La mia voce in viola


1992/93
Le notizie che arrivavano da Roma erano curiose, ma per il momento non preoccupanti. Sembrava che Vittorino volesse occuparsi sempre di più della Fiorentina, anche perché rivendicava (giustamente) il merito di aver scoperto Batistuta. Per noi che eravamo stati abituati ad avere a che fare con quattro, cinque, sei Pontello, non era poi un gran problema. Anzi, questo Vittorio Cecchi Gori non solo divertiva, ma prometteva di farci scrivere e parlare tanto. Fu di Vittorino l’idea della presentazione all’americana della squadra in piazza Santa Croce, con inevitabile bagno di folla. Vennero ingaggiati alcune star cinematografiche di conclamata fede laziale o romanista, a presentare Gianni Minà, che almeno, in quanto tifoso granata, era gemellato con noi. In mezzo alle solite banalità, venne promessa una Fiorentina brillante, che avrebbe puntato come minimo all’Europa. Molto defilato sotto il palco stava un amico di Vittorio dei tempi del liceo, Luciano Luna, un personaggio che avevo conosciuto ad aprile, di ritorno dalla sua prima missione calcistica. Era infatti stato in Germania a “valutareâ€? Effenberg, all’epoca in corsa con Stoichkov per vestire la maglia viola. «Sono solo un uomo di cinema – mi disse – e sono andato a Monaco per fare un piacere a Vittorio. State tranquilli, non mi occuperò mai di calcio». Infatti.

CHE CE NE FACCIAMO DI DUNGA?
La domanda, che presupponeva già la risposta, venne rivolta da Vittorio prima al babbo Mario e poi al tecnico Radice. Il brasiliano, annusando l’aria prima di tutti, aveva già capito che con il rampollo Cecchi Gori tra i piedi le cose sarebbero cambiate, anche e soprattutto per la sua leadership, fino a quel momento indiscussa. Per questo Dunga non perdeva occasione per lanciare frecciate al vice presidente. Oltretutto si era clamorosamente sbagliato su Batistuta e adesso si trovava in chiara difficoltà.
A Vittorino Dunga non piaceva neanche tecnicamente, innamorato com’era dei talenti geniali e discontinui alla Massimo Orlando, e così in pochi mesi riuscì a convincere il tecnico che il vecchio capitano era ormai un peso per la squadra. Effenberg, Di Mauro, Iachini, Dell’Oglio e Laudrup potevano bastare per fare una grande Fiorentina. Dunga fu umiliato, mandato ad allenarsi in Primavera, alla prima occasione spedito a Pescara e dato per finito. Nemmeno due anni dopo avrebbe alzato, da capitano del Brasile, la Coppa del Mondo.

TUTTI A CANALE DIECI
Nell’estate una buona notizia aveva scombussolato le vacanze di quella pattuglia di disperati ormai non più giovanissimi che si muoveva nel torbido mondo dell’emittenza privata locale: i Cecchi Gori avevano comprato, strapagandola, Canale Dieci e volevano costruire una super televisione. Come ai tempi dello sbarco fiorentino di Repubblica cominciò una corsa ad entrare che lasciò sul campo diverse vittime. Ero molto meno motivato di quattro anni prima, ma decisi lo stesso di partecipare alla gara. Stavolta partivo avvantaggiato dal fatto che Mario ascoltasse le mie radiocronache ed in teoria non avrebbero dovuto esserci dei Sandrelli di mezzo. Su suggerimento di Ugo Poggi, che avevo conosciuto ai tempi della Rondinella, presi appuntamento in sede con un signore sconosciuto, tal Paolo Cardini. In dieci minuti Cardini mi liquidò, mostrandomi le domande di impiego o collaborazione arrivate fino a quel giorno: voleva che capissi quanto sarebbe stato difficile aiutarmi. C’erano tutti, ma proprio tutti i volti televisivi e le voci radiofoniche regionali che chiedevano di tentare la nuova avventura. Ed è per questo che qualche anno dopo mi veniva da ridere, o da piangere, sentendo le stesse persone rivendicare rabbiosamente la «nostra autonomia professionale, perché questa è una televisione libera», lasciando malignamente capire quanto invece Canale Dieci fosse legata a certe logiche padronali. Certo, come no, peccato solo non poterle mostrare adesso certe raccomandazioni e certe richieste.
Canale Dieci comunque non partì per tutta la stagione e le cose cominciarono a smuoversi solo nell’agosto 1993. Fu allora che il braccio destro di Luna, Paolo Fanetti, fece il mio nome all’imperatore (così era chiamato Lucianone nostro da chi gli lavorava accanto) per le telecronache.

ALL’ATTACCO, ALL’ATTACCO
Radice capì alla svelta che bisognava rispondere non ad uno, ma a due presidenti e che il secondo, Vittorino, avendo la fissa degli attaccanti, era molto più pericoloso del primo. Per questo non forzò troppo la preparazione e schierò subito una formazione votata all’offensiva, con dentro tutti insieme Batistuta, Baiano, Orlando, Effenberg e Laudrup. Un azzardo già tentato con successo da De Sisti nove anni prima, ma con una squadra nettamente più forte. Ecco, se allo splendido impianto della stagione 83/84 fosse stato aggiunto Batistuta, quasi sicuramente quella Fiorentina avrebbe vinto lo scudetto, ma qui siamo, me ne rendo conto, al fantacalcio. Più concretamente, la squadra di Radice passava da vittorie eclatanti (sette a uno contro l’Ancona) a sconfitte clamorose (tre a sette contro il Milan), l’importante era non esaltarsi o deprimersi troppo. Su una cosa però il tecnico era intransigente: non voleva intromissioni dirigenziali nello spogliatoio e sulla formazione. Figuriamoci con uno come Vittorio, che poteva vantare addirittura un passato calcistico nelle giovanili della Lazio. Non ci volle molto a far salire la tensione tra i due.

