La mia voce in viola


Per gentile concessione dell’editore Scramasax. Prossimo libro in uscita il 31 agosto “Fiorentina-Juventus, la partita della vita”

1982/83

C’era rabbia per il mancato scudetto ed esaltazione per avere una squadra con ben quattro campioni del mondo. Fu anche per questo clima euforico che a Radio Blu facemmo una pazzia: ingaggiammo Graziani ad una cifra mostruosa per l’epoca, 250.000 lire a trasmissione, un milione al mese, e senza avere lo straccio di uno sponsor. Ce le rimetteva tutte la proprietà, ma volevamo crescere. E alla fine, crescemmo.

CICCIO BELLO
Francesco Graziani l’avevo già conosciuto grazie a Pecci l’anno prima, in un paio di serate organizzate solo per il gusto di far baldoria. Era meno furbo dell’amico romagnolo, ma dotato di una simpatia più contagiosa, sanguigna, che conquistava tutti. Aveva vinto la classifica dei cannonieri, segnato più di cento reti in serie A ed era, grazie anche alla squalifica di Rossi e l’infortunio di Bettega, l’attaccante più prolifico della Nazionale, eppure era rimasto un uomo semplice nell’anima e sempre fedele alla parola data.
Mi capitò di assistere ad una sua telefonata con Antonio Juliano, direttore generale del Napoli, e scoprii per caso un segreto risalente all’estate 1981. Graziani si era già accordato con Tito Corsi per passare in viola, ma non aveva ancora firmato. Il Napoli lo aveva chiamato all’improvviso per offrirgli lo stesso ingaggio, più una valigia contenente cento milioni al nero. Un altro al suo posto avrebbe almeno rilanciato con i Pontello, lui non disse niente e firmò per la Fiorentina alla cifra già pattuita. In quella telefonata del 1983 Juliano continuava a rimproverarglielo, ma senza malanimo, anche perché voleva portarselo ancora a Napoli.
Parlavamo di tutto, gli piaceva sapere dei miei esami universitari perché rimpiangeva di non aver studiato, mentre a me sembrava di entrare fisicamente nello spogliatoio di De Sisti, del Torino di Radice o della Nazionale di Bearzot. Molte sue previsioni tecniche si rivelarono azzeccate, anche se ne sbagliò una su Massaro. Visto il comportamento che cominciava ad avere fuori dal campo, Graziani era convinto che l’enfant prodige viola sarebbe stato una meteora del calcio, ma non aveva fatto i conti con il ciclone Sacchi, che di lì a poco si sarebbe abbattuto sul calcio italiano travolgendo tutto, compreso il carattere superficiale del Massaro fiorentino. Uno che faceva impazzire De Sisti, adducendo durante la settimana infortuni vari per non allenarsi, salvo poi guarire miracolosamente il sabato pomeriggio.
Con Ciccio diventammo amici, anche perché il tirocinio con Pecci mi aveva fatto bene ed ero diventato molto meno ingenuo nei comportamenti. Sette anni dopo fu bello ritrovarlo a Brema allenatore inesperto e però carismatico di una Fiorentina un po’ sgangherata, capace di conquistare la finale di Coppa Uefa. In un pomeriggio dell’aprile 1983 mi disse che era stanco di una certa aria che sentiva intorno a sé in società e che sarebbe andato alla Roma di Viola. Ero l’unico a saperlo e ancora una volta neanche mi venne in mente di chiamare un giornale per “vendereâ€? lo scoop.

CELESTE NOSTALGIA
Cominciammo bene il campionato, con due vittorie di seguito, sette gol segnati e zero subiti fra Catanzaro e Genoa, ma i nostri eroi erano stanchi e come svuotati dal mancato scudetto. I rinforzi erano tecnicamente scarsi, da Patrizio Sala a Federico Rossi, passando per Bellini e Alessandro Bertoni. L’unico nuovo acquisto veramente forte era Passarella, che però doveva pagare l’inevitabile ambientamento ed in più se ne era andato Vierchwood. L’immane compito di sostituirlo era toccato ad un ragazzone veneto dai modi gentili e dal nome romantico: Celeste Pin.
A fine settembre qualcosa cominciò a scricchiolare pericolosamente. Paolino Pulici, ormai in età da pensione, fece vincere l’Udinese a Firenze con due splendide rovesciate in fotocopia e la gentile collaborazione della coppia Passarella-Pin. Poi ci fu l’ingloriosa eliminazione in Uefa contro i modesti rumeni dell’Università di Craiova, uno scialbo pareggio con l’Inter a San Siro e, soprattutto, la sconfitta interna contro la Juve. Quella che doveva essere la partita della rivincita per lo scudetto scippato, si rivelò un flop completo, reso ancora più crudele dal gol realizzato da uno dei bianconeri più odiati, Sergio Brio.
Poiché l’attacco era quello del quasi scudetto (ma Bertoni e Graziani non andavano neanche a spingerli e Antognoni pagava la stagione post-mondiale), le critiche erano tutte per la difesa. Un giorno un quotidiano se ne uscì con quel titolo, “Celeste nostalgiaâ€?, che era un chiaro riferimento al Vierchwood dei bei tempi andati. Pin non se la prese e credo che nacque proprio da lì la sua lunga storia d’amore con Firenze. Siccome era un ragazzo sveglio, capì al volo l’ironia di casa nostra e raddoppiò gli sforzi. E fra un allenamento e l’altro rilasciò delle dichiarazioni, o forse no, chissà…

