Innsbruck, in conferenza stampa prima della gara con il Tirol, il tecnico viola se ne uscì con una serie di affermazioni polemiche contro la società, con accanto il silente, eppure direttore generale, Antognoni. «Passeremo il turno, non ci sono problemi perché siamo nettamente più forti degli austriaci», proclamò inoltre tra le righe l’imperatore-due. Mai visto preparare peggio una partita, ed infatti il Tirol ci fece a fette, passando agevolmente il turno. E quando, prima dell’esordio in campionato contro il Parma, Terim scrisse ai giornali una lettera aperta in cui accusava Cecchi Gori di non aver mantenuto le promesse, la rottura tra i due si era già consumata.

CONSIGLI DI BORSA
Serata di ottobre a Canale Dieci, pausa pubblicitaria, sono seduto accanto a Cecchi Gori, venuto con la mamma in trasmissione.
«Vittorio, ho visto che per la vendita delle televisioni la Seat ti ha dato metà dei soldi in azioni. Siccome ne ho anch’io quattromila, le ho comprate a 5 Euro e adesso sono poco sopra 3, che dici? Le tengo o le vendo incassando la perdita?»
«Ma sei matto? Quelle sono le azioni del futuro e arriveranno come minimo a 8 Euro»
«Grazie Vittorio».
Nel marzo 2003 le azioni Seat valevano 0,6 Euro, i miei 20.000 Euro si erano quindi ridotti a 2.400, i 258.000.000 Euro di Vittorio è meglio non saperlo.

WEMBLEY
Lo calpestai la prima volta da turista a quindici anni, e per me è sempre stato con il Bernabeu lo stadio simbolo del calcio. L’Old Trafford di Manchester è certamente più bello e funzionale, ma la parola stessa, Wembley, evoca la leggenda. Come quando l’Italia di Valcareggi batté per la prima volta l’Inghilterra fuori casa: se non fosse accaduto a Wembley, sono sicuro che oggi ce ne ricorderemmo con meno entusiasmo. La sera prima della partita ci fecero entrare in campo a seguire l’allenamento e le senti dentro certe sensazioni, compreso l’orgoglio di sapere che trasmetterai da lì e chissà quando mai succederà di nuovo.
C’era molta polemica in quel periodo nella Fiorentina per via delle tre sconfitte consecutive rimediate in campionato. Tre schiaffi che avevano indotto il Trap a dare clamorosamente le dimissioni a Piacenza per scuotere l’ambiente. Dimissioni immediatamente ed opportunamente respinte da Luna e Cecchi Gori. Si parlava comunque del possibile arrivo di Guidolin, ma quella sera a Londra Trapattoni azzeccò tutto, compreso l’impiego a sorpresa di Firicano e Rossitto. Avevamo un solo modo per passare il turno: battere l’Arsenal, ed il gol dell’immenso Batistuta ad un quarto d’ora dalla fine è stato come scalare in tre secondi il Paradiso calcistico. Solo al ventesimo “gol” urlato, mi accorsi del sorriso rassegnato (“ah, questi italiani”) dell’impassibile poliziotto inglese che avevo a cinque metri. Eravamo agli ottavi di Champions Leagues, quasi troppo bello per credere che fosse vero.

BILANCI SANI
La prima partita del turno successivo è da brividi, contro il Manchester, squadra detentrice del trofeo. La settimana precedente la gara, mi lancio senza paracadute in un documentatissimo articolo sui bilanci delle due società, avvalendomi della consulenza di Andrea Parenti, che con i lucciconi agli occhi aveva letto quanto utile riuscisse a produrre il club inglese. Al contrario, a fine stagione, la Fiorentina aveva sempre bisogno degli assegni di Cecchi Gori per far pari. Non era un pezzo contro il presidente-senatore-produttore, anzi Vittorio passava quasi per un mecenate, ma non sapendolo ero finito su un terreno minato. Il perché lo avrei scoperto solo qualche mese più tardi, quando cominciò a venire fuori la storia dei 72 miliardi che la Fiorentina aveva “imprestato”, proprio in quel periodo, alla Fin.Ma.Vi, cioè a Cecchi Gori stesso. Il giorno della pubblicazione della mia analisi mi telefonò Luna.
«Che caz…. hai scritto sul giornale?! Ma chi ti ha detto tutte quelle cose sui bilanci?»
«Parenti, e comunque che problema c’è? I bilanci sono pubblici, Andrea mi ha dato una mano a leggere le voci. Tutti sanno che il Manchester è la società calcistica che fa più utili al mondo»
«Noi abbiamo i bilanci migliori del Manchester»
«Se lo dici te…»
«Che sta’ a mette’ in dubbio le mie parole?! Tu da oggi sei sospeso dalla televisione».
Seguirono riunioni interminabili in cui anche Pistelli, fratello della signora Valeria e presidente di Canale Dieci, cercò di rintracciare Lucianone nostro, sparito come sempre accadeva nei momenti di crisi. Alla fine sbrogliai io la situazione e finsi una malattia diplomatica per non condurre il primo Ring successivo allo scontro. Poi Pistelli incrociò quasi per caso Luna e lo costrinse a tornare sui propri passi. Per un paio di mesi l’amministratore delegato mi tolse il saluto, ed io ho sempre avuto il sospetto che pensasse che io fossi a conoscenza degli intrallazzi che lui ed il suo amico Vittorio stavano combinando ai danni della Fiorentina. Invece, come quasi tutti, venni informato anch’io dal Corriere dello Sport in un venerdì del febbraio 2000.