MILANO
Per l’ultimo periodo della mia borsa di studio avevo chiesto ed ottenuto di andare a Panorama a Milano, che ho sempre preferito a Roma come città. L’inizio dell’avventura a Segrate fu quasi choccante, perché a Firenze conoscevo quasi tutti i giornalisti e quindi sia a La Nazione che all’Ansa non avevo avuto problemi di ambientamento. A Panorama invece mi misero nella redazione di economia, dove per almeno una settimana non parlai con nessuno, limitandomi ai saluti formali la mattina e la sera. Siccome mi annoiavo a morte, e non potevo certo stare a leggere tutto il giorno, iniziai a contattare via telefono i clienti fiorentini per la pubblicità alla radio e questo incuriosì i compagni di stanza, che cominciarono ad interessarsi alle mie attività collaterali. La situazione si sbloccò definitivamente quando scoprirono che mi ricordavo a memoria gli scudetti e le formazioni di molte squadre, a partire dal 1966. Cominciai a scrivere di economia e di costume, scoprendo finalmente come mai a Panorama siano così documentati su tutto. Il segreto è l’archivio della Mondadori, semplicemente formidabile: tu chiedi qualcosa e dal sottosuolo ti arrivano le notizie più disparate sull’argomento, che si tratti di tiro con l’arco o delle adozioni a distanza.
Ogni venerdì pomeriggio partivo di volata per arrivare in tempo a condurre il Pentasport radiotelevisivo in un crescendo di stress e di stanchezza. Alla fine dei quattro mesi mi chiesero se volevo rimanere come collaboratore di Panorama a Milano, ma avrei dovuto mollare tutto e vivere come quei trentenni che vagavano nell’open space di Segrate, sperando ogni settimana di piazzare il proprio pezzo. Meglio, molto meglio Firenze, per un provinciale come me.

IL DANNO
Il 3 gennaio 1993 la Fiorentina aveva perso in casa forse immeritatamente contro l’Atalanta e stavamo un po’ stancamente aspettando nel dopo partita che si presentasse Radice per spiegare l’inaspettata sconfitta. Dopo una quarantina di minuti qualcuno cominciò ad insospettirsi ed il resto della storia la conoscono tutti, compreso il furioso tentativo di Vittorino di entrare nello spogliatoio per un tentativo di processo sommario, il successivo licenziamento di Radice e le minacce di “farci fare la fine del Bolognaâ€?. Magari ci fossimo fermati lì… Mario Cecchi Gori aveva ascoltato la partita a casa grazie al solito collegamento con Radio Blu e quindi rimaneva solo lo sciagurato figlio a presidiare il campo.
Andammo tutti al Savoy in una serata tragicomica, che si concluse alle una di notte. Vittorio cercava il conforto dei giornalisti per le sue tesi quanto meno originali: «non capisce nulla, Radice non capisce nulla. La cosa migliore sarebbe prendere Chiarugi dalla Primavera e mandarlo in panchina: con i miei consigli tecnici possiamo ancora lottare per lo scudetto, con Radice invece non si va nemmeno in Uefa. Anzi, forse è meglio se l’allenatore lo faccio direttamente io, ma non lo posso fare per i regolamenti… Vabbeh, ci mandiamo Chiarugi e poi gli suggerisco io la formazione».
Non so gli altri, ma io tacqui colpevolmente di fronte a queste farneticazioni. Un po’ perché pensavo che fosse lo sfogo delirante del momento ed un po’ perché, con il fatto che la radiocronaca era trasmessa di straforo, mi conveniva non contraddirlo troppo. Rimasi così in silenzio e d’altra parte, anche se avessi replicato, sarebbe forse servito a qualcosa? Penso proprio di no, e comunque un tecnico vero alla fine lo presero lo stesso. Stavolta, senza che nessuno mi avesse chiesto niente, tornava a Firenze Aldo Agroppi. In pratica un opinionista di Radio Blu era diventato allenatore della Fiorentina: se me lo avessero raccontato qualche anno prima, non ci avrei mai creduto.

CONFUSIONE
Mi ero innamorato, e fin qui niente di male, se non fosse che ero già sposato da più di due anni con colei che avevo sempre considerato l’unica vera donna della mia vita. Andai così via di casa e mi ritrovai in un seminterrato molto pittoresco a due passi da Ponte Vecchio. Vivevo senza più punti fermi, in un caos totale, non molto dissimile a quello in cui era precipitata la Fiorentina. Casasco con i suoi non incantava più nessuno, Agroppi aveva perso il piglio decisionista della sua prima stagione in viola, Mario Cecchi Gori stava sempre peggio di salute. Rimaneva solo Vittorio, che parlava, parlava, parlava. La squadra cominciò a pagare atleticamente una preparazione leggera, qualcuno come Orlando entrò in depressione, altri come Laudrup e soprattutto Effenberg se ne fregavano di tutto e di tutti. In campo e fuori.
Pare che il tedesco prendesse ordini solo dalla moglie Martina e che per rifarsi delle angherie subite in famiglia fosse molto sensibile al fascino delle donne italiane. Come per esempio a Bergamo dove, si dice, prima della decisiva gara contro l’Atalanta, Effenberg realizzò nella notte una splendida doppietta con le compiacenti cameriere dell’albergo del ritiro viola. Poi in campo sbagliò un gol già fatto ed io esplosi con una frase che ancora oggi tanti tifosi ricordano: «me lo mangerei questo tedesco». Le ultime notizie dalla Germania davano Effenberg in fuga d’amore con la moglie di Strunz, un cognome che doveva ricordargli qualcosa della sua breve esperienza italiana.