IL CAUDILLO
Le avrà dette davvero ai giornali quelle cose Pin, quelle frasi in cui metteva più o meno velatamente sotto accusa il grande Passarella per le magre difensive viola? Penso proprio di sì, perché mi fido ciecamente della versione di Alberto Polverosi, ma nonostante la lunga amicizia con Celeste, non sono mai riuscito a fargli confessare la verità. Fatto sta che Passarella si arrabbiò di brutto, chiese spiegazioni al compagno, che evidentemente negò tutto o attenuò gran parte delle dichiarazioni. In un pomeriggio autunnale, il ventiquattrenne Polverosi pagò per tutti e venne “convocatoâ€? nello spogliatoio dal Caudillo (questo il soprannome di Passarella in omaggio a mai smentite simpatie verso i regimi autoritari) per una “franca spiegazioneâ€?. L’argentino mise pericolosamente la mano sotto il mento di Polverosi, che reagì indispettito e fu solo a quel punto che (forse sentendosi in colpa) intervenne Pin per separare i due. Poco dopo il presidente Ranieri Pontello chiamò Alberto e chiuse la vicenda da gran signore, comunicandogli che Passarella era pronto a chiedere scusa. Negli anni Polverosi è diventato uno dei giornalisti italiani più bravi e il Caudillo ha scritto pagine indelebili della storia viola: evidentemente quella “chiacchierataâ€? ha portato fortuna ad entrambi.

CESENA, 24 OTTOBRE 1982
Ci sono tanti modi per entrare nella storia del calcio, quel giorno la Fiorentina scelse di essere decisamente originale e riuscì a farsi pareggiare nel quarto d’ora finale l’incolmabile vantaggio di tre a zero. Come se fossi andato da un buon psicoterapeuta, ho da tempo rimosso i protagonisti di quella maledetta domenica, chi ha segnato per noi e chi per loro. Mi ricordo appena vagamente di un gol di Schachner, ma solo perché era uno dei tanti che doveva venire alla Fiorentina e che invece non si è mai visto dalle parti del Campo di Marte. All’uscita dello stadio, dopo aver registrato le parole di un De Sisti ancora stravolto, pensai che mai più avrei visto una cosa del genere. Mi sbagliavo: dodici anni dopo a Torino, contro la Juve, andò ancora peggio e perdemmo addirittura la partita. Di quel giorno mi ricordo tutto perfettamente: non ho ancora elaborato il lutto.

I VIP ULTRA’
Delusione dopo delusione, la Fiorentina aveva imbroccato una stagione davvero anonima e ad un certo punto decisiva perché mutasse l’orientamento dei Pontello. Tutto successe quasi all’improvviso, durante la partita casalinga contro la rivelazione Verona. I viola stavano giocando male e perdendo, quando ad un certo punto dalla tribuna coperta partì la contestazione verso la proprietà. Pensandoci ora, soprattutto dopo quello che c’è toccato vedere e sopportare nel 2002, era una cosa insensata, ma eravamo abituati a pensare in grande ed un campionato di retroguardia non se lo aspettava nessuno. I Pontello rimasero di stucco, illusi e convinti di essere amati per i tanti soldi spesi. Non avevano capito che nel calcio, molto più che nella vita normale, tutto è assolutamente relativo e che i viaggi di andata e ritorno tra la gloria e la polvere avvengono a velocità supersonica. Poi pareggiò Pin ed il Conte Flavio se ne andò stizzito. Approfittando del fatto di essere totalmente sconosciuto alle maschere dello stadio, intuii che fosse opportuno seguirlo, anche perché ancora non facevo la radiocronaca. Lo intercettai sulle scale e gli chiesi un’intervista. «Ma lei chi è? », mi domandò a brutto muso. Declinai le generalità, ricevetti un inevitabile rifiuto, ma lo sentii sibilare una frase profetica: «si ricordi che questi str… me la pagheranno, ma cosa caz… vogliono da noi? » e se ne andò.
Non era il «vi farò fare la fine del Bologna», l’anatema lanciato via Biscardi da un allucinato ed allucinante Vittorio Cecchi Gori al momento dell’esonero di Radice, ma poco ci mancava.
I Pontello in verità investirono ancora, ma con sempre meno entusiasmo, fino ad arrivare alle prime clamorose cessioni nell’estate 1986. E comunque il loro conto da pagare fu infinitamente meno salato del disastro nucleare provocato da VCG.

Per gentile concessione dell’editore Scramasax, prossimo libro in uscita: “Fiorentina-Juventus, la partita della vita”

1981/82

Tutto nacque per caso, nel 1981. Ero proprio un cane sciolto: non avevo sponsor e nemmeno agganci politici, ero sostanzialmente timido, ma da un decennio mi ero messo in testa di diventare giornalista. Da quattro anni avevo scoperto il rutilante mondo radiofonico, da due ero a Radio Blu, dove mi avevano dato una fiducia che non ho mai dimenticato. Ci voleva un’idea, qualcosa di diverso. No, non la radiocronaca, a quei tempi non ci pensavo proprio. Sapevo che ogni tanto da qualche misteriosa stazione in F.M. spuntavano cronache locali degli incontri della Fiorentina, ma erano inascoltabili per l’audio e per la confusione con cui erano descritte le azioni. La scintilla giusta scoccò all’improvviso e per la prima volta sentii nascere dentro di me quella tumultuosa sensazione di voler fare tutto e subito che tante altre volte mi avrebbe fregato in futuro. Prestavo servizio militare a Falconara Marittima, era un luglio torrido e improvvisamente mi venne in mente che a pochi chilometri da lì, a Cattolica, passava le sue vacanze molto casalinghe Eraldo Pecci, appena acquistato dai Pontello insieme a Graziani, Vierchwood, Massaro e Monelli. Se avessi potuto, avrei lasciato lì in piena notte la baionetta per precipitarmi a cercarlo e proporgli di venire a condurre con me una trasmissione. Dovetti aspettare due giorni, che mi sembrarono un’eternità. Arrivai a Cattolica, trovai Pecci in compagnia della splendida moglie Manuela e gli rovesciai addosso mille tesi a supporto della validità della mia proposta. Negli anni successivi non gli ho mai chiesto cosa pensasse di quel ventenne che disegnava tumultuosamente scenari mediatici a lui sconosciuti. Alla fine Pecci accettò, per centomila lire a trasmissione. In più convinsi il proprietario di Radio Blu, Rinaldo Pieroni, ad investire una discreta somma per un rimborso spese che mi avrebbe consentito di andare sempre a seguire la Fiorentina in trasferta, per realizzare interviste da proporre nel Pentasport del lunedì. Niente radiocronaca, tanto non le avrebbe sentite nessuno, solo le parole dei protagonisti.

