La mia voce in viola


1987/88
Un’indimenticabile mattina del luglio 1987, seduto su una panchina alla Fortezza, scoprii con terrore che eravamo diventati nuovamente abusivi. Era successo che Matarrese aveva monetizzato al massimo il calcio in televisione e agitando ad arte lo spauracchio della Fininvest aveva strappato alla Rai un mostruoso contratto di 180 miliardi di lire per tre anni in cambio dell’esclusiva totale. Televisiva e radiofonica. E il nostro accordo fino al 1989 con la Fiorentina? Carta straccia, anche se a ripensarci ora non sono poi tanto sicuro che giuridicamente avremmo avuto la peggio in un’eventuale causa.
La situazione era comunque grave e fu in quell’estate che capii una volta per tutte quanto tenessi alla radiocronaca. Subito cercai informazioni su strani “telefoni cellulariâ€? che si diceva non avessero bisogno di prese in tribuna stampa. Sarebbe stato l’ideale, perché in questo modo si poteva viaggiare indisturbati in ogni settore dello stadio, ma la divisione commerciale della SIP mi disse che le sperimentazioni sarebbero iniziate solo nel 1989. Cominciai allora ad organizzare un vero e proprio movimento di lotta con le altre radio del nostro consorzio per non mollare senza almeno provare lo stesso a trasmettere. Studiai regolamenti e leggi europee sulla libertà di informazione, diventai un esegeta dell’articolo 21 della nostra Costituzione (quello sulla libertà di espressione), mi convinsi che la radiocronaca non è immagine ma frutto della fantasia di chi trasmette e quindi non può essere venduto alcun diritto. Passai così delle settimane in uno stato di febbrile eccitazione in attesa che il campionato ripartisse e mi rovinai per le vacanze. Avevo inoltre avuto l’ottima pensata di mandare in crisi proprio durante quei mesi il mio storico e da sempre burrascoso rapporto sentimentale. Risultato: un caos totale in tutti i sensi. Tre giorni prima che la Fiorentina esordisse in casa contro il Verona acquistai tre mega-prolunghe telefoniche di cinquanta metri ciascuna che il buon Saverio Pestuggia, addetto per una decina d’anni allo srotolamento delle stesse, ricorda ancora con terrore. Mi affidai all’angelo custode dei radiocronisti e cominciai in tribuna laterale la prima radiocronaca del nuovo corso.

CALCIO PARLATO
Lo inventammo con Raffaello Paloscia un pomeriggio di agosto del 1987 sulla passeggiata di Lido di Camaiore. Nel recente passato ho avuto con lui dei rapporti un po’ burrascosi e mi è dispiaciuto perché, Rinaldo a parte, Paloscia è stato l’unico ad offrirmi di lavorare quando nessuno o quasi mi conosceva. Fu sua l’idea di “impormiâ€? alla proprietà di Rete 37 per co-condurre questa nuova trasmissione, che all’inizio andava in onda il martedì e che avrebbe dovuto parlare (pacatamente) di calcio. Qualche anno dopo mi confidò di avermi scelto un po’ per le mie qualità e un po’ perché eravamo nati lo stesso giorno, il 27 settembre. Da Paloscia ho imparato a sdrammatizzare e ho sempre apprezzato un’umiltà che lui continua miracolosamente a conservare dopo oltre cinquanta anni di professione.

ERIKSSON
A Firenze intanto era arrivato un signore, un vero signore, già un po’ italianizzato dai tre anni di Roma, che si erano conclusi con l’amaro esonero nella primavera del 1987. A livello di competenza l’accoppiata con il presidente Baretti ha rappresentato il picco più alto mai raggiunto dalla storia viola negli ultimi trent’anni. La principale preoccupazione di Eriksson era che la squadra giocasse bene e rispettasse gli schemi studiati in allenamento con feroce applicazione. Non gli piaceva che qualcuno prendesse iniziative personali perché a quei tempi Eriksson pensava che al gol si dovesse arrivare attraverso la manovra. E’ solo così che si spiega lo scetticismo di fondo verso Baggio, che lui avrebbe volentieri dirottato in prestito, anche se poi alla fine Robertino lo convertì nell’anima. Non si capisce altrimenti il perché, cinque anni dopo Firenze, ci sia stato l’innamoramento calcistico del tecnico svedese per Mancini, cioè un altro Baggio, geniale ed insofferente ad ogni tipo di disciplina tattica.

MILANO, 20 SETTEMBRE 1987
Sciopero della Rai e arrivo a San Siro con la giustificata paura di essere cacciati dalla tribuna stampa. Era prevedibile che tutta la Toscana viola sarebbe stata all’ascolto di una partita sulla carta impossibile. E in effetti, all’inizio, non è proprio una normale partita di calcio perché i rossoneri ci chiudono nella nostra metà campo e si gioca ad una sola porta. Landucci fa i miracoli, Van Basten e Virdis si mangiano almeno un paio di reti. In qualche modo resistiamo e riusciamo addirittura a partire una volta in contropiede. Diaz entra in area di rigore, salta l’uomo e viene steso. Rigore netto, che l’arbitro però non fischia. Rinaldo accanto a me comincia a dare i primi segni di nervosismo.
Secondo tempo e solita musica, loro a giocare e noi a soffrire. Poi rifacciamo un altro contropiede e stavolta Diaz non riescono a fermarlo: uno a zero per la Fiorentina. Ma non è finita perché a dieci minuti dalla fine nel firmamento del calcio italiano si accende una stella. Ancora con la maglia viola e ancora con la maglia numero dieci. Robertino prende palla a centrocampo, con una mezza veronica fa scontrare tra loro due difensori del Milan e si presenta davanti a Galli. Finta a sinistra e via dall’altra parte, pallone appena intercettato dall’ex portierone viola e depositato con delicatezza in rete. Un delirio. Baggio entra dentro la porta, si inginocchia e ringrazia (forse gli dei che lo hanno ispirato), Rinaldo prende la cornetta del telefono e urla: «e vai! Glielo abbiamo messo nel c… a questi buc…..». Non era il massimo dell’eleganza, ma rendeva bene l’idea.

PROFESSOR MONELLI
Fu un campionato proprio grigio, impreziosito però dalla vittoria in casa contro il Napoli che sarebbe diventato Campione d’Italia. E’ il grande giorno di Monelli, che vede Garella fuori dai pali e lo infila con un’incredibile rete da centrocampo. Il martedì successivo a Torino arriva l’avvocato Agnelli per la classica visita alla sua Juventus. Convoca in separata sede il divino Platini e osa chiedergli ciò che nessuno, se non appunto Agnelli, avrebbe mai osato: «Mi scusi Michel, potrebbe provare anche lei a ripetere ora, qui davanti a me, il tiro di Monelli di domenica scorsa: è stato sublime». Noblesse oblige e Platini si porta col pallone a centrocampo, mentre Tacconi rimane a fare il Garella (cioè il pollo) fuori dalla porta, al limite dell’area di rigore. Una, due, tre volte ed il pallonetto di cinquanta metri di Platini non entra. L’avvocato scuote maestosamente la bianca testa e se ne va. Monelli uno – Platini zero, sono queste le soddisfazioni della vita.

DARE BUCA A BAGGIO
Aveva esordito in serie A con la Sampdoria e, tanto per non smentirsi, si era fatto male la settimana dopo. Diciamo la verità: erano in pochi a credere che quelle ginocchia così esili e martoriate avrebbero sorretto per anni il suo straordinario talento. Con Baggio nell’anno di Bersellini avevo rapporti normali, più o meno come tutti i giornalisti che gravitavano intorno alla Fiorentina. Il tempo delle scelte arrivò la stagione successiva, quando Eriksson decise che forse era meglio darlo in prestito al Cesena “per farlo maturareâ€?. Io scelsi di stare con Baggio e non me ne sono mai pentito, perché ancora oggi, se lui gioca, mi metto davanti al televisore a vedere una partita e l’abbraccio che ci scambiamo ogni volta che ci vediamo profuma di reciproco rispetto e di un briciolo di amicizia.
Dunque, in quell’anno di incubazione del futuro campione, era normale invitarlo in radio come giovane speranza. Baggio accettò senza problemi, ma sfortunatamente incappò in uno dei rarissimi momenti in cui le ragioni del cuore avevano avuto la meglio sulla mia coscienza professionale. Ero troppo impegnato in altre faccende e davvero non potevo passare a prenderlo. Non esistevano i cellulari, sapevo che questo bravo ragazzo vicentino era ad aspettarmi all’uscita di Prato Est, ma non sapevo proprio come avvertirlo. Lo chiamai mortificato la sera a casa e gli raccontai la balla di una gomma bucata (che fantasia!). «Non importa, non ti preoccupare, faremo la trasmissione la prossima settimana, sempre che a te vada bene», mi disse e la cosa finì lì. Più o meno la stessa classe del signor Ramon Angel Diaz, che per tre volte ci prese in giro promettendo di venire a Radio Blu e non facendosi mai vedere. Ma si vede che fra me e gli argentini è una questione di feeling. Alla rovescia.