SENZA INFAMIA E SENZA LODE
Gigi Radice non era più quello di diciotto anni prima, cioè l’uomo tutta energia capace di costruire una bellissima squadra nella stagione 1973/74. Non era però il solo ad essere cambiato dai tempi della sua prima esperienza fiorentina, basta pensare all’intero ambiente del calcio, sempre più preso d’assalto da radio e televisioni. E Radice, al contrario del suo amico Trapattoni, non si poteva certo definire un grande comunicatore. Appena seduto sulla panchina viola, il tecnico brianzolo fu abbastanza saggio da capire che non occorrevano rivoluzioni, ma solo maggiore disciplina dentro e fuori dal campo. Rifece in pratica la preparazione e mantenne la Fiorentina sempre qualche punto sopra la zona retrocessione. La difesa era appena passabile, con le amnesie di Malusci, la grinta di Faccenda ed il rendimento costante di Pioli. Carobbi non valeva l’ultimo Di Chiara, che nel frattempo aveva conquistato la Nazionale. A centrocampo Maiellaro deluse anche i suoi più accaniti estimatori e finì addirittura in panchina, mentre Orlando venne paragonato un po’ troppo presto a Baggio. Iachini e soprattutto Dunga rimanevano l’anima di una squadra che se non avesse trovato Batistuta avrebbe faticato non poco a salvarsi. In attacco Borgonovo era ormai solo la controfigura dell’ottimo attaccante che tre anni prima duettava con Baggio, e del Branca fiorentino si ricordano solo le approfondite letture de “Il Sole 24 oreâ€? e i consigli di borsa dispensati ai compagni. Le sue azioni migliori furono quelle comprate in Piazza Affari e così fu sbolognato in tutta fretta all’Udinese.

NASCE L’AMORE
Gigi Radice può comunque vantare un record destinato a durare per chissà quanto tempo: è l’unico allenatore viola che in tre partite a Firenze ha battuto per tre volte la Juventus e sempre per due a zero. Ed il successo del 26 gennaio 1992 coincise anche con il primo “congiungimentoâ€? quasi carnale tra Batistuta e la Fiesole. Al settimo del primo tempo, Bati si infilò alla grande su un cross senza troppe pretese di Carobbi e colpì di testa, lasciando di sasso Tacconi. Quello, credo, fu davvero l’inizio di tutto, perché una rete alla Juve non si dimentica mai, tanto che qualcuno si ricorda ancora oggi di un gol di Tendi ai bianconeri… Poi Gabriel segnò cinque reti nelle successive gare in trasferta e cominciò a volare sempre più in alto, senza fermarsi più.

BOMBER BARTOLELLI
Mario Bartolelli, ipotetico bomber della primavera viola, in fondo è servito a qualcosa. Tutti noi calciatori falliti nel vederlo in allenamento ed in partita abbiamo infatti pensato che se c’era lui nella Fiorentina, un giorno o l’altro sarebbe toccato pure a noi giocare in serie A. Certo una differenza sostanziale esisteva, perché noi, comuni mortali, un babbo potentissimo, dirigente del gruppo Cecchi Gori, non ce lo avevamo. In verità, non è che il povero Bartolelli abbia combinato chissà quali disastri, ma solo perché in prima squadra ha giocato per fortuna appena quattro minuti. In compenso, nella Primavera viola di Mimmo Caso, che nel febbraio 1992 vinse nonostante lui il torneo di Viareggio, Bartolelli era un titolare inamovibile. Quelli veri come Banchelli e Beltrammi si alternavano in panchina, salvo entrare quando la faccenda diventava imbarazzante. E nell’anno della retrocessione chi c’era nelle ultime partite come riserva di Batistuta e Baiano? Ma l’ormai sempre meno giovane Bartolelli, e chi altrimenti? Mentre Casasco bisbigliava ai cronisti che «quel ragazzo era utilizzato troppo poco. Ditelo e scrivetelo, perbacco». Ah, se gli avessimo dato più fiducia!

VITTORINO, VITTORINO
Avevo intanto cominciato a conoscere Vittorio Cecchi Gori. A quei tempi se lo filavano davvero in pochi perché il personaggio numero uno era Mario, carismatico e “fiorentinoâ€? nell’anima. Al secondo posto veniva la signora Valeria, e se proprio si voleva scendere di generazione, era meglio soffermarsi sulla signora Rita Rusic, bellissima. A Firenze mi ero inventato una postazione volante all’ingresso della tribuna d’onore, dove Vittorio arrivava ad un quarto d’ora dal fischio di inizio. Sentendolo parlare in romanesco, la prima volta che lo intervistai gli chiesi ingenuamente se «un giorno o l’altro la Fiorentina sarebbe diventata una passione, come lo è da cinquanta anni per i suoi genitori». Mi incenerì con lo sguardo e mi disse che lui era nato a Firenze, che stravedeva da sempre per i viola e poi tutte quelle cose che avrei sentito ripetere tristemente dieci anni più tardi. Essendo l’unico o quasi che lo avvicinava, cominciò con me ad alzare il tiro delle sue dichiarazioni. Un giorno dette quattro in pagella ai giornalisti di Repubblica, un altro se la prese con chi gli voleva portare via Orlando, che lui considerava come una specie di figlio putativo. Insomma, con Vittorio non ci si annoiava mai. Se mi avessero detto che ci avrebbe rovinato, non ci avrei creduto perché mi sembrava, quello sì, un po’ sopra le righe, ma assolutamente incapace di fare del male. Mi consolo pensando che tanti altri come me hanno sbagliato giudizio.