SAN SIRO
Una giornata piovosa di fine settembre e poi il sole, una bella ragazza bionda che si toglie le scarpe e cammina felice in mezzo alle pozzanghere, io che regalo l’accredito della mia prima volta nello stadio simbolo del calcio italiano al mio amico Alessandro Canalicchio e vado con lei a vedermi la partita nel secondo anello. Ero emozionato come un bambino che entra a Eurodisney. San Siro è monumentale, fuori ci sono le targhe dei loro successi, tanti anche nei primi anni ottanta. La Fiorentina aveva vinto all’esordio in campionato rubacchiando un po’ contro il Como e adesso c’era il Milan di Radice, profeta in patria, Jordan, Tassotti e Battistini. Brutta partita, zero a zero finale ed una maledetta traversa di Graziani, “generosoâ€? come al solito. I viola si imposero poi a Catanzaro e in casa con l’Avellino, ma persero a Roma subendo un gran gol di Pruzzo, da ricordare per l’eccezionale colpo di tacco di Falcao che liberò il centravanti di Liedholm davanti all’incolpevole Galli. Poi ancora alti e bassi, culminati con l’inaspettata sconfitta di Cesena. La domenica dopo il nostro cuore cessò di battere per qualche secondo, insieme a quello di Giancarlo Antognoni.

ANTONIO, MON AMOUR
La mattina di quel freddissimo 22 novembre 1981 mi produssi in una delle poche spericolatezze della mia vita di centauro. Colpito da un attacco di improvvisa imbecillità, cercai di guidare la vecchia Honda 350 a mani incrociate, con il logico risultato di finire lungo disteso sull’asfalto. Sbertucciato e spaventato, mi presentai lo stesso allo stadio convinto della riscossa viola e non sapendo di stare per assistere a ben altro dramma. Quello che è successo lo sanno tutti: la folle uscita di Martina, l’impatto con la testa di Giancarlo, la disperazione dei giocatori fiorentini e dei genoani, il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca dell’incommensurabile “Pallinoâ€? Raveggi, la corsa all’ospedale, la paura di una città.
Solo in quell’anno Antognoni cominciava ad avere accanto a sé gente che gli assomigliasse almeno un po’ tecnicamente. Prima dell’ottima campagna acquisti dei Pontello del 1981, noi ragazzi di fine anni settanta avevamo vissuto una specie di schizofrenia calcistica: c’era la Fiorentina, mediocre, e c’era Antognoni, immenso. Ogni estate era il solito tormentone, con le grandi che lo richiedevano e i dirigenti viola che dicevano puntualmente di no, salvo poi comprare uno Zagano qualsiasi per “rafforzareâ€? la squadra. E poi c’era il rito polemico della Nazionale. Per noi di Firenze era palese il boicottaggio di Causio, Bettega e di tutta la banda di juventini che, pur di non farlo brillare, non gli passavano mai il pallone. Ero tra quelli che mettevano la foto di “Antonioâ€? accanto alla tv quando giocavano gli azzurri, così, tanto per urlare al mondo che lui era speciale e diverso dagli altri. Sette mesi e mezzo dopo la follia di Martina, non fui capace di esultare pienamente per il Mundial spagnolo, perché nella finalissima tifavo segretamente per un pareggio. In questo modo si sarebbe ripetuta la partita e Antognoni, immolatosi alla causa azzurra nella semifinale contro la Polonia, avrebbe potuto giocare. E non ero l’unico a Firenze a pensarla così… Una delle soddisfazioni più grandi fu leggere che lo avevano eletto migliore in campo nella parata di stelle a New York, andata in scena un mese dopo la maledetta sfida di Madrid. Antognoni più di Platini, Rossi, Rumenigge, Conti, Falcao, Boniek, Zico: noi lo avevamo sempre saputo che era il più bravo, gli altri cominciavano (forse) a capirlo adesso.

SENZA DI LUI
Il calcio è mistero agonistico. La definizione è di Gianni Brera, una delle più azzeccate tra le sue mille che ci accompagnano da oltre quaranta anni. Improvvisamente si scoprì che senza Antognoni la squadra girava meglio, forse perché tutti davano qualcosa in più per far vedere che ce la potevano fare lo stesso. In quei giorni sfruttai la conoscenza con Miani, che all’inizio della stagione nessuno considerava e che era destinato ad indossare la maglia numero dieci.
Nella settimana successiva all’infortunio del capitano e prima della trasferta in casa della Juve, Miani mi confidò di non essersi mai sentito così bene in vita sua e di non avvertire assolutamente il peso della sostituzione. A pensarci bene non si poteva che essere d’accordo con lui: aveva 25 anni, era nel pieno della carriera e nessuno avrebbe mai fatto paragoni con uno dei migliori calciatori del mondo. Insomma, da quella avventura Miani non avrebbe avuto altro che da guadagnare. La galoppata viola nelle partite successive fu entusiasmante e cominciò con un pareggio per zero a zero a Torino, incarognito da una traversa colpita da Daniel Bertoni a Zoff battuto. Sembrava un punto benedetto ed invece era un punto perso perché, se fosse entrato quel pallone, nell’albo d’oro della Fiorentina adesso ci sarebbero stati tre scudetti.