LORO DUE INSIEME
Mi sono divertito a contare i minuti in cui Antognoni e Baggio hanno giocato uno accanto all’altro: sono 245, neanche tre partite intere. Solo all’ultima giornata contro l’Atalanta sono rimasti in campo fianco a fianco per tutta la gara, quasi a voler suggellare l’imminente passaggio di consegne. Baggio aveva un grande rispetto per Antognoni e ne ascoltava in silenzio i consigli tecnici. Esiste un’immagine bellissima di loro due a Napoli mentre preparano la punizione del pareggio viola, quella del primo gol di Robertino in serie A, nel giorno dello scudetto partenopeo. Antognoni così più alto ed elegante, quasi patriarcale, sembra quasi voler suggerire il tiro al discepolo. Quello fu anche il gol della matematica salvezza al termine di un campionato anonimo, senza spunti tecnici e con pochissime emozioni. La squadra giocava male, con un’infinità di cross da centrocampo che fecero arrabbiare i tifosi consegnando al tempo stesso a Bersellini l’ingiusta patente di allenatore fra i più scarsi mai avuti. Ne avremmo invece visti di peggio.
Quando la stagione si concluse, nessuno di noi poteva sapere che non avremmo più ritrovato Antognoni con la maglia viola. Sapevamo dell’addio dell’ottimo Oriali e del consunto Gentile, ma il capitano era come il David di Michelangelo, un monumento, ed eravamo tutti sicuri di ritrovarlo in ritiro per il sedicesimo anno consecutivo. Ed invece arrivò dal Losanna un’offerta economicamente eccezionale, una di quelle “che non si possono rifiutareâ€? e Antognoni se ne andò, tenendo comunque fede alla promessa che mai e poi mai avrebbe indossato un’altra maglia di squadra italiana e giocato contro la sua Fiorentina. Alla prima partita in Svizzera partirono in duemila da Firenze, perché il dolore dell’addio rimaneva fortissimo. Poi, piano piano ci abituammo a vivere anche senza Antognoni, ma nell’aprile del 1989 andammo in quarantamila allo stadio per “festeggiareâ€? il suo addio al calcio. Lui smetteva e noi non eravamo più dei ragazzi.

1986/87

Nel febbraio ’86, con un blitz preparato da un paio di mesi, avevamo acquistato in esclusiva i diritti radiofonici, con un contratto triennale. Sembrava impossibile, ma non eravamo più clandestini e quindi non avevamo più l’ispettore di Lega alle costole. Addio (purtroppo temporaneo) a fughe affannose in mezzo a giornalisti e spettatori. Purtroppo il blitz lo fecero anche i Pontello, che cominciarono a vendere i pezzi migliori della rosa. Niente nuovi investimenti e arrangiarsi con quello che c’era. Arrivarono Diaz, Di Chiara e lo spremuto Galbiati, partirono Galli, Massaro e Passarella. Era una squadra strana, con diversi giocatori al capolinea (Gentile e Oriali), giovani in via di maturazione (Landucci, Carobbi, Onorati e Berti), gente che non maturava mai (Monelli) e grandi speranze per l’avvenire (Baggio). In società, Nassi, senza più Ranieri Pontello presidente, aveva preferito lasciare e con lui a luglio, se ne andò improvvisamente anche Agroppi. Sarebbe più corretto dire che fu cacciato, ma qui le versioni cambiano a seconda di chi le fornisce. Al suo posto arrivò Bersellini, uomo squisito, ma non adatto da un ambiente particolare come Firenze. Fu immediatamente soprannominato Mastrolindo per un’innegabile somiglianza con il noto personaggio degli spot televisivi e si innamorò della città. Aveva sempre sperato di poter allenare un talento come Antognoni, ma a maggio, a Empoli in Coppa Italia, il capitano si era di nuovo seriamente infortunato. Stavolta però l’attesa per il ritorno fu più breve: “appenaâ€? sette mesi.

QUALCHE VOLTA POTRESTI PRENDERE IL PALLONE?
Il mondo del pallone da anni si interroga attonito su alcuni misteri calcistici. Un esempio: come hanno fatto ad arrivare in serie A elementi Andrea Rocchigiani, Carlo Pascucci e Massimiliano Fiondella? Tutti bravi ragazzi, per carità, ma poiché siamo in tanti ad esserci comportati più o meno bene nella vita, non si capisce perché a noi non è mai stata data questa fantastica opportunità. La Fiorentina, nel suo piccolo, può vantare un record: li ha fatti giocare tutti e tre, consegnando loro senza vergogna le stesse maglie che furono di gente come Magnini, Robotti, Cervato e qui mi fermo per non farmi troppo del male.
Prendiamo Rocchigiani, simpatico ragazzo fiorentino cresciuto a pane e calcio(ni). La notte fra il e il 14 settembre 1986,ad Avellino, una visione dall’al di là deve aver illuminato Bersellini, qualcosa di misterioso deve averlo convinto dell’ineluttabilità di mandare in panchina Gentile per far giocare Rocchigiani. Chissà se nell’occasione ci fu la stessa raccomandazione che Rocco fece a Rosato prima di un derby milanese degli anni sessanta: «colpisci qualunque cosa ti passa accanto, se è il pallone pazienza». A pensarci bene deve averglielo detto, perché il nostro eroe cominciò a scalciare più di un cavallo imbizzarrito, beccando alternativamente ora Tovalieri, ora Dirceu. Di calci al pallone quindi non ci fu traccia e dopo cinquanta minuti di lotta libera, Magni di Bergamo non poté che estrarre il cartellino rosso fra la costernazione del pubblico avellinese che stava cominciando a divertirsi per il match di lotta libera. Ciò nonostante, Rocchigiani, come del resto prima Pascucci e poi Fiondella, riuscì misteriosamente a collezionare diverse presenze in serie A. E pensare che c’è gente molto più dotata che si sbatte da una vita e non va oltre l’Interregionale.

IL SECCHIO
Ad Oporto la Fiorentina si gioca la qualificazione al successivo turno Uefa. Ha vinto in casa per uno a zero e sta perdendo con lo stesso punteggio contro i non impossibili portoghesi del Boavista. Si va ai supplementari e non succede niente. I rigori sembrano inevitabili ed è questo punto che Bersellini ha la pensata giusta: fa riscaldare Maldera, distintosi in due anni in viola solo per l’esagerato ammontare dell’ingaggio.
«Vai Aldo, pensaci te. Prima però fai un po’ di movimento».
Cinquanta metri avanti e cinquanta indietro, tutto bene fino a quando Maldera con la testa per aria non infila il piede nel secchio dell’acqua lasciato improvvidamente davanti alla panchina.
«Ahia!», urla Aldone.
Bersellini (paterno) «Ti sei fatto male?»
«Un po’ mister…»
«Ma te la senti di entrare per battere il rigore?»
«Non si preoccupi, vado e segno».
Entra, non tocca palla e si porta sicuro sul dischetto. Errore clamoroso e Fiorentina eliminata. Indimenticabile.