1991/92

Gabriel Batistuta venne presentato in una serata di agosto in modo perfino esagerato, visto che prima della Coppa America era poco più che uno sconosciuto. La cosa non piacque a Dunga e soprattutto agli altri due attaccanti, Branca e Borgonovo, che si sentivano già messi in secondo piano. Ai primi allenamenti in molti scossero la testa ed effettivamente le prime uscite dell’argentino furono deludenti: Batistuta non sembrava adatto al campionato italiano perché troppo grezzo tecnicamente. Qualche giornalista fiorentino tirò fuori la definizione di “Dertycia con i capelliâ€?, che era una specie di condanna senza appello. Dopo la sua prima esibizione a San Siro, Franco Rossi sul Giorno parlò addirittura di “bidone del secoloâ€?, mentre Lazaroni lo faceva giocare solo per le pressioni societarie, ma non era affatto convinto del suo valore. Tutto questo per dire che Batistuta si è conquistato da solo il successo e che nessuno gli ha mai regalato niente. Il suo grande segreto è stato migliorarsi giorno dopo giorno, non fermandosi mai. E quando dopo poche domeniche cominciò a segnare a raffica, anche chi non lo amava nello spogliatoio capì che doveva fare i conti con lui. Bati non ha mai cercato rivincite personali, ricordandosi però sempre di chi gli è stato accanto in quei difficili giorni dell’autunno 1991: Beppe Iachini, Gian Matteo Mareggini e Massimo Orlando.

IO E BATI
L’ultima volta che ci siamo visti è stata quando la Roma giocò a Firenze, nel febbraio 2002. Stavamo quasi per andare a sbattere l’uno contro l’altro ed era quindi impossibile ignorarci, così abbiamo alzato tutti e due lievemente la testa in un sofferto cenno di saluto. Questa “guerraâ€? con colui che considero il miglior giocatore della storia della Fiorentina, almeno da quando vado allo stadio, è uno di quei passaggi spiacevoli e perfino dolorosi della mia piccola storia professionale.
Eppure l’inizio era stato splendido. Nel febbraio 1992 venni incaricato di andarlo a prendere all’allenamento per accompagnarlo a La Nazione, dove avrebbe condotto un filo diretto con i tifosi. In macchina parlammo di tutto, stabilendo una confidenza che è andata poi rafforzandosi nei suoi primi anni fiorentini. Ricordo le sue partecipazioni al Ring dei Tifosi, quando organizzavamo la trasmissione registrata apposta per lui, oppure il regalo della cassetta audio con dentro i miei urli per i suoi gol e tanti altri piccoli episodi. La frattura tra noi ha una precisa collocazione temporale: metà luglio 1997.
Batistuta non voleva rimanere alla Fiorentina, perché altre squadre gli avevano promesso almeno il doppio di ingaggio e così si barricò in un albergo a Roma, in preda ad una vera e propria crisi di nervi: o gli davano più quattrini o considerava chiusa la sua esperienza in viola. Con la radio realizzammo una diretta fiume dall’hotel dove i Batistuta (c’era anche il padre) ricevevano i dirigenti in un crescendo quasi insostenibile di tensione. Ad un certo punto prese la parola Rinaldo e disse quello che tutti pensavano: «ma che crisi nervosa! Questo qui vuole solo più soldi e non gliene frega niente se ha un contratto già firmato, così come non gliene frega niente della Fiorentina». Apriti cielo! Tutti sentirono quell’intervento, anche e soprattutto gli amici di Batistuta. Alla prima uscita stagionale della Fiorentina di Malesani, io ero in campo per realizzare le interviste di Telemontecarlo e quando mi avvicinai a Gabriel, lui rispose che con me non avrebbe parlato a causa delle dichiarazioni di Rinaldo, che però, a quanto ne sapevo, non era ancora diventato il proprietario di Tmc.
Nell’estate successiva, il tormentone del rifiuto di tornare a Firenze si ripeté ed io moraleggiai un po’ sulla storia dei contratti da onorare e sul fatto che i soldi non sono tutto nella vita. Avevo ragione nella sostanza, ma ancora non sapevo cosa mi sarebbe capitato quaranta mesi dopo, con certa gente che pensava ai quattrini quanto e più di Batistuta, valendo però un decimo del campione argentino. Le cose stavano precipitando e così una sera di ottobre, esasperato da questa polemica, mi misi a sedere accanto a Bati nel viaggio aereo di ritorno da Lecce a Firenze. Parlammo per un’ora, tra la curiosità generale dei suoi compagni e degli altri giornalisti, arrivando ad un compromesso: se Rinaldo avesse chiesto scusa per aver tacciato Batistuta di venalità, i nostri rapporti sarebbero tornati normali. Il che, tradotto nella quotidianità, avrebbe voluto dire che smetteva di chiedere ai giornalisti della mia radio e della mia televisione di passare le sue interviste solo se io non fossi stato presente alla trasmissione. Si poteva addirittura ipotizzare che potessi ospitarlo in qualche programma e che i compagni di squadra del suo giro, chissà, forse avrebbero ricominciato a salutarmi anche quando lui era nei paraggi. Bati voleva inoltre che l’intervento “riparatoreâ€? avvenisse in un momento di grande ascolto. Non fu facile convincere Rinaldo a chiedere scusa, ma poi accettò, per il bene della radio e, credo, soprattutto per affetto nei miei confronti. Il “mea culpaâ€? andò in onda in un dopo partita, mentre eravamo collegati da Ginevra per seguire la sentenza relativa alla bomba carta di Salerno. Registrammo l’intervento e la cassetta fu portata dall’incolpevole Ceccarini al cospetto del divino capitano. «Questa me la metto sulle pa…», rispose Batistuta, decretando di fatto la fine dei nostri rapporti.
Nelle sue ultime stagioni fiorentine ci sono stati momenti perfino comici, tipo quando Bati aspettava in macchina fuori dagli studi di Canale Dieci la moglie Irina. Lei stava imparando a fare televisione e lui non voleva in nessun modo entrare negli studi, cioè nel territorio del “nemicoâ€?. Oppure quando depennò personalmente il mio nome dalla lista degli invitati alla festa del suo viola club, tra l’imbarazzo dei suoi “sottopostiâ€?, che proprio a me si erano rivolti per pubblicizzare al massimo la manifestazione. Certo non sono stato troppo furbo a rimarcare tutte le volte che qualcosa di Batistuta non mi piaceva negli atteggiamenti che teneva fuori dal campo, ma non ho mai smesso di esaltare in radiocronaca le sue incredibili qualità calcistiche. Quando nel maggio del 2000 seimila tifosi invasero il Palazzetto dello Sport per dire no alla sua cessione, un ragazzo fece il mio nome al microfono come simbolo dei nemici di Bati. Ero in studio a condurre la diretta e sentii una fischiata generale nei miei confronti che mi gelò il sangue. Ma avevano ragione loro, perché anch’io, da tifoso, tra Batistuta e Guetta non avrei avuto dubbi su come schierarmi: uno era il campione più straordinario degli ultimi trent’anni e l’altro solo un cronista che raccontava da quasi quattro lustri le partite dei viola. In questi casi non conta chi ha ragione, ma chi ha regalato emozioni.
Prima o poi anche l’immenso Batistuta appenderà le scarpette al chiodo e quel giorno, se sarà possibile e se lo vorrà, mi piacerebbe passarci insieme un’altra ora, come quel viaggio fianco a fianco da Lecce a Firenze, solo che stavolta dovrà essere davvero il punto di partenza per un nuovo rapporto.