SEMPRE PIU’ SU
Tutto girava alla perfezione. A Bologna Pecci azzeccò un tiro straordinario e pochi minuti dopo, qualche fila sotto la mia postazione, si accasciò Piero Pasini, voce storica della Rai, colpito da infarto e morto nel “suoâ€? stadio. I gol a ripetizione di Graziani e Bertoni stesero Napoli e Inter in casa, l’entusiasmo era alle stelle.
Intanto compivo il mio apprendistato radiofonico proprio con Pecci, che mi massacrava dialetticamente con continue battute e prese di giro. Facevo finta di non prendermela, ma in verità ci soffrivo molto, non capendo che stavo imparando qualcosa. Spesso venivano fuori aneddoti sui compagni di squadra di Torino e Bologna o sulla Nazionale. Come quella volta in cui al Mondiale argentino, in omaggio ai clan, i giocatori di Torino e Juve si divisero in due gruppi ben distinti per partecipare a dei “simpaticiâ€? convegni organizzati da alcune compiacenti signorine di Buenos Aires. Fra quelli del Toro c’erano pure degli infiltrati, ma solo in nome del gemellaggio tra le due tifoserie… Se Pecci avesse studiato fino all’università, sarebbe diventato un ottimo manager, ma anche così non se l’è cavata male. Aveva la fissa di voler prendere un ingaggio superiore di cinquanta milioni a quello di Antognoni, e ci riusciva sempre (o così almeno diceva), sfruttando il grande ascendente che aveva su Flavio Pontello. «E’ il più intelligente fra i miei dipendenti che tirano calci ad un pallone», raccontava divertito il Conte, e forse non aveva torto. Una sua massima, “il pallone corre sempre più veloce di qualsiasi giocatoreâ€?, l’ho utilizzata ogni volta (cioè quasi sempre) in cui venivo accusato di essere lento nelle mie scarse prestazioni calcistiche.

UDINE
«Ma lei vuole anche il telefono per fare la radiocronaca?». Il telefono? E che me ne facevo del telefono, e che mi importava di fare la radiocronaca? A me interessava solo avere l’accredito per la tribuna stampa e per fare le solite interviste a fine partita. Il 10 gennaio 1982 io e Rinaldo arrivammo a Udine dopo sette ore di treno, con una temperatura a mezzogiorno di meno dieci. Dopo un quarto d’ora di gara il freddo era diventato così insopportabile che chiedemmo asilo politico a Sandro Ciotti, che stava commentando la partita al caldo della cabina di “Tutto il calcio minuto per minutoâ€?. Da lì vedemmo segnare Bertoni, pareggiare Muraro e infine Graziani far vincere la Fiorentina, in un tripudio di bandiere viola. In settimana avevo fatto una scommessa con Picchio De Sisti per cui, se avessimo vinto, lui avrebbe parlato prima con me e poi con Rai e giornali. Lo fece e, lo confesso, provai una leggera vertigine, ma non solo per quello. Avevamo due punti di vantaggio sulla Juve ed eravamo quindi matematicamente campioni di inverno. Senza Antognoni, ma con la squadra caratterialmente più forte del campionato. Nessuna invidia nello spogliatoio e davvero tutti per uno e uno per tutti, alla faccia di chi ci considerava al massimo da Uefa.

CIUFFI PER CASO
Non è che il gioco fosse brillantissimo, ma in difesa con Galli, Vierchwood, Contratto ed il miglior Galbiati possibile, non passava nessuno. Ad Ascoli pareggiammo zero a zero in una partita che mi è rimasta nella memoria per il prima e per il dopo. Mi avevano rifiutato l’accredito per entrare in tribuna stampa e rimasi un paio d’ore ad elemosinare l’ingresso ai vari dirigenti dell’Ascoli che si avvicendavano nei paraggi. Alla fine, scocciati e forse impietositi, mi fecero entrare proprio al fischio di inizio. Il dopo gara fu caotico, c’erano state contestazioni per un rigore non fischiato all’Ascoli e i teppisti locali cominciarono a spaccare le macchine targate Firenze. Non è un caso che due anni dopo gli unici due ceffoni in ventidue anni di trasferte li abbia presi proprio ad Ascoli. Nel parapiglia generale mi ritrovai così quasi spinto dalla folla su un pullman ancora integro e vidi là in cima, vicino al guidatore e a mo’ di capoclasse, un signore di una cinquantina d’anni che si agitava come un matto. Era Ciuffi, ancora misconosciuto alla platea televisiva, ma già trascinante e acclamato da quelle decine di persone a cui lui pagava tutto. In quanti si sono approfittati di Ciuffi in quegli anni di sfrenata ed illogica allegria finanziaria, magari gli stessi che poi lo hanno vessato nelle stagioni più amare. Gli ho voluto bene da subito, qualche volta mi sono arrabbiato, spesso mi è sembrato di fargli da babbo, credo che in tanti gli debbano qualcosa.