MI RACCOMANDO…
Faccio carriera. Rete 37, che a quei tempi aveva il monopolio delle trasmissioni della domenica sera, decide di affidarmi il compito di commentare la gara in trasferta e di dare i voti ai giocatori viola. Dal settembre 1986 all’aprile 1990 batto ogni record della speciale categoria e ricevo ben sessantaquattro telefonate dal direttore Michel Isler, una per ogni sabato che precede la partita. Giuro, una ad ogni vigilia. E sono tutte uguali: «mi raccomando stai nei tre minuti, se succede qualcosa di importante avvertimi prima di andare in onda, dai prima il voto e poi il giudizio sul giocatore». Ci fosse stata una volta che non l’abbia fatto, ma evidentemente non ero ritenuto affidabile. Stavo per ricorrere allo psicologo per capire cosa non andasse in me, quando ho saputo che il rito della telefonata proseguiva implacabile anche con chi aveva preso il mio posto. Mi sono consolato e oggi pagherei qualsiasi cifra per sapere cosa raccomanda ogni giorno il buon Michel a suo figlio prima di andare a scuola. Forse, «mi raccomando, se ti interrogano stai nei tre minuti»?

CE LO METTI O NO?
Che tormentone la storia del secondo rientro di Antognoni. La squadra stava girando bene e al posto del capitano se la cavava egregiamente Onorati, poi schiacciato in carriera da responsabilità più grandi di lui. La Fiorentina aveva strapazzato l’Inter di Rumenigge e Altobelli per 3 a 0 con doppietta di Passarella e gol straordinario di Berti, al termine di una galoppata lunga cinquanta metri. La domenica successiva i viola erano impegnati a Verona e Antognoni smaniava dalla voglia di scendere in campo. Sembrava la sceneggiatura di un film di successo: il grande ritorno del capitano nello stadio dove per la prima volta si era accesa la stella del suo talento.
Niente da fare. Agroppi fece capire a tutti che la Fiorentina veniva prima delle esigenze di un singolo giocatore, fosse anche la bandiera viola degli ultimi dieci anni. Aveva ragione nella sostanza, ma sbagliò nella forma. Certe cose andavano spiegate con pazienza al campione, fatte digerire con un abile lavoro di psicologia per poi trovare insieme una versione diplomatica che non spaccasse la tifoseria. Al contrario, per Agroppi Antognoni era un giocatore come tutti gli altri e a Verona rimase malinconicamente in panchina per tutta la partita. Il risultato comunque dette ragione all’allenatore, perché i viola riuscirono a pareggiare per 2 a 2 in casa dei Campioni d’Italia.
Nella settimana successiva naturalmente non si parlò che dei rapporti tesi tra il tecnico ed il capitano, con la conseguenza di preparare malissimo la partita casalinga contro il Bari. Finalmente, al ventiduesimo della ripresa, al Comunale si riaccese la luce: Agroppi fece la grazia ed Antognoni ritornò in campo al posto di Onorati. Combinò poco ed il risultato non si sbloccò dallo zero a zero iniziale, ma Firenze aveva ritrovato il suo figlio prediletto. Purtroppo però non era più lo stesso Antognoni ammirato prima dell’infortunio e dopo ventun mesi di stop non poteva non pagare pegno. Cominciò così una staffetta con Onorati che invelenì l’ambiente e, dopo un’altra domenica in panchina contro il Torino, si arrivò alla vergogna di un assalto di alcuni tifosi ad Agroppi ai campini. Fu Passarella a mettere in fuga gli aggressori e a difendere fisicamente il tecnico, che però prese lo stesso qualche colpo. Quella fu la pagina più brutta di una stagione che poteva rappresentare il trampolino di lancio per puntare decisamente l’anno successivo allo scudetto.

L’APPLAUSO
Fu proprio contro il Bari nel girone di ritorno che ho assistito ad una delle scene più belle di oltre vent’anni di calcio. I pugliesi erano in piena lotta per non retrocedere e la Fiorentina, dopo essersi portata in vantaggio con Monelli, stava giocando un’ottima partita. Quel giorno Antognoni sembrava aver fermato il tempo e dominava incontrastato a centrocampo, gli avversari ne avevano quasi un timore reverenziale. A venti minuti dalla fine però Agroppi decise di toglierlo lo stesso, forse perché temeva un calo improvviso, ed in quel momento lo stadio Delle Vittorie di Bari scattò in piedi per una standing ovation. Non erano ancora i tempi delle ola e degli applausi a richiesta: in quel gesto degli avversari c’era tutto il riconoscimento di grandezza ad un campione che forse (e fu così) il pubblico di Bari non avrebbe più rivisto in campo.

BRACCIALETTI
Non si piacquero da subito e per anni continuarono a starsi cordialmente sull’anima. Nel 1985 Roberto Baggio era arrivato da pochissimo nel ritiro della Fiorentina quando Agroppi lo sorprese a fare comunella con Passarella e gli altri senatori viola. Ci fu una reprimenda furiosa del tecnico condita da considerazioni varie ed assortite sui suoi capelli lunghi e i dieci-braccialetti-dieci di Robertino. Quello fu un anno disgraziato per Baggio, di grande sofferenza fisica e morale. Le tante ricadute gli impedirono l’agognato esordio in serie A e alla società che lo controllava da vicino non piacevano troppo certe sue frequentazioni fuori dal campo. Giocò solo nel torneo di Viareggio e si fece male un’altra volta.
Nel 1988 Agroppi e Baggio si incontrarono di nuovo, invitati da Raffaello Paloscia negli studi televisivi di Rete 37, e fu ancora scontro. Nella trasmissione “Calcio parlatoâ€? non si vide niente, ma il dietro le quinte fu imbarazzante perché i due si dissero finalmente tutto quello che l’uno pensava dell’altro. Dopo dieci minuti di veleni, con Baggio che col suo tono pacato rivolgeva al suo ex allenatore accuse pesantissime, Agroppi se ne andò dagli studi amareggiato. E ancora adesso, a distanza di tanto tempo, non ho mai capito perché fra Agroppi e i giovani viola di quel tempo sia nato un grande feeling, mentre con il più forte di tutti le cose siano andate così male.

SE LO ACCHIAPPO…
Finalmente dopo cinque anni la Fiorentina riuscì a sconfiggere la Juve in casa e l’esultanza dell’ex granata Agroppi al secondo gol viola di Berti in contropiede venne giudicata eccessiva da vari commentatori. Una leggenda metropolitana fa risalire proprio a quel balzo la causa dell’inaspettato esonero del luglio successivo. In pratica, il palazzo del calcio non avrebbe gradito la troppa anti-juventinità di Agroppi e a Pier Cesare Baretti, diventato presidente al posto di Ranieri Pontello, fu chiesto di allontanare il tecnico di Piombino. A me pare troppo grossa per essere vera, però non si sa mai…
Nonostante quella prestigiosa vittoria, a causa delle troppe sconfitte esterne i viola non erano affatto sicuri di andare in Uefa. Bisognava giocarsi tutto a Pisa, in uno stadio che sembrava una polveriera perché in quella partita la squadra di Anconetani rischiava di finire in B. Fu una partita nervosissima, decisa da una doppietta di Passarella, in partenza per l’Inter, mentre Massaro e Galli erano già stati venduti al Milan. Le lacrime del portiere a fine gara, mentre stava andando a regalare la maglia ai suoi ormai ex tifosi dopo quasi un decennio passato in viola, sono uno dei ricordi più struggenti della recente storia della Fiorentina.
Nel dopo gara assistemmo increduli allo show di Anconetani, che ignorò la fresca retrocessione e parlò di un solo uomo: Aldo Agroppi, che nel recente passato aveva allenato il Pisa con ottimi risultati. Rubizzo dalla rabbia e pericolosamente in bilico tra un ictus e l’infarto, Romeo urlò che «quest’uomo l’avrebbe pagata cara, stavolta me l’ha fatta davvero grossa. Io l’ho salvato quando non era nessuno e rimesso in piedi quando era partito di testa (chiaro riferimento ad una crisi depressiva di Agroppi) e lui mi ricompensa così. Non avrò pace fino a che non mi sarò vendicato, vedrete chi è Anconetani!». Che avrebbe dovuto fare Agroppi? Consigliare ai suoi di giocare per perdere? Rinunciare all’Uefa della Fiorentina per permettere la salvezza del Pisa? Erano domande legittime, ma nessuno di noi ebbe il cuore ed il coraggio di rivolgerle ad Anconetani.