CONSIGLIERE INASCOLTATO
A fine settembre la Fiorentina venne sconfitta in casa dalla Roma e i Cecchi Gori decisero di averne abbastanza di Lazaroni. Cominciò così un rifrullo di telefonate fra Roma e Firenze per tastare il polso ai giornalisti che contavano di più. Per la prima volta inserirono anche me nell’illustre lista, un po’ perché Mario continuava a seguire le mie radiocronache e un po’ perché il plenipotenziario del settore cinema, Sergio Bartolelli, aveva il figlio che giocava nella Primavera viola e voleva avere buoni rapporti con tutti quelli che conosceva. E fu proprio Bartolelli a chiamarmi il pomeriggio dell’esonero del tecnico brasiliano. «Siamo incerti tra Radice ed Agroppi, lei Guetta cosa ci consiglia?».
Agroppi lo avevo “scopertoâ€? radiofonicamente nel 1988, e da quell’anno tutti i lunedì commentava per noi il campionato. Nonostante il crescente successo televisivo alla Rai, aveva continuato a titolo totalmente gratuito una collaborazione di cui andavamo fieri. Risposi senza esitazioni: «Agroppi è la scelta giusta, prendetelo e non ve ne pentirete. A Firenze lo ricordano tutti volentieri». Avrei voluto aggiungere «tutti meno Antognoni», ma lasciai perdere. Ovviamente scelsero Radice, pare su consiglio del giornalista Lino Cascioli, ma appena quindici mesi dopo Agroppi arrivò lo stesso.

UE UE UE
Era l’intercalare di Maurizio Casasco, il nuovo direttore sportivo viola. Paracadutato nel dorato mondo calcistico dall’ex ministro Prandini, Casasco era l’uomo che (a parole) aveva una soluzione per tutto. Con i giornalisti applicava una regola vecchia come il cucco, dando ad ognuno di noi la sensazione di essere il depositario dei segreti viola. Certo non si può dire che fosse proprio un portafortuna per le squadre a cui dispensava i suoi illuminanti consigli: quattro squadre negli anni novanta e quattro retrocessioni, tra cui purtroppo quella della Fiorentina. Era comunque un tipo coraggioso. In quella stagione i viola incapparono in una serie di tre sconfitte consecutive, l’ultima delle quali davvero pesante, per quattro a zero a Cagliari. Il martedì dopo ai campini c’era aria di contestazione e così il prode Casasco immolò faccia e camicia alla causa viola. Incurante degli inviti alla prudenza, marciò con passo sicuro verso i tifosi, quando fu centrato in pieno da due uova marce provenienti dagli spalti. Un po’ schifato, si ripulì gli occhiali e tornò grondante di tuorlo negli spogliatoi: «ue, ue, ue – disse sconsolato – con certa gente non si può proprio parlare».

GIORNALISTA MAI
La prima volta che ho pensato di voler diventare giornalista è stato a dieci anni e non ho mai capito bene il perché. Non c’è mai stato nessuno in famiglia che lo sia stato, a casa il giornale lo portava mio nonno la sera ed insomma non c’era tutta questa grande passione per la carta stampata. All’interno della comunità ebraica, che ho frequentato fino ai quattordici anni, per questa mia passione mi guardavano come se fossi un alieno, permettendomi comunque di fare e disfare tre giornalini di cui ero sempre il direttore: quando si dice la modestia… Finita la terza media riuscii a incontrare un paio di giornalisti de La Nazione per chiedere consigli, con la (mia) segreta speranza che mi avrebbero fatto scrivere qualcosa. La risposta fu identica e sconfortante: «te lo sconsiglio, è un mestiere in decadenza, vedrai che nel futuro non ci sarà più bisogno di giornalisti. Bisogna sacrificarsi molto ed avere delle conoscenze». Grazie dell’aiuto, grazie davvero. Era il 1974 e le stesse cose me le sono sentite ripetere per almeno vent’anni, fino a quando non è toccato a me dare consigli a chi voleva cominciare. E siccome mi ricordavo della fitta al cuore provocata da quelle parole, ho sempre cercato di spiegare a modo mio in cosa consistesse questo mestiere un po’ da puttane, invitando chi avevo davanti a proseguire se davvero ne aveva voglia.
La verità è che io giornalista nel senso pieno del termine non lo sono mai diventato. Nessuno mi ha mai assunto e così mi sono inventato imprenditore di me stesso, vendendo pubblicità, sempre con un senso di provvisorietà che mi angoscia da una vita, ma che forse è anche la mia vera forza. Non ho mai dato nulla per scontato e so che ogni anno bisogna ripartire da zero, in tutti i sensi. Però ho avuto anch’io la grande occasione e per almeno un paio di anni ho creduto che sarei diventato un giornalista “come tutti gli altriâ€?. Nel 1987 la Federazione Italiana Editori Giornali e l’Associazione Nazionale della Stampa avevano indetto una borsa di studio per permettere “l’accesso alla professioneâ€? a 35 giovani particolarmente meritevoli. L’assunzione al termine dell’anno di prova era quasi certa, visto che erano gli editori stessi a promuovere l’iniziativa. Mandai il curriculum e non seppi nulla fino al settembre del 1990, quando mi comunicarono che ero entrato fra i tremila idonei a sostenere le prove. Mi presentai a Roma e mi andò bene perché arrivai trentaquattresimo. Quando nel marzo del 1991 mi dissero che ero dentro la lista magica, provai un senso di indicibile euforia e vidi dischiudersi tutte le porte del Paradiso. Per cominciare la borsa di studio ci volle ancora un anno e così, ormai quasi trentaduenne, iniziai entusiasta l’avventura. Lavorai a La Nazione, all’Ansa e a Panorama, mi presi grandi soddisfazioni, vivendo per dodici mesi quella professione che era sempre stata il mio sogno. Alla fine però non arrivò niente, se non vaghe promesse di contratti a termine lontano da Firenze ed è stato a quel punto che ho finalmente smesso di pensare di voler fare il giornalista da grande. In compenso, a causa di quelle frequentazioni nelle redazioni, ho vissuto un doloroso divorzio e cominciato un’altra vita: qualcosa effettivamente è cambiato…