IL RITORNO
Un altro pareggio maledetto a Torino, con annesso discutibile rigore per i granata, e siamo all’incredibile rientro di Antognoni. Incredibile perché anticipato, e di molto, sui tempi previsti per il recupero, dopo il terribile infortunio alla testa. Il 21 marzo 1982 al Comunale (non ancora Franchi) contro il Cesena, l’aria era da attesa messianica. Nessuno aveva notizie certe, tutti aspettavano trepidanti l’annuncio delle formazioni. Siccome me lo sentivo che sarebbe tornato, registrai la voce dello speaker e nella cassetta rimase inciso prima quel cognome e poi il grido di gioia di una città che riabbracciava il figlio prediletto. Antognoni giocò bene, mandò in gol Casagrande e vincemmo con il solito uno a zero. La settimana successiva, in un clima da guerriglia urbana, pareggiammo a Marassi contro il Genoa e potevamo vincere. Poi l’inutile zero a zero in casa con la Juve, la vittoria, naturalmente per uno a zero, contro il Bologna ed infine il “suoâ€? capolavoro a Napoli.
Una cosa fantastica. Mancano otto minuti alla fine, il risultato non si sblocca e la Juve sta vincendo in casa contro l’Inter. Ad un certo punto Massaro, vera e propria rivelazione del campionato, prende il pallone e parte in contropiede tagliando fuori quasi tutta la difesa partenopea. Passaggio ad Antognoni, che vede Castellini un po’ fuori dai pali: tiro a metà tra il pallonetto e lo “shootâ€? puro e gol spettacolare che vale l’aggancio ai bianconeri. Vado in estasi. Nello spogliatoio un solo tormentone per il capitano: “cosa rispondi a chi sosteneva che la Fiorentina senza di te era più forte?â€?. “Nulla, mi interessa solo vincere il campionatoâ€?. Nel viaggio di ritorno in treno passai tre ore a dormire per terra in una carrozza inondata di viola. Arrivai a casa a tarda notte, lercio ma felice.

SCIAGURATO CASAGRANDE
Quanti gol sbagliò Casagrande a San Siro contro l’Inter il 2 maggio 1982? Sei, sette, ma forse è la rabbia che ancora non mi è passata a confondermi un po’ la memoria. Riepiloghiamo: la Juve recupera Paolo Rossi dopo la squalifica e va a giocare a Udine, noi invece andiamo a San Siro senza cinque titolari e facendo addirittura esordire in difesa il giovane Baroni. Fa un caldo assassino e Daniel Bertoni, che in assenza di Graziani avrebbe dovuto prendere in mano la squadra in attacco, si defila completamente, andando spesso a cercare le poche zone d’ombra di un pomeriggio afosissimo. Ciò nonostante, l’organizzazione di gioco di De Sisti funziona alla grande e mettiamo sempre uno davanti a Bordon. Solo che quell’uno è lo sciagurato Casagrande, che sbaglia tutto. Lui si mangia i gol e noi il fegato. Pareggiamo, la Juve vince addirittura per cinque a uno e ci passa davanti. Meno male che la domenica dopo “Giaguaroâ€? Castellini, oltre che per il Napoli, gioca anche per la Fiorentina: para tutto a Torino, inchioda i bianconeri sullo zero a zero mentre noi strapazziamo la solita Udinese per tre a zero. Siamo primi a pari merito.

IL PROCESSO
La settimana prima della fatale Cagliari accadono cose strane. Il primo giorno di un’attesa lunghissima e snervante va in scena “Il processo del lunedìâ€?, che parla solo del clamoroso acquisto juventino di Platini ed è tutto un fiorire di previsioni su quanto il fuoriclasse francese sarà utile perché i bianconeri riescano finalmente a vincere la loro prima Coppa dei Campioni. Come sarebbe a dire Coppa dei Campioni? Fiorentina e Juventus sono a pari punti ad una giornata dal termine e tutti sono sicuri che Platini e Boniek giocheranno in Coppa dei Campioni. Da dove i vari Cazzaniga, Cascioli e De Cesari traggano le proprie convinzioni è un mistero che verrà risolto solo alle 17 e 45 del 16 maggio 1982. Da quel giorno ho sempre digerito mal volentieri il Processo e mai avrei potuto immaginare che sarei stato uno dei protagonisti dell’ultima storica puntata biscardiana alla Rai nel giugno di undici anni dopo.
Poi c’era la storia dello spareggio, che avrebbe stravolto la preparazione della Nazionale di Bearzot in vista dei Mondiali spagnoli. Era vero, ma che cosa si poteva fare? Magari assegnare lo scudetto a tutte e due le squadre, però il regolamento non lo prevedeva. Meglio, molto meglio, che lo spareggio non ci fosse e che a vincere fosse una sola. Ma senza dimenticare che Platini doveva giocare in Coppa dei Campioni…