SMOBILITAZIONE
Venni ammesso anch’io al brindisi di addio di Ranieri Pontello il 4 giugno 1986, nell’intervallo della partita di ritorno di Coppa Italia contro la Roma. Dopo sei anni il presidente venuto dall’Australia, dove la famiglia aveva enormi interessi, lasciava, ma i Pontello restavano lo stesso padroni della società. Quell’addio era il segno più evidente di una smobilitazione ormai annunciata e concretizzatasi con la cessione dei tre più forti e vendibili: Passarella, Galli e Massaro. In quei dieci minuti di commiato Ranieri mi sembrò un po’ sopra le righe e forse cercò di mascherare con qualche bicchiere di troppo il dispiacere e la commozione per dover lasciare. Era stato un buon presidente, molto meno sanguigno del padre Flavio e del fratello Luca, che qualche volta si lanciavano in spericolatezze verbali inopportune. A Ranieri toccava spesso il compito di ricucire i rapporti con chi veniva investito dalle sfuriate dialettiche degli altri componenti della famiglia. Al suo posto arrivava dalla Lega calcio un grande giornalista, Pier Cesare Baretti.

1985/86
Nell’estate venne fuori la mia anima irrimediabilmente provinciale. Per mettere una toppa ad una situazione sentimentale burrascosa mi ero impegnato economicamente in un’avventura al di sopra delle mie possibilità: un magnifico e romantico viaggio esotico di ben due settimane alle Seychelles. Tutto molto bello, come avrebbe detto Pizzul in telecronaca, ma con un piccolo particolare assolutamente sottovalutato alla vigilia: da quelle parti non arrivavano giornali italiani. Un incubo. Erano i giorni in cui sembrava che il grande Falcao, in rotta con la Roma, potesse vestire la maglia viola ed io ero all’oscuro di tutto. Feci cose da vergognarsi. Simulando interesse per alcune forme di architettura locale, andai ad una specie di mostra vicino all’aeroporto e mi misi ad aspettare i voli dall’Italia per elemosinare i resti dei quotidiani sgualciti da dieci ore di viaggio. Telefonai quattro volte in Italia ai quei pochi amici a cui potevo confidare che io, sì, stavo benissimo fra le palme, le noci di cocco ed il mare, ma avevo assolutamente bisogno di sapere cosa stava succedendo a Firenze e nella Fiorentina. Tutto questo fervore non servì a niente, perché Falcao, evidentemente non informato della mia angosciosa partecipazione all’avvenimento, alla fine non venne ed i viola furono l’unica squadra a presentarsi al via con un solo straniero, il grandissimo Passarella.

OSPITI
Intanto avevamo fatto un piccolo salto di qualità ed il Pentasport era diventato la prima trasmissione in Toscana ad andare in onda contemporaneamente in radio ed in televisione, su Telecentrotoscana. Diventava quindi fondamentale avere l’ospite in studio e decidemmo di puntare su una coppia che si alternava. Scegliemmo Galli e Massaro nove mesi prima che andassero da Berlusconi. In società però vigevano nuove regole ed ogni cosa doveva essere vagliata dai responsabili viola. Fu proprio in quei giorni che ricevetti una grande lezione da Claudio Nassi, che bocciò senza appello la mia proposta. «Vede Guetta – mi disse – i giocatori sono spesso come dei bambini. Voi date dei soldi a Galli e Massaro creando una disparità nello spogliatoio, poi gli altri si ingelosiscono e nascono problemi. Fateli girare nelle vostre trasmissioni e non ci saranno screzi. E’ vero che sono poche lire rispetto agli ingaggi che prendono, ma lei non conosce i calciatori».
Li avrei conosciuti benissimo negli anni successivi. Ho visto cose a cui gli umani, per dirla alla “Blade runnerâ€?, non avrebbero mai potuto credere. Ho visto un grande campione straniero che pretendeva, non si sa bene a quale titolo, che la televisione di proprietà del suo presidente gli procurasse gratis e subito un frullatore. E la cosa più triste è che glielo facemmo avere, il frullatore, nel giro di un’ora direttamente nello spogliatoio. Si tratta dello stesso gentiluomo che dopo aver partecipato ad una festa di viola club, ed aver preteso per il disturbo due orologi da sei milioni ciascuno, si presentò il giorno dopo dal negoziante per avere in cambio i soldi, perché lui quegli orologi ce li aveva già. Ho ricevuto la telefonata risentita di un centrocampista di quantità di metà anni novanta che aveva saputo di una cassetta video da Lire 29.900 regalata all’ospite della settimana successiva. La voleva anche lui e ci concesse, bontà sua, la possibilità di scegliere il genere. Ed è per questo che penso debbano essere consegnati alla memoria dei posteri gli unici tre giocatori che in diciassette anni di battaglie senza esclusioni di colpi hanno rifiutato di prendere soldi o regali per venire nelle trasmissioni. Si tratta di Roberto Baggio, Lele Oriali e Sergio Battistini: a loro va un commosso grazie a nome della scalcinata categoria di cacciatori di ospiti.

E LA FIORENTINA VA
Quadrata in casa, un po’ fragile in trasferta, la Fiorentina di Agroppi stava stabilmente nei piani alti della classifica giocando un calcio essenziale e senza avere in pratica attaccanti. La progressiva involuzione di Monelli era arrivata ormai a livelli di guardia ed il nuovo acquisto Iorio dopo poche settimane piaceva più alle ragazzine fuori dello stadio che al tecnico di Piombino. In compenso vennero lanciati senza troppi tentennamenti due giovani di talento: Carobbi e Berti, mentre Battistini, faticava un po’ a trovare i ritmi giusti. Ma su tutti giganteggiava l’enorme talento di Passarella, che dopo uno scontro iniziale con Agroppi durante il ritiro, aveva preso la squadra in mano e faceva di tutto: chiudeva dietro e segnava di testa o su punizione. Semplicemente eccezionale. Intanto nelle partitelle del giovedì faticavano tra le riserve due signori che si chiamavano Roberto Baggio e Giancarlo Antognoni.

IL TELEFONO, LA MIA CROCE
Ore 13 del 6 gennaio 1985, ovviamente domenica. Sono già al Comunale di Torino e cerco notizie della radio corrispondente per la presa telefonica. Il giornalista arriva venti minuti dopo, sembra tutto a posto, ma non ha l’apparecchio con sé. Panico totale, come faccio a trasmettere senza telefono? Mi ricordo che un amico del mare, Andrea Masatto, vive a Torino. E’ maledettamente gobbo, ma abita a due chilometri dallo stadio. Telefonata angosciata, lui non c’è, ma la mamma sì e mi impresterebbe quello che è improvvisamente diventato il mio oggetto del desiderio. Taxi, corsa disperata verso il campanello: non risponde. Suono ad altri condomini, compreso il vicino di pianerottolo, tal Marchisio Busellu. Qualcuno apre e salgo all’ultimo piano. La signora Masatto mi consegna il telefono e, maledizione, scopro che ha una conformazione tecnica da fine ottocento, come non avevo mai visto e non va bene. Accidenti alle tradizioni sabaude! Intanto il ragionier Marchisio Busellu apre lentamente e con diffidenza piemontese dieci centimetri di porta. Con la coda dell’occhio lo vedo: è lui, il telefono grigio! Con gli spinotti messi al punto giusto!
«Me lo dia!», imploro Marchisio Busellu.
«Ma veramente…»
«Le lascio un assegno in bianco, ne ho bisogno per la radiocronaca!»
«Signora Masatto, ma lei lo conosce questo giovanotto?»
«E’ un amico di mio figlio, uno del mare…»
«La prego, mi dia il telefono, tra venti minuti comincia la partita e tutta Firenze (bum!) aspetta me»
«Va bene, tenga pure, ma me lo riporti, neh!…»
Strappo il telefono, lascio l’assegno, rimonto sul taxi, travolgo una decina di persone sulle scale del Comunale e quando entrano in campo le squadre compongo il numero di Radio Blu.