LO SAI CHE FA SCONCERTI?
No, non lo sapevo, ed è meglio, per decenza, non riportare quello che mi disse Luna la domenica successiva alla pubblicazione del bilancio viola e alle esternazioni del “direttore” a Radio Blu. Nel documentato pezzo di Antonio Maglie veniva fuori per la prima volta la storia dei 72 miliardi, spariti dalle casse della società. La telefonata mi arrivò poco prima di Venezia-Fiorentina, e sono quasi sicuro che Lucianone nostro stesse recitando a soggetto, avendo davanti uno spettatore interessato alla vicenda (forse Poggi). La parte finale della conversazione merita comunque di essere ricordata.
«E’ possibile non far parlare più Sconcerti alla radio?»
«Se gli dicessi una cosa del genere, lui andrebbe immediatamente da un’altra parte e farebbe bene. Con Sconcerti otteniamo un grande ascolto e ci costa molto, abbiamo sottoscritto un impegno fino al 2001»
«Quanto ce vo’ per mandarlo via? Dieci, venti, trenta milioni? Famme sape’, perché i soldi non sono un problema»
«Lascia perdere, Luciano, io Sconcerti non lo voglio mollare».

MEZZI ILLIMITATI
Se potessi riavvolgere il nastro della mia vita professionale, cambierei poche cose. Tra queste c’è sicuramente una tragica intervista con Cecchi Gori a fine partita. Quello che disse il presidente-senatore-produttore è rimasto nella storia. Il preambolo era la guerra in corso tra Antognoni, che avrebbe voluto avere il famoso “potere di firma” per siglare i contratti, e Luna. Un Vittorio infuriato ed allucinato si presentò a camicia aperta e catenone d’oro ben in vista davanti alle telecamere.
«Devono stare tutti attenti a quello che fanno, qui si sono dimenticati che c’è una sola persona che comanda: Vittorio Cecchi Gori»
«Vittorio, parliamo di mercato: Batistuta verrà ceduto?»
«Batistuta rimarrà. E anche se dovesse andare via, non vi preoccupate perché arriveranno due Batistuta. Qualcuno si diverte a mettere in giro storie false sul nostro gruppo, dunque è arrivato il momento di chiarire le cose: abbiamo mezzi illimitati per rinforzare la Fiorentina e per vincere lo scudetto».
Ma perché, maledizione, sono rimasto zitto? A mia (piccolissima) giustificazione posso dire che intervistare Cecchi Gori nello sgabuzzino dello stadio, con Cardini e tutta la corte dei miracoli che fa continuamente segno di stringere, non è il massimo della vita. Non era però la prima volta che lo facevo e con quel silenzio è come se avessi avallato le follie che Vittorio stava raccontando alla gente: davvero un pessimo esempio di giornalismo.

SOGNO SVANITO
Ci sono svariate teorie per spiegare l’eliminazione dalla Champions Leagues, dopo l’ottima partenza in casa contro Manchester e Valencia. C’è chi dice che avremmo dovuto osare di più a Bordeaux o che a Valencia (ed è vero) annullarono ingiustamente un gol di Rui Costa che ci avrebbe fatto passare il turno. La verità è che in Spagna e nella successiva gara all’Old Trafford la squadra era come svaporata sul piano del gioco, complice anche la condizione atletica, inevitabilmente in calo dopo la preparazione affrettata di luglio. A Manchester provò ancora Batistuta a tenerci a galla, ma purtroppo incappammo in un Rui Costa fuori condizione, e poi non ci fecero più uscire dall’area di rigore.
Con un guizzo d’orgoglio e tanto mestiere Trapattoni riuscì comunque a pilotare la Fiorentina verso la qualificazione Uefa, raggiunta il giorno dell’addio di Bati. Aveva segnato 152 reti in serie A, ed io le avevo raccontate tutte. Adesso era un po’ come perdere un compagno di viaggio, che negli ultimi anni era diventato molto litigioso. Le sue lacrime dopo aver battuto l’impossibile record di Hamrin furono il segno inequivocabile che ci avrebbe lasciato. L’unico contento era Cecchi Gori, che risparmiava dodici miliardi lordi di ingaggio, incassando per un giocatore di trentuno anni l’incredibile cifra di 70 miliardi.

1999/2000
Fu un’estate piena di soldi. La Fiorentina era riuscita davvero ad entrare nel gruppo delle grandi, ed aveva strappato a Stream un incredibile contratto da sessanta miliardi l’anno per sei stagioni. Peccato che le televisioni nazionali del gruppo non facessero che macinare debiti, anche perché Vittorio licenziava su due piedi chi non gli piaceva, con l’ovvio risultato di dover pagare stipendi faraonici ad un esercito di persone nullafacenti. Per la Fiorentina quello poteva essere il momento migliore per cambiare strada, per ammettere che a certi livelli la società viola non ci poteva stare. Il ruolo giusto sarebbe stato quello di sempre, un gradino al di sotto delle grandi. Ed invece si continuò a spingere sul gigantismo, con vari deliri da onnipotenza dovuti alle vicende personali di Cecchi Gori, che si stava separando dalla moglie fra denunce e risse familiari.
Ho sempre pensato che i pochi cardini personali del presidente-senatore-produttore siano saltati proprio nel momento in cui Rita Rusic se ne è andata via con i figli. Senza più un punto di riferimento affettivo e senza qualcuno che lo contrastasse nelle sue scelte bizzarre, Vittorio ha definitivamente perso la bussola. Spesso si presentava a Canale Dieci accompagnato da splendide fanciulle che avrebbero potuto essere sue figlie, e si vedeva chiaramente che ci teneva a far capire che lui poteva e noi no. Gli era sembrato di essere tornato giovane, ai tempi un cui impazzava sui rotocalchi insieme alle bellezze dell’epoca, da Maria Grazia Buccella e Maria Giovanna Elmi. Quelli però erano gli anni sessanta e settanta, e lui recitava la parte del figlio del grande produttore Mario Cecchi Gori. Adesso era invece un presunto imprenditore di cinquantasette anni che giocava a fare il ragazzo, peccato che da lui dipendesse il destino di un almeno un migliaio di persone.