CAGLIARI
I tifosi viola: “coloreremo il mare di viola!â€?. Il conte Flavio Pontello all’aeroporto di Elmas: “Agnelli? Ma via, è solo un metalmeccanicoâ€?. Battute. Sogni. Bischerate in libertà. Tutto è permesso nella settimana che precede uno scudetto. Andammo in diecimila a Cagliari e non dimenticammo mai più quei giorni. Ero personalmente stravolto perché avevo avuto informazioni, poi rivelatesi sbagliate, sulla modifica da lì a pochi mesi del mio stato anagrafico e la futura eventuale mamma proprio non voleva che la lasciassi sola. Partii lo stesso con Maurizio Passanti, il mio amico di sempre. Pur avendo all’epoca un’esperienza minima del calcio, rimasi colpito dalla scelta dell’albergo viola: Hotel Mediterraneo, sulla strada principale della città. Un po’ troppo sulla strada principale per resistere all’assalto festoso dei nostri tifosi che consideravano già vinto lo scudetto. L’indirizzo naturalmente lo conoscevano benissimo anche i cagliaritani, che passarono buona parte della notte a strombazzare là sotto con le macchine e a urlare ossessivamente un “forzaccagliariâ€? che mi pare di sentire ancora adesso. La mattina della partita il popolo viola reclamò qualcuno alla finestra per un discorso della vittoria, una circostanza che evidentemente ha sempre portato sfiga, nel 1940 come nel 1982. Si affacciò Massaro e assicurò tutti che avremmo conquistato il tricolore, si intravide anche la sagoma di Galli che si stava facendo la barba, ma siccome Giovanni è sempre stato un saggio, preferì tacere. Arrivammo al Sant’Elia con un anticipo di circa due ore rispetto al fischio di inizio del “ricordato per sempre Matteiâ€?. Qui però si incorre in un falso storico, perché il vero furto del tricolore non si perpetrò nel momento in cui il “principe di Macerataâ€? annullò un gol di Graziani per fallo di confusione (un po’ come avrebbe fatto diciannove anni dopo De Santis con Cannavaro in un famoso Parma-Juve). E nemmeno è da discutere il rigore pro-Juve di Catanzaro, perché il tiro di Fanna venne effettivamente bloccato con la mano quasi sulla linea. No, il vero furto fu il mancato rigore concesso al Catanzaro sullo zero a zero, per un’evidente gomitata in area di Brio a Borghi. Evidente per tutti, ma non per l’infido Pieri, che non fischiò. Quando Brady, già sbolognato alla Sampdoria, segnò dagli undici metri, immolai al mancato scudetto la fedele radiolina con cui da anni seguivo “Tutto il calcio minuto per minutoâ€? e la frantumai in mille pezzi per la rabbia. La gara di Cagliari era stata preparata malissimo, giocata peggio e di sicuro non eravamo preparati con la testa a certe sfide, però il tricolore ce lo avevano letteralmente rubato. Nella calca dello spogliatoio le prime parole di De Sisti (come a Udine) furono per me: «Aho’, ma che me lo vuoi fa’ magna’ questo registratore?». In effetti gli ero vicino, ma non più delle altre volte, solo che questa era una volta speciale.
Nel tardo pomeriggio di una splendida giornata quasi estiva, mentre rientravo all’albergo con un magone inestinguibile, mi chiedevo quando mai ci sarebbe capitato di andare così vicino a vincere quello scudetto che per me era sempre stata solo una storia del passato. Una favola raccontata ad un bambino di otto anni, mischiata a qualche partita vista e al ricordo di una città vestita a festa nel maggio del 1969. Entrammo in un bar e “succhiammoâ€? le immagini di Catanzaro, Trapattoni e Boniperti che facevano i complimenti di rito alla Fiorentina, Bearzot contento per il mancato spareggio, mentre a noi mancavano le parole. Le trovò due giorni dopo Paolo Melani che con il suo Brivido Sportivo distribuì un adesivo destinato ad entrare nella storia di Firenze: MEGLIO SECONDI CHE LADRI.

SCOOP MONDIALE
Come sia andato il mondiale spagnolo lo sanno tutti, silenzio dei giocatori compreso. Ciò che nessuno sa è che il silenzio stampa più famoso della storia del calcio è stato infranto per ben due volte a Radio Blu da Antognoni e Graziani, miracolosamente pescati prima della semifinale con la Polonia e della finalissima contro la Germania. Entrambi accettarono di parlare in barba ai divieti e la cassetta della registrazione è sigillata nel cassetto dei ricordi più cari. Col senno di poi ho pensato che avrei potuto telefonare ad un giornale e “vendereâ€? le interviste, ma non ero nessuno e se avessi chiamato qualche redazione avrebbero pensato ad un mitomane. Se invece avessero accettato, avrei messo in grande difficoltà i due azzurri-viola. In fondo è stato meglio così, quelle interviste, adesso, restano solo una cosa mia.

Solo una piccola nota storica: il libro è stato scritto durante la stagione della C2, quindi nei mesi successivi al fallimento dell’agosto 2002.
“La mia voce in viola” viene pubblicata sul blog per gentile concessione dell’editore Luca Giannelli della Scramasax – Prossimo libro in uscita, dal 31 agosto, “Fiorentina-Juventus, la partita della vita”.

INTRODUZIONE

Il primo agosto 2002, alle tre del pomeriggio, mi chiamò al telefono mia figlia Valentina, di sette anni, per chiedermi se fosse vera la notizia della morte della Fiorentina. Alla mia risposta affermativa, cominciò a piangere disperata. Non sapevo proprio cosa dirle per consolarla, inutilmente provai a spiegarle che saremmo ripartiti con una nuova società e comunque sempre con la maglia viola.
Questo libro nasce dalla voglia di raccontare a chi c’era e a chi non c’era cosa sia stata la Fiorentina negli ultimi ventuno anni. Io ho avuto la fortuna ed il privilegio di viverla da dentro, come mai avrei immaginato di poter fare quando da bambino andavo a vederla in curva. Mi ha fatto godere e soffrire, rimanendo sempre una compagna insostituibile ed incapace di tradire. Solo uccidendola potevano cercare di portarmela via.

IL SALUTO DI ROBERTO BAGGIO

Una Porta nel Cielo e il Sogno Dopo, i due libri che compongono la mia autobiografia, hanno contribuito a farmi passare per scrittore, cosa che non sono.
Così sta capitando che in molti chiamano Vittorio Petrone per avere una mia introduzione, un racconto, una qualsiasi forma di intervento letterario.
Quando mi è arrivata tra le mani la richiesta di David non ho potuto fare a meno di ricordarmi il primo appuntamento per un’intervista che non si fece, così come molte altre chiaccherate finite poi sui giornali. Però, l’ho sempre vissuto appasionato e onesto, impregnato d’amore profondo per i viola.
David ha regalato a tutti i tifosi viola la sua passione e la sua professionalità, doti queste, non proprio comuni a tutti.
Oggi, con questo libro, ripercorre spazi di storia calcistica dove si fondono analisi tecniche e giudizi personali ma in ogni caso emerge forte e chiaro il suo appasionato trasporto. Lo stesso trasporto che in qualche occasione ha finito col causarmi qualche imbarazzo, però l’ho sempre perdonato.
Buona fortuna David