PRONTO MARIO
Ora che aveva comprato la Fiorentina, Mario Cecchi Gori poteva “finalmenteâ€? ascoltare le mie radiocronache dalla sua casa di Roma. La prima volta fu a Bergamo, quando perdemmo nel finale e lui fu comunque disponibile a commentare la partita. Gli piaceva il mio modo di trasmettere ed io trovavo incredibile che allo 06/3232… rispondesse immediatamente lui, senza il filtro di almeno una mezza dozzina di segretari particolari. E se non era Mario, toccava alla signora Valeria fissare le modalità di collegamento per quelle partite in trasferta che loro non potevano seguire. Una volta a Genova contro la Sampdoria raccontai ai cerberi che mi davano la caccia in tribuna stampa che stavo trasmettendo solo ad uso e consumo di Mario Cecchi Gori e siccome non erano affatto convinti glielo passai tramite radio. Il presidente si arrabbiò di brutto perché gli scagnozzi di Mantovani gli stavano facendo perdere parte della cronaca, il tutto in rigorosa diretta, e potei continuare a trasmettere. Col passare del tempo mi passò il timore reverenziale delle prime partite, anche se il passaggio decisivo avvenne solo un anno più tardi, a causa di un imbarazzante scambio di persone. Quando ero borsista a La Nazione, Angelo Giorgetti mi prendeva spesso in giro con questa storia delle telefonate di Cecchi Gori e così mi chiamava spesso facendomi degli scherzi. Un sabato sera suonò il cellulare: «David, sono Mario Cecchi Gori, domani non vengo a Firenze a vedere la partita, mi puoi far chiamare dalla radio?»
«Sì, va bene Agio, ma il sabato sera non potresti pensare a trom… invece che venire a rompere i cog… a me?»
«Ma veramente…»
«Dai, lo so che sei te, figurati se ci casco. Ti immagini se Mario Cecchi Gori, con tutte le cose che ha da fare il sabato sera e le attrici che si ripassa, chiama me»
«David, ma sono io, te lo assicuro, sono il presidente»
Era davvero Mario Cecchi Gori e precipitai velocemente in un turbinio di scuse e di “io credevo che fosse un mio amico giornalistaâ€?, “sa, scherzano sempre su questa cosa…â€?.

SCOOP CON BAGGIO
Ero riuscito ad avere il numero di telefono torinese di Baggio, che stava passando un periodo difficile, e due settimane prima del suo ritorno a Firenze da avversario provai a chiamarlo per registrare un’intervista. Erano le dieci di sera e lo trovai voglioso di parlare. Venne fuori ciò che i tifosi viola già immaginavano: quella maglia della Juve che Baggio aveva lanciato ai suoi nuovi tifosi dopo una gara di Coppe era un gesto chiesto ed imposto dalla società e non certo un moto dell’anima. Baggio, insomma, non si sentiva affatto juventino e raccontava con parole accorate della sua nostalgia per Firenze. Capii di avere in mano del materiale scottante ed il giorno dopo chiamai un paio di redazioni per sapere se volevano avere uno stralcio della chiacchierata. Ricevetti risposte evasive ed un po’ supponenti fino a quando non fui “intercettatoâ€? da Benedetto Ferrara di Repubblica, che mi convinse a dargli l’esclusiva dell’anticipazione, in cambio della citazione del mio nome nel pezzo, che sarebbe andato nell’edizione nazionale del giornale, e di Radio Blu, che sarebbe apparsa sotto il titolo.
Il giorno dopo scoppiò il finimondo. Venni cercato da tutti i giornalisti fiorentini per avere tutta l’intervista, gli unici che non chiamarono furono quelli che avevano sottovalutato la mia proposta e che adesso erano arrabbiati con me, non ho mai capito bene il perché. Da Torino Tuttosport e La Stampa scrissero addirittura che l’intervista era stata inventata e alla radio arrivò la telefonata di Caliendo, il procuratore di Baggio: un dialogo illuminante che venne opportunamente registrato da Rinaldo.
«Lei è il signor Rinaldo Pieroni, proprietario della radio?»
«Sì, signor Caliendo, mi dica»
«Sa, c’è questa storia dell’intervista di Baggio che sta provocando dei problemi a Roberto. Le consiglierei vivamente di non mandarla in onda»
«Mi pare che Baggio sapesse benissimo di parlare con Guetta in un’intervista che sarebbe stata registrata. Non vedo dove sia il problema»
«Il problema è che se voi mandate quell’intervista, io vi faccio chiudere la radio»
«Benissimo, signor Caliendo, grazie della telefonata».
L’intervista andò in onda nell’intervallo della radiocronaca di Lecce-Fiorentina, la settimana prima della gara con la Juve, nel momento di massimo ascolto e Radio Blu per fortuna non venne chiusa. E Robertino? Il più grande di tutti. Quando lo rividi a Torino nel settembre successivo ero un po’ imbarazzato perché sapevo bene quante rotture di scatole aveva avuto dalla Juve per “colpaâ€? del mio scoop.
«Sei arrabbiato?», gli chiesi
«Ma vaia, bischero, vieni qua», e ci abbracciammo.