ZIO UCCIO
De Sisti si dimise a dicembre, nella settimana precedente alla sfida con la Juve. A sorpresa i Pontello pensarono al sessantaseienne Ferruccio Valcareggi, a cui in un primo tempo era stata proposta una sorta di controllo su De Sisti, soluzione giustamente rifiutata da Picchio. La guida dell’ex tecnico della Nazionale fu giudiziosa, in linea con la sua saggezza e la Fiorentina evitò di finire invischiata nella lotta per non retrocedere. Qualche capo dello spogliatoio capì che era il caso di finirla con le lotte interne e tutti più o meno si misero a remare dalla stessa parte. Ad Avellino feci arrabbiare Valcareggi, come mai gli era successo nella sua lunga carriera, almeno così mi ha detto il figlio Furio.
Era successo che la Fiorentina, dopo aver battuto 4 a 0 il Bari a Firenze, giocasse in Puglia un’inutile gara di ritorno di Coppa Italia. Alla mezz’ora i viola sono già in vantaggio con Pellegrini e a quel punto Valcareggi fa riscaldare i giovanissimi Bortolazzi e Carobbi. Inizia il secondo tempo e le due riserve continuano a lavorare a bordo campo. Dopo dieci minuti, e complice l’assoluta assenza di pathos, comincio a chiedermi cosa stesse aspettando il tecnico per buttare dentro i ragazzi. Vado avanti in un crescendo di ironia un po’ pesante verso Valcareggi fino a venti minuti dal termine, quando entra Bortolazzi per Pecci. Ancora dieci minuti e tocca finalmente a Carobbi per Gentile. Lì per lì non succede niente, ma la domenica successiva, appunto ad Avellino, appena terminata la gara Valcareggi dribbla i cronisti e si dirige minaccioso verso di me. «Come ti permetti!! Ma chi sei tu per dirmi chi devo cambiare e quando, ci vuole rispetto per le persone che lavorano!!!». I toni della filippica erano esagerati, ma in sostanza aveva ragione: replica rolex ero andato un po’ troppo sopra le righe.

FINALMENTE LA BATTIAMO
La mia radiocronaca preferita da bambino era Juventus-Fiorentina 2 a 3, con gol viola nel finale. Una partita totalmente inventata, con nessun appiglio, ahimè, con la realtà. Fantasticavo sulle reti dei miei idoli Brugnera e Chiarugi, parlavo ad un immaginario microfono e mi esaltavo per la vittoria.
Attendevo da tempo un momento del genere ed era destino che raccontassi un successo della Fiorentina a Torino nella gara più inutile. I bianconeri stavano preparando la tragica finale di Coppa dei Campioni con il Liverpool ed erano staccatissimi dal Verona, noi galleggiavamo a metà classifica. Loro passarono subito in vantaggio con Briaschi, ma prima Cecconi (stavolta era proprio lui) e poi una fantastica punizione di Passarella regalarono a Valcareggi quel successo che era sempre mancato in otto sfide a De Sisti.
Finimmo al nono posto ed i Pontello decisero che era arrivato il momento di cambiare tutto. Un grazie a Valcareggi, un addio a Corsi, svariati tentativi di sbarazzarsi di Socrates. Arrivarono Agroppi e Nassi, stava per tornare Antognoni, era stato acquistato Battistini. Nel febbraio intanto la Fiorentina aveva speso moltissimo per acquistare dal Vicenza il diciottenne Roberto Baggio, che a maggio si infortunò gravemente. Ciò nonostante, Baggio arrivò lo stesso a Firenze e non si è mai saputo di chi fu l’artefice del trasferimento. Dodici anni dopo, a Canale Dieci, Nassi e Corsi stettero un’ora a discutere, attribuendosi ognuno i meriti dell’operazione e quasi sicuramente, se non altro per una questione di tempi, era Corsi ad avere ragione.

1984-85
Sembrava la riedizione della stagione del quasi scudetto. Eravamo tutti gasati al massimo: la Fiorentina con Socrates e Gentile e noi a Radio Blu. Volevamo ripetere il colpo di Graziani, Iachini era stato bravo, però alla lunga aveva dato segni di stanchezza e adesso puntavamo su un gran nome. Romanticamente pensai ad Antognoni, che sarebbe rimasto fermo per tutto il campionato, ma non era nella condizione di spirito per accettare. Partii quindi deciso all’assalto di Passarella, con un’offerta mostruosamente alta: dodici milioni netti per tutta la stagione. In pratica la radio avrebbe lavorato in perdita per il quarto anno consecutivo, ma il richiamo del Caudillo, specie con l’arrivo del brasiliano Socrates, sarebbe stato irresistibile. Seguirono abboccamenti, telefonate, riflessioni. Al termine di uno sfiancante tira e molla, Passarella disse di no, lasciandomi deluso. Ripiegai su Monelli che all’inizio accettò, salvo poi rinunciare dopo appena tre puntate, un po’ come era successo con il materasso. Alla fine arrivò Massaro e non fu una scelta sbagliata: in un anno di veleni e dispetti, con lo spogliatoio spaccato in almeno tre tronconi, non era male avere con noi il più loquace fra i giocatori.

TACCO E DEMOCRAZIA CORINTHIANA
Fisicamente era uguale al campione del 1982, con la testa invece era un altro. O forse era sempre stato così, nessuno lo ha mai saputo con certezza. Una gran bella testa, non c’è che dire, solo che non era sintonizzata sulle onde delle nostre misere vicende calcistiche fiorentine. Brasileiro de Oliveira, o più semplicemente Socrates, arrivò ad illuminarci accompagnato da ventisettemila abbonati, un record imbattuto per molti anni. Insieme a lui, molto più defilato, il campione del mondo Claudio Gentile, accompagnato da strepitosa consorte.
Se ne era andato Bertoni, schiumante di rabbia, e Antognoni per la prima volta in dodici anni non faceva il ritiro, ma noi aspettavamo Godot, cioè Socrates. Era tale l’attesa che decisi di vedermi il suo debutto estivo contro la Casertana in Fiesole, per respirare meglio la torcida viola. Due minuti di gioco ed ecco andare in scena il suo famoso colpo di tacco: splendida apertura all’indietro per consentire alla Casertana di andare quasi in gol. Una prova imbarazzante, con la scusante però di una preparazione da incubo (per Socrates). Il dottor Brasileiro de Oliveira aveva infatti sempre considerato la corsa un optional del calcio e può darsi che in Brasile andasse bene così, visto che se giochi in mezzo a Cerezo, Zico e Junior te ne puoi anche fregare di rincorrere l’avversario. In Italia però con Occhipinti e Moz il discorso era un po’ diverso e alla prima sgambata in salita il povero Socrates si perse fra i boschi del Trentino, arrivando alla base con un ritardo da maglia nera nel Giro d’Italia. La mancanza di conoscenza dei sistemi di allenamento italiani venne ampiamente compensata da un accurato studio fino a tarda notte dei locali fiorentini, frequentati naturalmente solo perché così il dottor de Oliveira poteva rendersi conto personalmente della realtà sociale in cui viveva.
Segnò sei gol in campionato e quando aveva il pallone, colpi di tacco a parte, era delizioso. Tecnicamente valeva quanto Antognoni, ma sul piano dell’impegno Socrates era irritante. Realizzai con lui un’intervista sulla democrazia corinthiana, cioè la metodologia imposta da Socrates nello spogliatoio del Corinthias, e venne fuori una cosa bellissima sul piano sociologico. Peccato non c’entrasse niente con la Fiorentina che stava affondando, travolgendo nel naufragio anche il povero De Sisti.

DIALOGO TRA DUE ALLENATORI SPERDUTI IN TRENTINO
Armando Onesti (sarto e allenatore in seconda della Fiorentina) «Bisognerebbe rifare il test di Cooper a Pecci e Monelli, non mi hanno convinto nell’ultima prova»
De Sisti (allenatore in prima della Fiorentina) «Non esageriamo, sono appena quattro giorni che siamo qui e non vorrei spremerli troppo. La stagione è lunga»
Onesti «Guarda che ogni calciatore esprime solo il 50% delle proprie potenzialità, questi sono atleti per modo di dire. Pensa a Socrates…»
De Sisti «Ma dai, ci vuole pazienza, è al suo primo ritiro italiano, non è abituato»
Onesti «E le birre che si fa fuori di nascosto? Alcuni suoi compagni di squadra mi dicono tutto, sai. Bisogna controllare di più la dieta, molti giocatori ci prendono in giro»
De Sisti «Controlleremo, ma devono fare gol non i diecimila metri»
Onesti «Senti Picchio, vedo che non mi segui ed io mi sto innervosendo. Voglio andarmi a fare una decina di giri di pista di corsa e vedere il tempo che ottengo. Vieni con me?»
De Sisti «A Arma’, ma fatti ‘na scopata ogni tanto!».