Roberto Baggio

IL SALUTO DI FRANCESCO TOLDO

Caro David,
leggendo fra le righe del tuo racconto mi passano dei flash per la testa contenenti otto anni di vita calcistica e non che ho vissuto a Firenze e … sono ricordi che inumidiscono gli occhi. Eh sì, ogni volta che penso alla Fiorentina non riesco a non commuovermi! Ricordo momenti duri come nell’estate 93, quando nel ritiro estivo di Roccaporena irruppero alcuni tifosi viola nelle camere d’albergo per discutere con i ragazzi colpevoli della retrocessione in B. Momenti duri, come la scomparsa del presidente Mario Cecchi Gori, o come la contestazione contro alcuni giocatori al termine della partita di Coppa Italia nel 94 contro il Venezia: il “colpevole Effenberg” minacciato per la B e per aver sbagliato il rigore della qualificazione. Momenti duri come la fine del campionato 96/97, quando mi presero di mira sbeffeggiandomi per alcune papere. Momenti duri come l’avvicendarsi di dirigenti con una facilità incredibile…, ho pensato ma dove c… sono finito?
In quegli anni, queste situazioni le vivevo con tanta partecipazione diretta e ho sofferto molto quando veniva toccata la mia persona. Ora invece, a distanza di anni, sorrido e penso: “Francesco, tutte esperienze che servono a crescere, sicuramente ora le affronterei con più maturità e serenità”, e giù una risata.
E voglio arrivare al meglio, e cioè alle cose positive vissute a Firenze. Momento bello quando commisi il primo errore, al Franchi contro il Pisa. Stavamo vincendo fino a quando, uscendo in tuffo basso sull’uomo lanciato a rete, finisco fuori area e lascio il pallone all’avversario, che sbigottito lo calcia in porta vuota. Quel giorno i tifosi si alzarono in piedi ad applaudirmi, facendomi capire la loro stima nei miei confronti. Da lì ho capito il calore della gente! Momento bello quando fummo promossi in A, e anche se era scontato per la città, non lo era affatto per me e per gli altri che provenivano dalla serie C! Facemmo festa da soli (quelli della C). Momenti belli furono la conquista delle due Coppe Italia (sicuramente la prima ebbe un effetto esplosivo per la gente, mentre la seconda fu condizionata dalla situazione societaria e meno entusiasmante) e della Supercoppa di Lega. Risultati così fecero star bene noi, i tifosi, e rinfrancarono tutta una città. Un momento bello fu l’arrivo della squadra all’aeroporto dopo il record di Gabriel Batistuta a Napoli: impressionante vedere la gente tanto contenta da innalzare bandierine gialle prese da tutti i campetti. Momenti belli furono quelli legati alla qualificazione in Champion’s Leaugues e ad alcune prestazioni europee (Kanu sbiancato fu). Momenti belli furono vedere sempre 35 mila tifosi assidui e costanti presenti allo stadio, e sentire i cori coloriti verso i giocatori viola. Ricordare tutto è impossibile, dovrei scrivere un libro, però momenti così li augurerei a qualsiasi giocatore di calcio del mondo, perché giocare nella Fiorentina è un’emozione particolare. La mitica Viola farà parte sempre di me, i ricordi non si cancellano, sono indelebili come gli amici che tuttora sono miei amici. Grazie Fiorentina.