TUTTO FINITO
La prima volta in cui ho pensato che la mia (breve) avventura giornalistica fosse finita fu nel 1987, quando impedirono alle radio private di acquisire i diritti radiofonici. Da allora, quello della distruzione di tutto ciò che avevo costruito è stato un pensiero che ha tormentato a fasi alterne non solo me, ma anche le sfortunate signore che mi sono state accanto in questi anni e, soprattutto, Rinaldo, che avrà mille difetti, ma mi ha pazientemente e fraternamente sopportato nel mio pessimismo cosmico. Due crisi fra le tante “meritano” comunque di essere ricordate. La prima è del 1995, quando si cominciò a parlare di campionato in diretta televisiva, sia pure a pagamento. Ero assolutamente convinto che nessuno avrebbe più ascoltato la mia radiocronaca, che alla prima domenica di campionato sarei stato un giornalista finito.
Ben peggiore fu la crisi del 1999, l’anno in cui la Lega decise che si poteva finalmente tornare a vendere i diritti alle radio private, che quindi non sarebbero più state costrette a trasmettere tra mille sotterfugi. Battendo tutti sul tempo, riuscimmo a chiudere un accordo triennale con la Fiorentina, in cui però non si parlava esplicitamente di esclusiva. Non ci importava, perché tanto avevamo il 90% dell’ascolto. Tre settimane dopo la firma, arrivò dalla Lega Calcio una circolare che imponeva alle società di cedere i diritti radiofonici ad una sola emittente. Cominciò così, in un caldo pomeriggio di luglio, un autentico incubo, perché nel frattempo era sbarcato a Firenze un network nazionale che voleva in tutti i modi acquisire i diritti sulle partite della Fiorentina. E non demordeva neanche l’altra radio, da anni soccombente negli ascolti, ma che aveva adesso la possibilità di sbarazzarsi dei concorrenti. Noi potevamo contare su un contratto firmato e sul fatto che ero il responsabile dello sport a Canale Dieci. Rischiai il tutto per tutto e legai la mia permanenza in televisione alla positiva conclusione di un nuovo accordo. Se non fosse andata bene, sarei rimasto fuori dal video e senza radiocronaca. Costrinsi Rinaldo a proporre una cifra folle e mi tassai personalmente per partecipare alle spese.
Dopo notti insonni, travasi di bile e coltellate varie tra emittenti, la storia finì in perfetto stile Cecchi Gori. La firma del nuovo accordo sarebbe dovuta avvenire a Lodz, in Polonia, dove la Fiorentina era impegnata per i preliminari di Champions Leagues, ma proprio quella mattina Luna lesse su Repubblica che “nel caos nato dalla vendita dei diritti radiofonici privati, la Fiorentina aveva chiesto a Radio Blu di alzare a dismisura il prezzo da pagare”. Secondo la personalissima interpretazione di Lucianone nostro, la società stava facendo la figura dello strozzino con “le povere radio private locali”, e quindi lui non firmava un bel niente. Tutti a Firenze furono perciò liberi di fare la radiocronaca, e Luna poté fregiarsi del nobile titolo di “paladino della piccola emittenza”. Pagammo lo stesso per tre anni la cifra pattuita nel vecchio contratto. Gli altri trasmettevano, ma gratis.

FOLLIE D’ESTATE
Il tormentone estivo fu l’ingaggio di Enrico Chiesa, fortemente voluto dal Trap. Il tira e molla con il Parma diventò talmente sfibrante che ad un certo punto Luna decise di cambiare obiettivo e puntò dritto su Madrid, dove lo stavano aspettando a braccia aperte per disfarsi di Mijatovic. Lucianone nostro si presentò con quindici miliardi in contanti e un contratto quadriennale da nove miliardi lordi al giocatore. I dirigenti spagnoli impacchettarono subito il vecchio Predrag e fecero pure finta di dispiacersi per aver perso un grande giocatore. Per la verità, grande Mijatovic lo era stato davvero, ma fino alla stagione prima, quando segnò la famosa rete alla Juve nella finale di Champions Leagues.
Poi arrivò anche Chiesa per trenta miliardi, naturalmente tutti in contanti, e poi ancora, visto che gli attaccanti erano pochi, venne acquistato Abel Balbo, l’amico più fidato di Batistuta.

IL VOTO
In compenso, il prudente Trapattoni riuscì a convincere Luna a prendergli il trentatreenne Di Livio. Cecchi Gori seppe tutto a cose fatte e si infuriò perché a lui l’ex juventino proprio non piaceva e, come se non bastasse, gli avevano pure scambiato Robbiati con Rossitto.
Nel dopo partita di Fiorentina-Widzew Lodz, esordio ufficiale dei viola in Champios Leagues, squillò il mio cellulare.
«A Guetta, so’ Luna, quanto ià dato stasera La Nazione a Di Livio?»
«Luciano, non lo so, le pagelle le fa Picchi, io mi limito ad una intervista»
«Telefonagli e sentì un po’… mi raccomando, deve prendere almeno sei e mezzo. Famme sapé!»
Non potevo far finta di niente (eravamo in piena bufera diritti) e così, molto imbarazzato, chiamai Picchi. Incrociai le dita e gli domandai che voto avesse dato a Di Livio.
«Sei e mezzo – mi rispose Sandro – ma perché lo vuoi sapere?»
«No, niente, era una discussione con Ceccarini: lui dice che ha giocato da sette, secondo me invece vale mezzo voto in meno».
Richiamai Luna.
«Luciano, non ci sono problemi: ho chiesto a Picchi il favore di alzare il voto e domani su La Nazione Di Livio prenderà sei e mezzo…».