6 APRILE 1991
Che giornata! Fu in quel pomeriggio che la curva Fiesole disegnò la più bella coreografia mai vista in uno stadio di calcio, con Firenze stilizzata in viola sul fondo bianco. Arrivava la Juve e per la prima volta c’era Baggio da avversario. La storia la sanno tutti: il gol di Fuser, il rifiuto di tirare il rigore, la parata di Mareggini, la vittoria finale. Quel sabato dimenticammo tutte le miserie di una stagione davvero avara di soddisfazioni e conquistammo qualcosa che andava al di là dei due punti. Uscendo dal campo prima del tempo per una sostituzione, Robertino raccolse una sciarpa viola e se la mise al collo: la Juve si era comprata il campione, ma l’anima era rimasta qui.

L’AFFARE ROGGI
Per un po’ nella nuova Fiorentina regnò il caos più completo. Talune scelte vennero fatte seguendo consigli di amici e di amici degli amici. Basta pensare a chi venne affidato l’ufficio stampa… Ad un certo punto, finalmente, sembrò chiaro che ci volesse uno dentro il mondo del calcio e così fu scelto Moreno Roggi. Aveva un ottimo passato da calciatore, troppo breve per colpa di una distorsione al ginocchio mal curata che lo costrinse ad interrompere l’attività quando già era in Nazionale. Innamorato da sempre della Fiorentina, Roggi aveva dimostrato di possedere un’intelligenza al di sopra della media e rimboccatosi le maniche svolgeva da anni con successo il lavoro di procuratore. Guadagnava più di quanto avrebbe preso in viola, ma accettò entusiasta il nuovo incarico. L’inizio non fu però dei migliori. Lasciò che Di Chiara si svincolasse a costo zero e passasse al Parma, mentre a Firenze tornava Carobbi, suo ex assistito; scambiò Buso con Branca della Sampdoria, acquistò Maiellaro dal Bari, pagandolo un po’ troppo. Si diceva che da Los Angeles Vittorio Cecchi Gori, l’unico figlio (per fortuna!) di Mario e Valeria, non fosse affatto contento dell’operato del direttore sportivo e soffiasse sul fuoco. Il punto di non ritorno fu l’acquisto dal Napoli di Marco Baroni. All’ex difensore delle giovanili viola era stato dato un valore in verità eccessivo: dieci miliardi di lire, tutte in contanti. A quel punto Mario Cecchi Gori sbottò e in un’intervista a Radio Blu parlò apertamente di imbroglio, accusando neanche troppo velatamente Roggi di disonestà. Antognoni, dirigente della Fiorentina e amico da sempre di Moreno, non sapeva più che pesci prendere, l’ambiente viola, era tanto per cambiare spaccato in due fazioni. Roggi si dimise, entrò in una fase di depressione ed un paio di mesi più tardi, con un gesto di gran classe invitò alcuni giornalisti nella sua casa all’Ugolino, anche quelli che si erano schierati contro di lui. Come ringraziamento del lavoro svolto in quei mesi insieme, regalò a tutti i presenti un orologio Swatch, che nessuno rifiutò. Personalmente non ho mai pensato che Roggi avesse voluto fare la “crestaâ€? su Baroni perché se voleva rubare ci sarebbero stati tanti modi meno appariscenti per spillare quattrini a Cecchi Gori. Ero semmai perplesso per le operazioni di mercato da lui condotte e ancora oggi, quando capita di parlarne insieme, non riesce a convincermi che fosse davvero meglio dare via Di Chiara per riprendere Carobbi.

PRIGIONIERI DI DUNGA
La Fiorentina finì il campionato al dodicesimo posto, con l’unico acuto della vittoria casalinga contro la Juve. Il giovane Malusci, esploso nell’ultima fase della precedente stagione, stava pagando un’inevitabile crisi di crescita ed il bilancio di Lazaroni era desolante. Al suo attivo poteva vantare solo l’invenzione tattica di Di Chiara terzino e la completa fiducia concessa al diciannovenne Massimo Orlando, ma il resto era da dimenticare. Mario Cecchi Gori avrebbe voluto mandare via Lazaroni subito, a fine campionato, ma c’era, insormontabile, il problema Dunga. Il capitano, ancora una volta tra i migliori, aveva detto più volte che Lazaroni doveva rimanere. E così fu, fra il malumore generale. Si tentò invano di trattenere Fuser, arrivato in prestito dal Milan, e per sostituirlo arrivò da Lecce per una cifra davvero ingiustificata il timido Mazinho, che fece un grande pre-campionato, per poi sparire nell’anonimato. Intanto si aspettava dall’Argentina il fantasista Diego La Torre, che era già stato acquistato e di cui si parlava un gran bene. Il rampollo di casa Cecchi Gori aveva nel frattempo deciso di occuparsi sempre più da vicino delle vicende viola e fu per questo che si mise a guardare le cassette della Coppa America, dove La Torre era impegnato. All’improvviso Vittorio scoprì un ragazzone di ventidue anni nativo di Reconquista, un centravanti po’ grezzo tecnicamente, che però la metteva dentro quasi sempre. Il suo nome era Gabriel Omar Batistuta.