Francesco Toldo

LA PREFAZIONE DI SANDRO PICCHI

L’anziana signora del piano di sotto aveva molta pazienza per i rumori causati dalla famiglia del piano di sopra, che era la famiglia Picchi. Un giorno in ascensore – l’imbarazzante banalità degli incontri in ascensore- l’anziana signora del piano di sotto mi disse qualcosa di un suo giovane nipote che “voleva fare il giornalista” e che aveva una gran passione per il calcio. Non aggiunse altro. Era una gran brava signora.
Risposi in maniera vaga, forse dissi soltanto “ah sì?”, mostrando un educato, ma temo evidente disinteresse. D’altronde, che altro potevo fare per il giovanissimo nipote dell’anziana signora se non incoraggiarlo (in definitiva, fare il giornalista è sempre meglio che lavorare) o vagamente scoraggiarlo, prospettandogli una serie di generiche difficoltà?
Temevo, tra l’altro, che prima o poi, dalla signora o dal nipote, mi venisse rivolta una fatidica domanda alla quale non ho mai saputo rispondere in maniera convincente: “come si fa a diventare giornalisti?”
La conversazione sull’argomento finì lì e non venne mai ripresa, ma anni dopo ecco che il nipote, quel nipote, era arrivato sulla breccia giornalistica.
Anzi, era in prima linea, visto e considerato che fare le radiocronache nelle condizioni spesso “estreme” in cui le faceva David Guetta (era lui il nipote di cui sopra) significava essere in prima linea. In trincea. Pronti ad esporre il petto alla palla nemica. Mi riferisco soprattutto ai primi anni, quando la radiocronaca, specialmente in trasferta, era avventura. Rischio. Contrabbando.
Qualunque cosa fosse, ci voleva fegato. Prima di tutto occorreva sfuggire agli ispettori della Lega, incaricati di proibirla, poi bisognava fare i conti con le ire del pubblico. Guetta era spesso a contatto con i tifosi avversari, se non addirittura in mezzo a loro, e quando la Fiorentina segnava un gol, prorompeva nell’ immancabile ed essenziale grido d’esultanza (incomparabbile, direbbe Biscardi) ripetendolo, senza imbarazzo, senza timore, senza freno, anche sette, otto, dieci volte. Nel silenzio – quel silenzio soltanto scalfito da una mormorante delusione che è il “sound” di ogni gol incassato dai padroni di casa– rimbombava l’altro “sound”, l’incontenibile esplosione di Guetta.
Nel contrariato pubblico delle tribune avverse lo sdegno si univa alla rabbia e per il radiocronista erano noie. Più di una volta ho riconosciuto la postazione di fortuna di Guetta dal tumulto che vi si accendeva attorno. Non si è mai trattenuto, non si è mai arreso. Eroico,ai miei prudenti occhi.
Le sue radiocronache sonoramente clandestine divennero ben presto popolarissime. A Firenze, i tifosi abbandonarono “Tutto il calcio minuto per minuto” per sintonizzarsi su Radio Blu che, la domenica, dava loro ciò che cercavano: la Fiorentina, la partita della Fiorentina, niente altro che la Fiorentina.
Gioia estrema in caso di gol viola e un sussurrato dolore quando segnavano gli altri. Quel bisbigliare accorato – qualcosa di simile alle condoglianze – finiva per essere vicino ai sentimenti della gente quanto lo era l’urlo, perché eliminava dalla radiocronaca la peggior cosa che si potesse ascoltare, cioè l’annuncio festoso di un gol segnato contro la squadra del cuore.
Quanti radiocronisti della Rai sono stati accusati di avercela con questa o quella squadra – Fiorentina compresa – per aver alzato un po’ troppo la voce nell’annunciare un gol, dando così l’impressione, a chi quel gol subiva, di aver gioito troppo? Tanti. Con Radio Blu questo rischio non si correva. Il gol incassato dai viola era appena accennato, con la dovuta, addolorata mestizia.
Il caso volle, quando Guetta era ormai diventato un divo del microfono cittadino, che si verificasse qualcosa di simile a ciò che forse la nonna di David si era augurata quel giorno in ascensore.
Guetta si era aggiudicato una borsa di studio di giornalismo e doveva fare tra l’altro anche un periodo di esperienza presso la redazione sportiva de La Nazione di cui ero il responsabile.
Un giorno, per metterlo alla prova, gli chiesi un’intervista. Unico dato a sua disposizione, nome e cognome della persona da intervistare: Miguel Indurain. Bisogna riconoscere che da Firenze, senza avere né un recapito , né un numero di telefono, né un’idea di dove fosse, in pieno inverno, il fuoriclasse del ciclismo, il compito da svolgere risultava tutt’altro che agevole, tanto più che Guetta non poteva avvalersi nei confronti di Indurain di quel rapporto di confidenza che poteva vantare con i calciatori viola. Un conto era Cois, un conto il plurivincitore del Tour.
Tempo a disposizione per portare a termine la “missione”? Due ore, quante ne aveva concesse un comandante giapponese ai suoi aviatori per decidere di diventare kamikaze. Guetta ci riuscì. Non a diventare kamikaze (forse lo era già), ma a rintracciare e a intervistare Indurain. Un episodio che testimonia la sua determinazione, la sua capacità di superare gli ostacoli.
Bravo e veloce non soltanto nelle radiocronache, ma anche come cronista, anche con la penna, come dimostra la disinvoltura di questa sua autobiografia – memorie viola e personali – alle quali non manca neppure l’autocritica. Una compagnia essenziale, nella vita.
Certo che da quanto Guetta scrive emerge un faticoso turbinare di rapporti. Scontri, riconciliazioni, minacce, riappacificazioni, litigi e abbracci. Un dietro le quinte che è la testimonianza di quanto Guetta sia stato protagonista, oltre che testimone, della vita quotidiana della Fiorentina. Protagonista. Certo. Lo è stato, in un modo così netto, così esposto da risultare una componente tradizionale delle stagioni della Fiorentina, dei campionati della Fiorentina, di tutto ciò che ruotava attorno alla Fiorentina.
Ascoltato, seguito, applaudito, anche contestato. In una parola, importante. Di un’importanza che poteva irritare qualcuno, anche qualcuno di noi, ma che Guetta aveva costruito con fatica e con slancio facendo di se stesso una professione.
Come impatto, il peso di una sua frase, il tono di una sua radiocronaca, hanno spesso superato, tra i tifosi viola, quello di molti articoli di giornale. La televisione ha fatto il resto, complicazioni comprese.
Dalla penombra che ho sempre coltivato, non invidio a Guetta quell’esposizione così evidente, ma mi rendo conto che era inevitabile, addirittura indispensabile per il suo lavoro. Né gli ho mai invidiato la frequentazione con Vittorio Cecchi Gori, con Luciano Luna, con Canale 10 .
Un giorno, quando maturava l’ipotesi di un suo passaggio o comunque di una sua collaborazione alla tv padronale, gli consigliai di starne alla larga. Erano i tempi in cui Vittorio, l’intoccabile Vittorio dietro al quale scodinzolava più o meno compatta l’intera città, era all’apice del successo.
“Meglio filippino in casa mia che direttore da Cecchi Gori”, dissi a David. Quelle cose che si dicono così, anche per il gusto della battuta. Tra l’altro il domestico, tanto meno filippino, non l’ ho mai avuto.
Ma essere da Cecchi Gori senza essere di Cecchi Gori deve essere stato un esercizio di alto equilibrismo, come dimostrano i retroscena contenuti in questa sfilata di ricordi. Minacce di licenziamento, ingerenze e, quando è cominciata la contestazione, anche gli insulti dei tifosi.
Se Guetta avesse seguito quel mio consiglio, che risale ai tempi in cui tutti, curve comprese, adoravano Cecchi Gori, forse avrebbe avuto qualche fastidio in meno, forse non avrebbe avuto bisogno, oggi, di ammettere qualche errore. Ma a questo suo lavoro che ci riconduce alla Fiorentina, ai tempi belli e brutti, ma comunque scolpiti nella memoria, della “vecchia” e drammaticamente scomparsa Fiorentina, a questo suo lavoro – e quindi a noi – sarebbero mancati certi episodi che fanno da contrappunto alla colonna sonora dei gol e delle parate, e che- più di mille discorsi – ci danno il senso di “come andavano le cose”.
Basti pensare a Luna che, nella grafica delle previsioni del tempo di Canale 10, suggerisce di mettere un po’ di ombre sulla costa maremmana perché c’è troppo vuoto.
“Mettece ‘na nuvola”. Era così che si tappavano i buchi. Mettendoce ‘na nuvola.
E a forza “de nuvole” arrivò la tempesta.

Sandro Picchi

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