AMERICA
La mia unica trasferta da grande inviato venne purtroppo avvelenata dalla storia dell’esclusiva radiofonica. Passai almeno la metà del tempo al telefono e la Tim ringraziò commossa: un milione e mezzo di bolletta per i cinque giorni americani. Viaggiammo con la squadra perché dovevamo realizzare uno speciale che avrebbe compreso anche gli aspetti più minimalisti, come il volo d’andata e ritorno. Chiedemmo quindi a Trapattoni il permesso di riprendere i giocatori sull’aereo e lui dette l’assenso senza problemi, ignorando però l’ostacolo Batistuta. Il capitano disse al nostro operatore che in business class lui poteva anche passare (chiaro riferimento al fatto di non volermi tra i piedi), ma che la telecamera doveva rimanere fuori. Sarebbe stato un po’ complicato per le riprese, ma avremmo sempre potuto rimediare con il racconto orale, da tramandare al popolo viola. Grande Gabriel! Quando lo seppi, mi misi a ridere, ormai era inutile arrabbiarsi.
Notai in quei giorni una certa freddezza nei confronti di Chiesa che, orgoglioso di carattere, faceva poco per cercare di inserirsi nell’aristocrazia dello spogliatoio. La trasferta negli Stati Uniti fu un bel successo di immagine per la Fiorentina, che vinse la Gotham Cup. E a New York cominciò la conoscenza di Angelo Di Livio. Al contrario di Chiesa, di cui poi divenne grande amico, sembrava che a Firenze lui ci fosse nato. La sua disponibilità era così ampia, che alla fine veniva quasi da chiedersi se non fosse finito per sbaglio nel calcio. Nemmeno due anni dopo, Di Livio avrebbe spiegato benissimo al popolo viola la differenza che passa tra un giocatore vero ed un mercenario.

CHAMPIONS LEAGUES
Quando la rivedremo? Sapevamo che era un avvenimento unico e per questo tutti noi che l’abbiamo seguita passo per passo ce la siamo goduta fino in fondo. Le stelle, l’inno, la sensazione di stare al centro dell’universo calcistico: tutto contribuisce all’atmosfera davvero magica di quelle notti europee. Eppure la prima trasferta era stata da incubo. Mai infatti come a Barcellona ho avuto la sensazione dell’impotenza, nemmeno quando abbiamo perso per 8 a 2 a Roma contro la Lazio di Zeman. Il 4 a 2 del Camp Nou è un risultato estremamente bugiardo, perché senza un fantastico Toldo saremmo entrati a rovescio nella storia della Champions. Quella competizione fu la consacrazione internazionale per Francesco, che poi a giugno sarebbe salito in cima al mondo con un fantastico Europeo. Il portiere viola fu decisivo a Firenze contro l’Arsenal, quando neutralizzò il rigore di Kanu e ancora contro il nigeriano a Londra, nella più incredibile parata che abbia mai visto in oltre vent’anni di radiocronaca.

CAMILLA
Camilla è stata straordinaria nel tempismo: è infatti nata nell’unica settimana di sosta della Champions Leagues, pochi giorni dopo la trasferta di Stoccolma. Se avesse anticipato i tempi, sarebbe stato uno di quei fardelli da portarsi dietro per tutta la vita: «non c’eri per la nascita di tua figlia. Che babbo!». Stavolta ho avuto molte meno preoccupazioni calcistiche, limitandomi alle sole indicazioni sulla conduzione del Pentasport, date naturalmente tra una pausa e l’altra dei dolori di Letizia. Sono stato molto più coraggioso in sala parto e ne è valsa la pena perché vederla nascere è stata una delle emozioni più forti della mia vita.

SFORTUNA E PAZZIA
Mancano pochi minuti alla fine di Fiorentina-Milan, partita deludente sia per lo spettacolo che per il pareggio. Batistuta cade pesantemente in un ripiegamento difensivo, e andrebbe sostituito. Ma Gabriel dice che se la sente di continuare ed il tecnico si fida ciecamente del suo campione. Un minuto più tardi Bati si accascia mentre sta correndo accanto a Sala. In radiocronaca prendo un abbaglio e pretendo la seconda ammonizione per il difensore del Milan, che invece non ha nemmeno sfiorato Batistuta. I primi referti parlano di almeno due mesi di assenza ed escono proprio mentre Edmundo è nella sala d’attesa dell’aeroporto di Roma, pronto a partire per Rio de Janeiro.
E’ una pazzia: ma come, Bati è out e l’unico in grado di sostituirlo se ne va a ballare la samba in Brasile? Cecchi Gori dice che è giusto così, che era un impegno preso personalmente da lui e formalizzato sul contratto del brasiliano. Io non capisco e non mi adeguo. Qualche tirapiedi di Vittorio vorrebbe mandarmi in video a sostenere le esternazioni presidenziali. Mi oppongo e allora chiama direttamente il presidente-senatore-produttore per “invitarmi” a cambiare idea.
«Guarda Vittorio, che io ho attaccato in radio la Fiorentina su questa scelta. Se presento lo speciale con te, posso solo ribadire la mia posizione»
«Può giocare Robbiati con Oliveira…, lo dice anche Trapattoni»
«Ma dai, lo sai benissimo anche te che non è la stessa cosa. E’ stata un’enorme sciocchezza aver fatto partire Edmundo, pensa alla reazione dello spogliatoio per questo trattamento preferenziale. Una società seria si sarebbe opposta».
Batistuta tornò dopo appena trentacinque giorni, ma non fu lui per almeno un altro mese e gli andò già bene a non farsi male di nuovo. La Fiorentina era intanto scivolata al secondo posto, mentre Edmundo veniva a malapena sopportato dai compagni. Che occasione sprecata.