DISASTRO
L’improvviso malore di De Sisti fu un macigno inaspettato e pesantissimo. Picchio venne salvato quasi miracolosamente, ma ebbe troppa fretta di rientrare perché insospettito da come il suo vice Onesti gestiva la situazione. Lo spogliatoio era infatti spaccato in almeno tre fazioni: Passarella, Oriali, Gentile e forse Contratto erano i duri, i giannizzeri di Onesti. Pecci, Iachini e Pulici restavano fedeli a De Sisti, gli altri si barcamenavano come potevano. Socrates stava sulla sua torre d’avorio e al gruppo mancava il carismatico buonsenso di Antognoni, impegnato in una dolorosissima rieducazione con il professor Baccani.
I dispetti erano all’ordine del giorno, in un intervallo di partita qualcuno orinò nella bottiglia del te’ di un compagno, forse in quella di Socrates o di Pecci. Quello fu il punto di non ritorno di una rosa da fare invidia per i nomi dei componenti (e gli stipendi pagati), ma assolutamente incapace di fare gruppo. Il povero De Sisti, imbottito di medicine, tentò di usare l’arma migliore del suo repertorio, il dialogo. Un martedì di novembre, dopo l’ennesima sconfitta a Roma, rimasero a parlare per oltre tre ore senza allenarsi. Eravamo fuori infreddoliti ad aspettare, quando si presentarono tutti sorridenti a dichiarare che “ogni equivoco era stato chiarito e che da quel momento erano una sola cosaâ€?. Si è visto come.

SCUSI, CHI HA GIOCATO?
Rivendico delle attenuanti perché fino alla domenica mattina erano in due a contendersi il posto: lo scurissimo Occhipinti ed il biondissimo Iachini. Si gioca a Genova, contro la Sampdoria e ho la mia bella postazione in casa dei signori Veneziani, ma siccome sono un cronista scrupoloso cerco di infilarmi nella zona vicino allo spogliatoio per capire da Pallino Raveggi chi avrebbe giocato. «Penso Iachini», mi risponde e me ne vado convinto. Ovviamente il servizio di tribuna stampa di Marassi non funziona fino a casa Veneziani e quindi mi mancano le formazioni ufficiali, ma vedo con la maglia numero undici un signore indiscutibilmente biondo. Per me è Iachini e così sarà per i novanta minuti di una partita persa male e giocata peggio. Raggiungo la sala interviste ed intercetto Iachini: «oggi non mi sembravi al meglio della forma…». Mi guarda un po’ stranito, non risponde, penso che sia arrabbiato per la sconfitta e non ci faccio caso. Incrocio Cecconi e lo provoco: «un’altra domenica in panchina, pensi di andartene da Firenze?». Sorride e risponde: «forse era meglio se stavo davvero in panchina». Vengo colto da atroce dubbio, mi faccio dare una formazione ufficiale e mi casca il mondo. Quello con la maglia numero undici era Cecconi e non Iachini, bischero!

PARK ASTRID
Il lunedì dopo lo svarione (chiamiamolo così) di Genova uscì il programma Rai sulle partite di Coppa del mercoledì. La Fiorentina aveva pareggiato per uno a uno in casa con l’Anderlecht e avrebbe giocato a Bruxelles la gara più difficile e più intrigante dal punto di vista tecnico, ma questo non bastava per farla vedere in diretta. Venni colto da un delirio di onnipotenza e mi misi in testa di organizzare in meno di un giorno la trasferta in Belgio, allacciare una linea telefonica, coprire le ingenti spese ed infine trasmettere la mia prima radiocronaca europea. Ruppi le scatole a mezzo mondo e riuscii a partire con il treno il martedì sera. Nel vagone letto rimuginai molto su un gratuito attacco televisivo di Vincenzo Macilletti a proposito di quella “trascurabileâ€? storia dello scambio di nomi e preparai una risposta memorabile sulle “imperfezioni linguisticheâ€? del noto conduttore di Teleregione. Dopo quello scambio di colpi proibiti, i rapporti con Macilletti migliorarono sensibilmente.
La partita nel bellissimo impianto del Park Astrid fu un disastro. Perdemmo per 6 a 2, ma ero talmente eccitato nei toni da far sembrare ogni azione viola una specie di assalto all’arma bianca, quando invece raramente avevamo superato la metà campo. Il diciottenne Scifo e i suoi compagni ci avevano dato una lezione di calcio su cui meditare a lungo. In compenso mi avevano ascoltato tutti, Macilletti compreso, e la mia radiocronaca stava cominciando ad entrare nel vissuto dei tifosi.

MA ALLORA QUALCUNO MI ASCOLTA!
Era una notte buia e tempestosa… D’accordo, la notte non poteva che essere buia, ma tempestosa è un aggettivo che ci sta bene, se rapportato sia alle condizioni climatiche di gennaio che al mio stato d’animo. Avevo chiamato Iachini per fissare il solito appuntamento per andare in radio e venni gelato da una domanda: «si può sapere cosa ca… hai detto in radiocronaca a Napoli? Nello spogliatoio sono tutti inferociti con te». E per tutti intendeva, in ordine di arrabbiatura, Passarella, Oriali, Antognoni e buon ultimo Pecci, che, forse in memoria dell’anno trascorso insieme, non sembrava troppo incavolato. Andai completamente nel pallone, era come se mi avessero dato un cazzotto alla bocca dello stomaco e chiesi spiegazioni. Iachini mi parlò di alcune allusioni che avevo fatto circa una presunta combine. Improvvisamente mi ricordai che nel contesto di una gara bruttissima e non sapendo più a quale santo votarmi per evitare di continuare a descrivere insulsi passaggi a centrocampo, avevo cominciato a parlare degli ottimi rapporti da sempre esistenti tra Napoli e Fiorentina. Mentre ribadivo per la decima volta lo scarso spessore agonistico della partita, citavo i tanti giocatori che le due società si erano scambiati. Ovviamente non avevo tirato in ballo alcuna combine, ma ero stato ingenuo e anche un po’ stupido. Scoprii in quel momento la categoria che fino all’avvento della pay tv ha rappresentato, insieme all’ispettore di Lega, il mio incubo maggiore: la moglie (o l’amico) del giocatore. Quella o quello capace di riferire al marito o al sodale qualsiasi mia critica, deformando quasi sempre le parole, con il risultato di catapultarmi addosso il calciatore schiumante di livore.
Sulla partita di Napoli comunque avevano ragione. Dopo una notte in bianco, andai a Canossa e chiesi udienza ai big della squadra al termine dell’allenamento. Nelle lunghe ore di insonnia mi ero preparato una dotta disquisizione che assomigliava un po’, lo ammetto, al brodo primordiale. Dentro c’era di tutto, dalla sacra libertà del giornalista, al mio amore per la Fiorentina, fino ad arrivare all’assoluta ammirazione per quei campioni. Appena giunto dentro lo spogliatoio, dimenticai ogni cosa. Farfugliai qualche frase, chiesi scusa per l’eventuale malinteso e venni “sorrettoâ€? dialetticamente da Pecci, che cominciò a fare battute. Antognoni disse che per lui l’incidente era chiuso, Oriali constatò laconicamente che a Milano con Bruno Longhi c’era più professionalità nel fare la radiocronache, Passarella tacque pericolosamente, ma non mi attaccò a nessun braccio della doccia. Uscii dallo stadio sollevato e solo in quel momento mi venne in mente che forse gli ascoltatori delle mie radiocronache erano più dei cinquanta amici e parenti a cui avevo sempre pensato.

12 FEBBRAIO 1984
C’è qualcosa di misteriosamente grande e tragico nella vita calcistica di Giancarlo Antognoni. Non importa andare ai mancati successi di un giocatore unico, basta pensare ai suoi tre infortuni: prende in mano la squadra con il Genoa, segna un gran gol e per poco Martina non lo spedisce al Creatore con l’uscita più spericolata ed idiota che si sia mai vista. Gioca divinamente contro la Polonia nella semifinale mondiale, offre un assist d’oro a Paolo Rossi e dieci minuti più tardi gli zompa addosso Zmuda, aprendogli in due il piede ed impedendogli così di giocare la finalissima. E’ il capitano di una Fiorentina spettacolare che sta inseguendo la Juve, realizza la rete dell’uno a zero con la Sampdoria e al quarto della ripresa viene irrimediabilmente falciato da Luca Pellegrini, che gli tronca in due la gamba e la carriera.
Quello fu il punto di non ritorno della sua prima vita in viola. Sì, Antognoni sarebbe rientrato diciannove mesi dopo, ma non era più la stessa cosa.