L’AVVERTIMENTO
Il dottor commercialista Andrea Parenti ha rappresentato per anni la mente più lucida del gruppo Cecchi Gori, forse avvantaggiato dal fatto di essere solo un consulente esterno e di potersi quindi permettere di dire a Vittorio le cose come stavano. Andrea era uno di quelli (pochi, davvero pochi) che sapeva mantenere la parola data. Nell’aprile del 1999 ci trovammo quasi per caso a Canale Dieci (che deve a lui gran parte della propria autonomia finanziaria) e mi sparò a bruciapelo una domanda che mi lasciò senza parole: «che farebbero i tifosi se vendessimo Batistuta, Rui Costa, Edmundo e magari anche Toldo?».
«Credo che ci sarebbe la rivoluzione. Cecchi Gori ha promesso lo scudetto e se Vittorio vende i campioni la gente scende in piazza. Ma perché me lo chiedi?»
«Perché, se continua così, la Fiorentina rischia di non iscriversi al campionato».
Ero abituato a trattare con Parenti anche sulle ultime diecimila lire di rimborso spese e per questo considerai le sue parole assolutamente eccessive, una specie di sfogo per i troppi soldi che circolavano nel calcio. Tra l’altro stavano per arrivare i miliardi della televisione a pagamento, che aveva finalmente trovato con Stream l’alternativa a Tele Più. La Fiorentina era nel gruppo delle grandi e si parlava di un mega-contratto televisivo: come poteva Parenti pensare a certe cose?

CHAMPIONS LEAGUES
La stagione del possibile scudetto si concluse con terzo posto finale, a ben quattordici punti di distanza dal Milan, incredibilmente Campione d’Italia. Nel finale ci eravamo avvitati come nei peggiori anni di Ranieri, con appena cinque punti in cinque partite. Nell’ultima inutile gara di Cagliari Trapattoni mandò in campo Torricelli ancora non al meglio della forma dopo un infortunio, e il suo pupillo si ruppe definitivamente dopo neanche venti minuti. Non sapevamo se essere soddisfatti per l’ottimo piazzamento o rammaricati per aver perso ancora una volta la possibilità di vincere lo scudetto. Poteva essere l’anno giusto, con Juve e Inter in crisi nera, la Roma alle prese con il problema Zeman e la Lazio travolgente ma discontinua. In fondo avevamo preso quattro punti su sei al Milan, ma avevamo dovuto sopportare l’infortunio di Batistuta e la partenza di Edmundo. Al momento decisivo, Cecchi Gori non tirò fuori i soldi per rinforzare l’organico e già quello poteva essere un segnale che qualcosa non andava come ci stavano raccontando. A gennaio era infatti arrivato solo il modesto Ficini, che diventò suo malgrado il simbolo di quello che poteva essere e non è stato.

LA RIVINCITA DI MALESANI
Eravamo finiti in finale di Coppa Italia quasi senza accorgercene. Quella stessa coppa che tre anni prima aveva trascinato una città intera in una notte di festosa follia, adesso valeva meno di un piazzamento in Champions Leagues. Personalmente però ci tenevo moltissimo a vincerla perché l’altra squadra finalista era il Parma del mio “amico” Malesani. Quando Batistuta al Tardini pareggiò il gol di Crespo, a otto minuti dalla fine, andai nell’esultanza ben sopra le righe. Credevo che il più fosse fatto e già pregustavo la rivincita nei confronti del tecnico veronese nella gara di ritorno.
Il Parma ci fece a pezzi nella mezz’ora finale, con una tale dimostrazione di potenza che qualsiasi ulteriore commento risulterebbe superfluo. Perdevano due a uno e ci misero ai paletti con un forcing degno del miglior Milan di Sacchi. Qualcuno rimproverò a Malesani la troppa esultanza al momento della premiazione, ma che avrebbe dovuto fare? Fingersi costernato perché la sua vecchia squadra aveva perso la Coppa Italia? Via, non facciamo gli ipocriti. O almeno, non fino a questo punto.

1998/99
Qualche scricchiolio si cominciava qua e là ad avvertire, ma nessuno ci dava troppo peso, ed io meno che mai. Forse perché cresciuto nell’epoca tutto sommato felice dei presidenti “ricchi e scemi” (la definizione era di Giulio Onesti, allora presidente del Coni), pensavo che il calcio fosse immutabile nelle sue certezze e nelle sue anomalie. Tutto a Firenze ci sembrava dovuto. E se Moratti, Berlusconi, Agnelli, Cragnotti, Tanzi e Sensi compravano, Cecchi Gori avrebbe dovuto fare altrettanto: eravamo o no una delle sette sorelle? Sapevamo bene di avere a che fare con uno strano tipo, che andava sopportato per i suoi colpi di testa, ma Vittorio aveva i soldi, e noi solo quelli volevamo per volare in alto. I miliardi che prometteva di spendere servivano a farci dimenticare cosa in realtà valesse il re e tutta la corte di miracoli che si portava dietro. In pratica, barattammo i nostri dubbi con la promessa di un sogno di grandezza che un calcio ormai masochisticamente avviato verso il gigantismo ed il sicuro fallimento vendeva a piene mani. Non tutti ci stettero, qualcuno come Sandro Picchi, Benedetto Ferrara, Alberto Polverosi e Manuela Righini si sforzò di fare il grillo parlante. Io invece ero nel gruppone degli illusi, con l’aggravante del rapporto preferenziale da tempo instaurato con il presidente-senatore-produttore. Quella fu comunque l’ultima stagione veramente felice.

IL MARZIANO TRAP
Trapattoni visto da vicino è esattamente come uno si immagina. Non c’è trucco e non c’è inganno. Quando seppi che sarebbe arrivato alla Fiorentina, mandai Ceccarini a Monaco di Baviera per un’intervista senza preavviso. Fu molto gentile e cominciò a raccontarsi con una semplicità disarmante e qualche strafalcione in italiano. Grazie al Trap arrivai finalmente a scrivere un articolo in prima pagina su La Nazione, solo che era lui a firmarlo. Si trattava infatti del suo saluto ai tifosi, buttato giù da me e approvato al volo da lui, a pochi minuti dall’inizio del suo primo allenamento in viola. Quando dopo pochi giorni ad Abbadia un ragazzo con in mano la bandiera della Fiorentina gli gridò in faccia “vecchio juventino” per offenderlo, lui si fermò per rispondergli: «juventino te lo posso anche passare, ma vecchio, scusa tanto, proprio no». Aveva ragione, perché come spirito dimostrava almeno trent’anni meno dell’età anagrafica. Arrivava sempre per primo al campo, si allenava con i giocatori, faceva le partitelle. Ed era disponibile con tutti, dal grande inviato al ragazzo che scriveva per il giornalino scolastico. Poi, certo, sapeva scegliere benissimo a chi fare le proprie confidenze, e credo che ancora oggi non abbia eguali nell’allenare i giornalisti. Forse Mazzone, ma lo conosco pochissimo.
Dopo gli scontri con Ranieri e le battaglie senza esclusioni di colpi con Malesani, avevo giurato a me stesso che mi sarei morso dieci volte la lingua prima di ingaggiare un nuovo duello con il prossimo tecnico viola, ma con Trapattoni il mio compito fu enormemente avvantaggiato. Entrai subito in sintonia con lui e questo feeling mi aiutò nell’unica volta che lo vidi veramente arrabbiato (e aveva ragione) per una sparata di Mario Ciuffi, che mai aveva digerito l’ingaggio dell’ex bianconero. In una puntata del Pentasport uno scatenato Ciuffi aveva più o meno detto che Trapattoni mandava in campo dei giocatori solo perché aveva degli interessi personali. Cioè, in pratica, prendeva soldi dai procuratori. Il Trap mi chiamò il giorno dopo e mi disse di avere già pronta la querela con risarcimento danni miliardario da chiedere a Ciuffi e devolvere in beneficenza. Gli spiegai che ci sarebbe andata di mezzo Radio Blu e che anch’io, come direttore responsabile, avrei dovuto pagare i danni. Rimase per qualche secondo a riflettere e si calmò un po’ quando gli assicurai che sarebbero arrivate le scuse personali di Ciuffi. Un’ora dopo Mario era allo stadio a parlare e scherzare con lui sulla Juve.
Come gestore di uomini Trapattoni è ancora il massimo, come tecnico è difficile da giudicare perché in questo campo sono pochissimi i giornalisti che possono davvero permettersi di esprimere pareri. Io, partendo dal presupposto che bisognerebbe almeno aver frequentato un corso di allenatori a Coverciano, preferisco astenermi. E, comunque, il ricordo del Trap fiorentino è tra i più piacevoli dei miei vent’anni di Fiorentina.

MICIDIALI
«Più boschi giri e più lupi trovi», questo disse il Trap a Batistuta, che voleva ancora una volta andarsene da Firenze. Per trattenere Edmundo si ricorse ad un patto scellerato con la società, un accordo per cui il geniale brasiliano avrebbe avuto il permesso di partecipare al Carnevale di Rio, e lì in pratica la Fiorentina perse lo scudetto. Per Rui Costa invece non ci fu bisogno di ricorrere a nessuna astuzia: il portoghese era ben felice di rimanere in viola e non pose nessuna condizione. Per tutto il girone di andata i tre dettero spettacolo, trascinando la Fiorentina al titolo di campione d’inverno, grazie anche alle quattro vittorie consecutive iniziali.
In verità i successi in fila avrebbero potuto essere cinque, se a Roma il Trap avesse dato retta al suo quasi infallibile istinto. Per sua stessa ammissione il tecnico, al momento della sostituzione di Edmundo (che mandò platealmente tutti a quel paese), Trapattoni aveva pensato di buttare dentro Firicano, salvo poi ripensarci per questioni extra campo. La domenica prima, infatti, Robbiati e Rui Costa si erano violentemente scontrati e così il Trap mandò in campo Anselmino, come se volesse rincuorarlo. Con Bati in possesso di palla e la Fiorentina in vantaggio, Sant’Anselmo da Lecco si smarcò solo davanti a Chimenti, ma il capitano fece finta di non vedere, preferendo tirare. Trapattoni a fine partita commentò: «con certi atteggiamenti infantili si perdono i campionati». Chissà a chi e cosa faceva riferimento…