BRAVI LO STESSO
Non si ripeté il miracolo Miani e forse la squadra era un po’ stanca perché aveva speso troppo. Senza Antognoni ad ispirare l’attacco, Bertoni e Monelli si incepparono e arrivarono più pareggi che vittorie. Ciò nonostante, finimmo al terzo posto, quindi nell’attuale Champions Leagues, a sette punti dalla solita Juve che aveva vinto il confronto diretto a Torino con fortuna e solo grazie ad un discutibile rigore. Era stata comunque una stagione da incorniciare, la più bella Fiorentina dagli anni sessanta, migliore sul piano del gioco di quella a cui avevano rubato lo scudetto. Sul piano societario se ne era andato Allodi e Corsi era tornato a comandare da solo. Esisteva il problema di sostituire Antognoni e qualcuno a primavera si ricordò che Socrates aveva fatto un gran mondiale in Spagna, segnando fra l’altro un gol strepitoso a Zoff. Era tutto vero, peccato che da quei tempi fossero passati due anni e almeno un migliaio di lattine di birra.

GUETTA CHI?
Ultima partita di campionato ad Avellino. Convinco Saverio Pestuggia a venire con me e ci ritroviamo per caso ospiti di un banchetto nuziale nel ristorante scelto alla periferia della città. Sgusciamo via pieni come tonni fra una tarantella e un “O sole mioâ€? e arriviamo al Partenio con il solito anticipo di due ore. Rosoliamo al caldo di metà maggio fino a che non intravedo l’inconfondibile sagoma di Ciriaco De Mita, allora potentissimo segretario della Democrazia Cristiana e tifoso dell’Avellino. Annuso l’intervista di prestigio, mi butto tra le sue guardie del corpo e gli sparo la prima domanda:
«Onorevole, come giudica questa stagione calcistica che sta terminando?»
Silenzio
«Onorevole, un altro bel campionato dell’Avellino…»
Niente
«Onorevole, qual è per lei il numero giusto di stranieri che dovrebbe avere ogni squadra?»
Peggio che andar di notte.
Mi sollevano di peso due “simpaticiâ€? gorilla e cominciano ad intervistarmi.
«Ma lei ha mandato la regolare richiesta in segreteria per parlare con l’onorevole De Mita?»
«Veramente no, vengo da Firenze e volevo solo chiedere all’onorevole qualcosa sul campionato di calcio»
«Lavora per la Rai?»
«No»
«Per la Gazzetta dello Sport?»
«No»
«Per quel giornale di Firenze, come si chiama?… »
«La Nazione. No, mi piacerebbe, ci ho provato ma non mi hanno mai risposto»
«Insomma, per chi lavora?»
(Con malcelato orgoglio) «Per Radio Blu di Prato, faccio le radiocronache della Fiorentina»
«Conosce qualcuno qui ad Avellino?»
«Il signore che mi ha dato l’accredito ed il tecnico della Sip che ha installato il telefono, ma non credo che servano»
«Come ha detto che si chiama?»
«Mi chiamo David Guetta e (quasi con aria di sfida) sono giornalista pubblicista da quasi quattro anni»
«Guardi Guitta che lei qui in tribuna d’onore non ci può stare e soprattutto la deve smettere di importunare l’onorevole De Mita con le sue stron….».
Mi scusi onorevole, come è umano lei!

1983-84

«Ho visto in ritiro un giocatore eccezionale, che ci farà impazzire». Il mio amico Maurizio era appena tornato da Pinzolo, dove era andato per puro diletto a “controllareâ€? la preparazione della squadra. Il giocatore eccezionale era Pasquale Iachini, che due anni prima in Coppa Italia aveva dato spettacolo proprio contro la Fiorentina. Evidentemente De Sisti non lo aveva dimenticato e lo aveva inserito nella lista degli acquisti di una campagna di rafforzamento che si rivelò la migliore degli ultimi venti anni. Lo contattammo immediatamente per sostituire Graziani nel Pentasport. Era una scommessa perché nessuno lo conosceva bene sul piano caratteriale e certo non aveva il carisma dei precedenti conduttori, ma ci andò bene, perché Iachini azzeccò la più bella annata della sua carriera in una Fiorentina che, e sono parole di Michel Platini, quell’anno giocò «il calcio più spettacolare che si possa vedere in Italia».

NO, IL MATERASSO NO
Piano piano cominciavo a capire che in un mestiere da puttane come il giornalismo bisognava sapersi vendere. Non potendo per evidenti limiti fisici aspirare a nessun ruolo da conduttore fustacchione, dal capello fluente stile Giletti o Cucuzza, e non avendo alle spalle alcun sponsor politico che mi avrebbe comunque potuto spedire in televisione o in una qualsiasi redazione, non potevo che cercare di “vendereâ€? al meglio quel poco che facevo. Cominciai così con molta fatica ad aumentare i contatti commerciali, abbinati alla conoscenza sempre più approfondita dei calciatori. Dopo la prima di campionato vinta contro il Napoli, arrivò un piccolo colpo di fortuna grazie all’amicizia con Paolone Monelli, a cui in quei giorni stavo dando una mano per cercare una casa in affitto.
La domenica dell’esordio Monelli segnò l’unica tripletta della carriera in serie A e diventò il capocannoniere del campionato, più di Zico e Platini. Successe di tutto: prime pagine dei giornali, interviste in testa ai tg, dichiarazione commosse della mamma. Si mossero pure gli sponsor locali ed io venni “incaricatoâ€? di seguire uno spot televisivo. Come se fossi stato Caliendo con Baggio, trattai tutto, prezzo, provvigioni per me, passaggi. Il primo spot sulle vernici del mio amico Roberto Lonzi andò bene, ma quello successivo, molto più remunerativo, fu un disastro. Eppure, fino al giorno prima di girare, tutto sembrava a posto.
«Cosa devo pubblicizzare?», mi chiese Monelli.
«Ma no, niente di particolare, sono dei particolari materassi ortopedici. Ti sdrai sopra, ti rialzi e spieghi alla telecamera che il riposo lì sopra ti ha fatto bene e che segni anche grazie ai materassi XY»
«Sei matto? E se dopo non segno più? Come minimo Pecci mi prende in giro tutti i giorni e i tifosi mi invitano a tornare a dormire sul materasso invece di indossare la maglia numero nove. Annulla tutto»
Visto poi come è andata la sua carriera, non aveva completamente torto…

DATEMI UN TERRAZZO
Pur convinto che all’ascolto ci fossero solo i parenti e gli amici, la storia della radiocronaca cominciava a piacermi. Solo che non tutte le società davano il permesso dell’installazione telefonica e così bisognava arrangiarsi. La Sampdoria era al primo posto nella classifica della caccia grossa al radiocronista, seguita a breve distanza da Pisa e Ascoli. Fu per questo che un mercoledì partii per Genova, destinazione quartiere Marassi, alla ricerca di una soluzione. Avevo degli occhiali a specchio per nascondere un occhio nero, frutto di una colluttazione un po’ particolare con il gentil sesso, e con questo aspetto in verità assai poco rassicurante cominciai a suonare tutti i campanelli dei piani alti delle case da cui si poteva vedere il campo, ancora non coperto. Il quartiere di Marassi prende il nome dalle carceri che lì sono ubicate, la gente non è proprio il massimo della cordialità, ma dopo una decina di usciate sul viso, sedussi con una scatola di cioccolatini la famiglia Veneziani, che per cinque campionati mi imprestò il terrazzino e il telefono ad ogni gara interna della Samp. Nel 1986 Radio Blu aveva i diritti radiofonici e potevamo andare in tribuna stampa, ma ormai ero di casa e mi sembrava di fare un torto alla signora Veneziani se nell’intervallo non avessi assaggiato la sua mitica torta al cioccolato «preparata apposta per gli amici di Firenze».