BEAUTY E GEL
Guillermo Martinez Amor è stato il primo giocatore che abbia visto arrivare al campo di allenamento con il beauty in mano. Elegantissimo, attraversava il campo di Abbadia San Salvatore con l’aria distaccata dei grandi nobili spagnoli dell’ottocento e sembrava chiedersi: «ma io che ci faccio qui?». Dopo le sue prime prove, ce lo chiedemmo anche noi. Amor sembrava uno di quei fighetti che venivano a giocare nei nostri campi fangosi e che prima delle successive terrificanti mischie ci ammonivano con un frase sospetta: «ragazzi giochiamo pure, ma stiamo attenti. L’importante è non farsi male, mi raccomando». Ecco, se fosse venuto nella nostra squadra di ragazzi, non mi sarei stupito nel vederlo uscire a fine partita pulito come quando era entrato.
Nella stagione successiva il primato di Amor fu però seriamente insidiato da Mijatovic, che oltre al beauty (deve essere una fissazione di chi ha giocato in Spagna) poteva vantare i capelli più impomatati del campionato. Roba da far schiantare di invidia perfino Ugo Poggi. La signorilità di questi due gentiluomini è stata davvero squisita: mai una parola o uno scatto fuori posto, al bando ogni polemica col tecnico che non li faceva giocare per manifesta inferiorità atletica. Solo nel momento dell’addio hanno dimostrato entrambi una curiosa ed insospettabile forma di vitalità. Amor (tre miliardi netti all’anno) ha ingaggiato, perdendola, una durissima battaglia legale per dei premi promessi e non erogati. Mijatovic (quattro miliardi e mezzo netti a stagione) ha in pratica costretto la nuova Fiorentina a cambiare nome perché il giorno dopo il provvidenziale arrivo di Della Valle si è presentato (con una velocità sorprendente rispetto ai suoi movimenti nell’area di rigore avversaria) dall’imprenditore marchigiano per cercare invano di riscuotere quanto doveva ancora dargli Cecchi Gori. Ah, quando si dice la classe.

GODIAMO E RIGODIAMO
Sono i titoli di Stadio in quei fantastici mesi del 1998. Il 15 dicembre è la serata magica in cui crediamo davvero di poter vincere lo scudetto. Una Juve ormai in caduta libera viene battuta a Firenze per uno a zero, con una splendida rete di testa di Batistuta. Ho rivisto decine di volte l’azione del gol con l’audio ambientale dal campo, ad un certo punto si sente un grido: «allarga su Lulù!». Era il Trap dalla panchina che teleguidava Amoroso: palla sulla fascia per Oliveira, cross perfetto per Bati e Peruzzi infilato. Forse Amoroso avrebbe passato lo stesso il pallone sulla sinistra, chissà, ma intanto quella era la dimostrazione che a quasi sessanta anni Trapattoni “viveva” ancora come pochi la partita dalla panchina.
Poi ci rubano due punti a Perugia, dove Cesari (ancora lui!) fischia in pieno recupero un rigore che non c’era per fallo di mano di Amor, ma all’inizio del 1999 riusciamo ad ottenere quattro vittorie nelle prime cinque partite. Ormai non ci ferma più nessuno.

IL DIRETTORE
L’idea venne all’improvviso: perché non chiedere a Sconcerti, al “mitico” Sconcerti, di diventare opinionista di Radio Blu? Osai e dopo una settimana di corteggiamento ricevetti il suo assenso. La prima volta, rispettosamente, lo misi in collegamento insieme a Manuela Righini, ma la sera stessa mi disse che avrebbe gradito parlare da solo, magari rispondendo alle domande dei tifosi. Nacque così un appuntamento che per tre anni è stato davvero imperdibile. Quasi ogni volta la Fiorentina mi chiedeva copia della registrazione, perché raramente gradiva ciò che diceva il direttore del Corriere dello Sport-Stadio. Io ci ridevo sopra e consegnavo la cassetta.
Sconcerti era fantastico nell’eloquio, bastava non contraddirlo. In quei casi passava velocemente dal lei al tu, e poi alla trivialità più insospettabile, lasciandomi a volte in grave imbarazzo. Però con lui abbiamo fatto grande radio, specie quando parlava di tecnica. Le cose cambiarono un po’ quando entrò nella Fiorentina con la delicatezza di un elefante in una cristalleria, ma questa è una storia da raccontare più avanti.

IL CAZZOTTO
L’informatore fiorentino preferito di Cecchi Gori era il vice presidente Ugo Poggi, a cui devo riconoscere una lealtà di fondo quasi unica fra i collaboratori di Vittorio. Ciò nonostante, credo, e lui sa che la penso così, che abbia combinato diversi pasticci per la sua voglia di tenere aggiornato il presidente. A Poggi non piaceva affatto la linea informativa scelta per Canale Dieci da Sandrelli: secondo lui si criticava troppo e non si aiutava abbastanza la Fiorentina. Io invece imparai proprio in quegli anni ad apprezzare il lavoro di Massimo. Magari qualche volta contava un po’ troppo sulla propria intelligenza, ma ci ha comunque consentito di lavorare in un clima di libertà che dall’esterno non poteva nemmeno essere immaginato.
Poggi dunque preferiva frequentare le tribune di Rete 37, e fu proprio da lì che pronunciò la fatidica frase: «quello che fanno a Canale Dieci non mi piace affatto. L’ho detto più volte a Vittorio e fosse per me l’avrei già chiusa». In studio i giornalisti presenti godettero senza nemmeno nasconderlo troppo e nessuno fu colto dallo scrupolo professionale di difendere i colleghi. Solo Luca Calamai, presidente del gruppo giornalisti sportivi toscani, ebbe l’umiltà di riconoscere l’errore del mancato intervento e scrisse una lettera di scuse che mettemmo in bacheca.
A Canale Dieci intanto ci eravamo scatenati ed io ero fra i fomentatori del gruppo anti-Poggi, anche perché ritenevo, probabilmente non a torto, che fosse stato proprio lui a mettere zizzania tra me e Cecchi Gori per la storia degli opinionisti. Buttammo giù un documento unitario pesantissimo contro di “il signor Ugo Poggi”, mentre ad ogni Pentasport non perdevo occasione per sparare sul vice presidente a palle incatenate. Il giovedì successivo, al campo delle Due Strade durante l’amichevole della Fiorentina, la situazione degenerò. Io non c’ero, ma Alessandro Rialti mi ha raccontato di alcune battute sarcastiche di Sandrelli rivolte ad un Poggi già fumante di rabbia per il comunicato e per tutte le polemiche da noi scatenate contro di lui. Nell’intervallo Rialti vide che Poggi si stava avvicinando minacciosamente al “nemico” e cercò di bloccarlo tenendogli le braccia. Ugo, più vecchio di ventidue anni, con una mossa da consumato calciante si liberò di Alessandro con una gomitata alla bocca dello stomaco e sferrò un cazzotto micidiale sul volto di Massimo, che finì steso per terra. Più tardi qualcuno mi disse che al secondo posto della lista c’ero io, ma non ho mai appurato se fosse vero. Ho quindi passato altri due anni di alti e bassi con Poggi, a cui comunque mi univa la disistima, peraltro temporanea, verso Malesani. Poi, nel duemila, lui dette le dimissioni e da allora è diventato un interlocutore prezioso. Uno dei pochi, secondo me, ad aver salvato la faccia nella rovina viola del 2002.