GRANDE PICCHIO
Sulla carta era una Fiorentina illogica, con solo tre difensori: il grandioso Passarella, il sempre più bravo Pin e l’ottimo Contratto. La vera novità stava a centrocampo, dove Massaro e Oriali, arrivato grazie all’intuizione di Allodi, non si fermavano mai, Pecci cuciva il gioco da par suo, Iachini faceva l’ala pura saltando sistematicamente l’avversario e Antognoni era… Antognoni. Davanti Bertoni voleva far dimenticare la scialba stagione precedente, dovuta anche ad un’epatite, e ci riuscì perfettamente, segnando reti importanti e aiutando un sorprendente Monelli, alla fine autore di dodici gol.
Il copyright era tutto di De Sisti, che aveva disegnato una squadra tatticamente avanti di almeno dieci anni rispetto alle altre. Vincemmo con la Sampdoria a Genova, con l’Ascoli a Firenze e regalammo spettacolo a San Siro contro Milan e Inter, raccogliendo però appena un punto. La gara più dolorosa fu in casa contro la Juventus, quella dello spettacolare gol in tuffo di Antognoni su cross di Iachini, della doppietta di Bertoni marcato, si fa per dire, da un attonito Caricola e del disgraziatissimo autogol di Contratto nel finale. Una cosa incredibile, una svirgolata galattica da far impallidire Comunardo Niccolai, il re delle autoreti. Finì 3 a 3 quel giorno, con la sensazione niente affatto divertente che ancora una volta la Juve ci dovesse qualcosa…
Picchio fu anche bravo a gestire lo spogliatoio, dove certo non mancavano le teste pensanti. Prima c’era solo Antognoni a comandare, ora invece si erano aggiunte personalità del calibro di Pecci, Passarella, Oriali. Sul quattro a zero in casa contro il Catania, De Sisti decise di sostituire nel finale Antognoni per farlo riposare un po’. Il capitano non la prese bene e gettò rabbiosamente la fascia per terra al momento del cambio con Miani, senza salutare il compagno e andando di corsa stizzito verso la doccia. Era un periodo particolare per Antognoni: ad appena 29 anni Bearzot aveva ingiustamente deciso che per lui non c’era più posto in Nazionale. De Sisti a fine partita ci disse che non si era accorto dello sfogo del capitano perché voltato dall’altra parte a dare dei consigli difensivi a Cuccureddu, che quel giorno sostituiva Passarella. Sì, dei consigli difensivi sul 4 a 0 per la Fiorentina…

LA PRIMA VOLTA
Non è come il primo bacio o come la prima volta che fai l’amore, ma una certa comparazione è lo stesso possibile perché sei totalmente inesperto e la brutta figura è assicurata. Statisticamente la radiocronaca mi accompagna da oltre venti anni, superando in anzianità fidanzate e mogli, ormai temo che faccia parte del mio DNA. Ketty era una solo bella ragazza, campionato dopo campionato è diventata splendida, ma unicamente con la Fiorentina in vantaggio. L’incipit della storia è banale e legato ad un recupero della memoria. Mi ero infatti ricordato che a Udine davano a richiesta il telefono per trasmettere la partita e allora mi sono detto: perché non provarci? Costo dell’installazione SIP, ottantamila lire, più le spese per la chiamata in teleselezione. Rinaldo era perplesso, ma come sempre mi dava carta bianca. In verità, io lo ero più di lui e, soprattutto, mi chiedevo a chi diavolo potesse interessare una partita raccontata da me. E
poi c’era il problema di coprire le spese. Mi venne in mente che il fidanzato dell’affascinante sorella del mio amico Maurizio aveva un’attività commerciale un po’ strana, l’aria compressa, che forse aveva bisogno di pubblicità. Telefonai a Fabio Sali ed ottenni senza neanche troppa fatica le centomila lire necessarie per tentare.
E’ nato in quel giovedì di gennaio un rapporto speciale con una delle persone più belle che abbia conosciuto. Col passare del tempo Fabio non era più lo sponsor, ma un amico vero, a cui rivolgersi in qualsiasi momento. La lotteria della vita ce lo ha portato via prestissimo, ma per fortuna, quattro anni dopo la sua morte, siamo in tanti a ricordarci della sua lealtà e del suo fare per gli altri.

RITMO, RITMO…
A risentirle adesso, le mie prime radiocronache sono quasi comiche. Partivo sparato, come se dovessi fare i cento metri in dieci secondi netti e mi afflosciavo inevitabilmente verso la metà del primo tempo. L’ormai famosa (per me) Udinese-Fiorentina finì zero a zero e fu una partita bruttissima, ma nel primo quarto d’ora sembrava molto più combattuta di Italia-Germania 4 a 3. Non avevo nessuna scuola alle spalle, solo l’ascolto di quindici anni di “Tutto il calcio minuto per minuto…â€?, molta lettura di giornali e tanta voglia di imparare. Errori principali: non spiegavo a sufficienza in quale zona del campo fosse il pallone, il risultato era un optional (lo davo solo quando me lo ricordavo, al massimo quattro volte a tempo), e mi arrabbiavo troppo se le cose non andavano bene. Ero però in qualche modo giustificato dalla convinzione che non ci fosse nessuno a seguirmi via radio. Insomma, quelle radiocronache erano quasi dei racconti in
famiglia, un modo come un altro per far sapere, in assenza di telefonini, che ero arrivato allo stadio e che andava tutto bene…

SENZA EUROPA
Il campionato delle delusioni si concluse con un quinto posto finale, ad un punto dal Verona, quarto, cioè dentro l’attuale Champions Leagues. Poiché il calcio di allora era una cosa diversa dall’attuale (mi verrebbe da scrivere più seria, ma evito per non passare da vecchio con le mie figlie), nel 1983, arrivando quinti, non si andava neanche in Coppa Uefa. E se qualcuno avesse pensato a qualcosa di simile all’Intertoto, lo avrebbero preso per matto, rinchiuso in una stanza e buttato via la chiave. Insomma, per la Fiorentina era stata una stagione da dimenticare, impreziosita nel finale dall’arrivo in società di Italo Allodi.
Il furbissimo Tito Corsi, fino a quel momento padrone assoluto della situazione, non gli fece nessuna guerra aperta. Anzi, si disse «felice per l’arrivo in viola di un personaggio di tale prestigio ed esperienza», salvo poi bruciargli in mille modi il terreno sotto i piedi.
Una delle poche vittorie di Allodi fu quella di convincere i Pontello ad assumere per la Primavera un trentasettenne carneade di Fusignano. Un certo Arrigo Sacchi, che quando parlava di pallone sembrava sempre un po’ invasato. Nell’inverno del 1983 gli chiesi un’intervista e fu cortesissimo. Raccontò della cultura dello sport, parlò di rispetto per l’avversario, affermò che giocare bene era più importante del risultato. Monopolizzò la trasmissione e sembrò un marziano rispetto al calcio a cui eravamo abituati. De Sisti lo guardava con sospetto, Corsi lo sopportava appena, gli altri giornalisti non lo consideravano proprio, anche perché di solito le giovanili sono allenate da chi ha un prestigioso pedigree da calciatore.
Intanto, nella sede di viale dei Mille, Allodi cercava inutilmente di imporre il proprio stile fatto di rapporti personali e mazzi di fiori da inviare alle mogli dei giocatori da acquistare. Due omaggi floreali partirono anche per la Germania: uno per frau Voeller e l’altro per frau Rumenigge. Le signore gradirono, ma i mariti purtroppo non si mossero da lì.

TUTTI IN PIAZZA
La rivincita per il mancato scudetto dell’anno precedente ce la regalò Felix Magath, robusto centrocampista tedesco, dotato di gran classe e ottimo tiro. La Juventus era stata a dire il vero strepitosa in Coppa dei Campioni ed aveva eliminato fior di squadre compreso l’Aston Villa, detentrice del trofeo. Ad ogni turno ci riunivamo per gufare e tifare contro, ma tutto sembrava inutile. Con poche speranze ci mettemmo così davanti al televisore anche per la finalissima contro l’Amburgo, non senza aver scommesso contro i bianconeri una ragguardevole somma con il mio amico gobbo Alessandro Campucci. Il gol di Magath dopo pochi minuti ci fece soffrire perché arrivato troppo presto, ma per fortuna là davanti Platini, Boniek, Rossi e Bettega incapparono in una serata storta senza precedenti. “Vincemmoâ€? così la nostra Coppa dei Campioni e scendemmo sui viali a festeggiare. Credevamo di essere in pochi ed invece c’era mezza Firenze che esultava,
il resto l’Italia ci guardava con un certo disgusto.

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