NEMICI
Riepilogando: Batistuta, Malesani, Poggi completamente contro; Antognoni (non ho mai capito il perché, forse per via di Sandrelli) più contro che a favore, Cinquini neutro. Luna variabile, a seconda di come si alzava la mattina, e Cecchi Gori spesso non pervenuto. Questo era il quadro della mia situazione con il potere viola nella primavera del 1998. Senza contare che Cardini, il plenipotenziario politico di Vittorio, mi vedeva come il fumo negli occhi per via di amicizie con altri gruppi radiofonici. Obiettivamente il fatto che sia sopravvissuto a Canale Dieci ha del miracoloso e meriterebbe un attento studio sociologico.
Come ho fatto? Intanto è giusto ammettere che avevo ormai maturato una certa abilità nel muovermi tra i casini, che nel gruppo Cecchi Gori spuntavano come funghi nel bosco d’autunno. Poi c’era il fatto che il Ring dei Tifosi continuava ad essere la trasmissione più vista della televisione, che le mie radiocronache avevano il 90% dell’ascolto dell’emittenza privata, che il Pentasport piaceva moltissimo ai tifosi e che gli sponsor che portavo a Canale Dieci non facevano schifo a nessuno. C’era infine, forse più importante di tutti, il famoso fattore “C”. O, ad essere più eleganti, il fattore fortuna: Malesani ce l’aveva con Poggi, che ce l’aveva con Luna, che ce l’aveva con Cardini. E Luna non poteva dare a Poggi e Cardini la soddisfazione di farmi fuori e comunque, quando attaccavo Malesani, improvvisamente piacevo anche al vice presidente. Quando alla fine della stagione Sandrelli, che mi aveva sempre difeso, dette l’addio al gruppo Cecchi Gori, diventai addirittura responsabile della redazione sportiva e qualcuno si mangiò il cappello dalla rabbia.

UN GIGANTE DEL PENSIERO
Un mio amico mi ha detto che la colpa è stata mia perché bastava rifarsi alla fisiognomonia (la deduzione parascientifica dei caratteri spirituali degli individui ricavata dall’aspetto del loro volto) per evitare qualsiasi frequentazione con Domenico Morfeo.
La prima volta che ho avuto a che fare con lui è stato quando il giorno stesso del Ring disse che non sarebbe venuto perché improvvisamente gli era passata la voglia. L’ultima, quando ha chiesto il numero del mio cellulare a Macilletti e mi ha chiamato dicendo che mi «avrebbe picchiato se continuavo a metterlo sullo stesso livello di Marco Rossi e Nuno Gomes». Non sarà male ricordare che fra me e lui ci sono venti chili di e dieci centimetri di differenza a mio favore. Fra un episodio e l’altro corrono quattro anni e tanti altri simpatici siparietti in cui Morfeo, che ama spesso parlare di sé in terza persona, ha fornito prove entusiasmanti di intelligenza pura. Sì, a pensarci bene, aveva proprio ragione il mio amico.

GRAN FINALE
La Fiorentina di Malesani vinse le ultime tre partite del campionato, lasciando in tanti la sensazione che il tecnico si fosse purtroppo fermato a metà dell’opera, ma lo strappo con Cecchi Gori era ormai definitivo. A Roma contro la Lazio Batistuta segnò quello che, secondo i desideri di Gabriel, era il suo ultimo gol in maglia viola: mise il pallone sotto la maglia, mimando la terza gravidanza di Irina, e sembrò commosso. Alby si era intanto promesso prima al Bologna e poi al Parma, che lo aveva cercato dopo la vittoria viola al Tardini propiziata da uno straordinario gol di Edmundo. Presidente ed allenatore si presentarono insieme all’ultima conferenza stampa, facendo finta di essere dispiaciuti ed invece non ne potevano più l’uno dell’altro. Col tecnico se ne andava da gran signore anche Oreste Cinquini, molto cresciuto professionalmente negli ultimi due anni. Mi chiamò per ringraziarmi della collaborazione offerta in cinque stagioni e per scusarsi dei dissapori passati: davvero unico nel suo genere.
Per la sostituzione di Malesani c’era chi diceva (finalmente) Ulivieri e chi il tifoso viola Mondonico, ma Vittorio smentì tutti, affermando di «avere un asso nella manica». Ed era vero, perché sulla panchina viola arrivò Giovanni Trapattoni.

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