1990/91

Il mio primo contatto con Mario Cecchi Gori risale all’aprile del 1990. La Fiorentina doveva giocare una partita decisiva per la salvezza contro l’Inter a Milano e si parlava sempre più insistentemente di un interesse del produttore per l’acquisto della società. Chiamai Roma e gli chiesi se gli sarebbe piaciuto seguire in diretta la radiocronaca. Mi sorprese il fatto che in un paio di minuti potessi parlare con uno dei più importanti uomini di cinema al mondo, ma evidentemente la parola Fiorentina apriva porte altrimenti sprangate a tanti aspiranti attori o registi. Mi rispose gentilmente di no, perché non voleva dare l’impressione di forzare i tempi di una trattativa che ancora non decollava. Due settimane prima a Roma, a pochi minuti dall’inizio della gara con i giallorossi, Mario Cecchi Gori aveva avuto un fitto colloquio “a cielo apertoâ€? con Flavio Pontello, un incontro che era stato definito dal Conte “un puro atto di cortesia verso una persona squisitaâ€?. Seppi del passaggio di proprietà della Fiorentina due giorni prima dell’annuncio ufficiale, ma avevo giurato alla mia fonte, l’avvocato Lapo Puccini, che non avrei detto nulla e rinunciai allo scoop. Tutti aspettavamo Cecchi Gori come un liberatore e non a caso venne immediatamente insignito della carica di “Magnifico Messereâ€? al calcio storico fiorentino. Fu un grande uomo ed un presidente sfortunato, con un difetto indipendente dalla sua volontà…

TELEBULGARIA
Nella stagione precedente avevo ricevuto per la prima volta offerte di lavoro da parte di una radio concorrente. Il gruppo Poli, proprietario di Rete 37, aveva intenzione di allargarsi nella radiofonia e voleva che andassi a trasmettere da loro. Non ascoltai nemmeno la proposta, ma la cosa fece molto arrabbiare Rinaldo, che in un soprassalto d’orgoglio comprò uno spazio a Tvr-Teleitalia per trasmettere il Pentasport in contemporanea televisiva. Addio dunque alle telefonate di Isler il sabato sera, alle tanto contestate pagelle e a “Calcio Parlatoâ€?. Mi dispiaceva molto lasciare Rete 37, ma capivo che non potevo fare tutto e così cominciammo la nuova avventura.
Quando oggi rivedo le cassette di quei tre anni di trasmissione, provo qualcosa a metà tra la vergogna e la tenerezza. Non avevamo immagini e così le uniche due telecamere dell’emittente inquadravano per novanta minuti degli stoccafissi che rivolgevano domande ad un solo ospite, parlando ogni tanto di tattica. A Pestuggia si erano intanto affiancati il fedelissimo Luis Laserpe e Ruben Lopes Pegna e così provai per la prima volta il brivido di dirigere una mini-redazione.

ORFANI DI BAGGIO
La prima fregatura calcistica di Cecchi Gori fu Borgonovo, strapagato al Milan dell’amico Berlusconi e tornato a Firenze completamente diverso dal giocatore rapido di due anni prima. La seconda fu Lacatus, che aveva segnato un paio di reti con la Romania ai Mondiali, ma che a Firenze si distinse soprattutto per le frequentazioni di tutti i night club nella zona del senese, dove abitava. In campionato, la prima pesantissima maglia numero dieci venne indossata da Zironelli, un giocatore normale bersagliato dalla sfortuna. In campo e fuori comandava Dunga, mentre Lazaroni cercava a fatica di capire come diavolo si giocasse in Italia. Su di lui pesava un grosso equivoco: aveva sì allenato la Nazionale del suo Paese, ma alzi la mano chi si ricorda, a parte forse Zagalo, il nome di un tecnico brasiliano. Credo che tra qualche anno anche Scolari, l’ultimo C.T vittorioso ai Mondiali, sarà dimenticato. Insomma, stare seduto sulla panchina del Brasile non voleva certo dire essere degli strateghi straordinari ed infatti Lazaroni deluse un po’ tutti. E se a novembre non fossero arrivati Orlando e Fuser, la Fiorentina sarebbe probabilmente retrocessa con due anni di anticipo.

UN SOGNO
Nell’ottobre del 1990 si avverò un sogno: giocare allo stadio, davanti a quarantamila persone. Debbo tutto questo a Carlo Conti, che mi inserì nella lista dei Vip (o presunti tali), che avrebbero affrontato la Nazionale cantanti di Morandi e Ramazzotti. Quel giorno mi svegliai alle cinque del mattino già in preda di una fortissima emozione. E’ incredibile salire le scalette del sottopassaggio del Franchi e trovare tutta quella gente sugli spalti. Ovviamente la mia presenza passò del tutto inosservata, però fu bello sentire annunciare il nome dallo speaker, come se fossi uno vero. Passati i primi momenti di smarrimento, mi ambientai bene. Anzi, fin troppo bene, perché ad un certo punto, allargando le braccia, rimproverai platealmente Antognoni, reo secondo me di non avermi passato correttamente il pallone. Mi ero chiaramente montato la testa e venni giustamente fischiato impietosamente dalla Maratona. Quando rividi l’azione, mi vergognai di me stesso: il passaggio era perfetto, ero io che sembravo filmato alla moviola.

PRIME CONTESTAZIONI
Ero piacevolmente abituato ad un consenso generale. I tifosi gradivano le mie radiocronache e pazienza se qualche volta i giocatori, imbeccati da mogli, fidanzate e amici, si arrabbiavano. Tutto rimaneva nei limiti della normalità e del rapporto civile. Quell’anno invece qualcosa cominciò a guastarsi, a causa delle critiche che rivolgevo a Lazaroni e al suo modo di giocare. Poiché sono sempre stato poco diplomatico, ci misi appena un paio di mesi prima di sbottare in un «tanto si sa che è Dunga a fare la squadra! Ormai il capitano ha un suo vero e proprio clan». Avevo i miei bravi informatori nello spogliatoio e c’era del vero in ciò che dicevo, ma logicamente tutto questo non poteva che mandare su tutte le furie il gruppo di Dunga, che cominciò a farmi la guerra.
Un pomeriggio di dicembre mi arrivò una telefonata di avvertimento di Borgonovo, con cui avevo ottimi rapporti. «I tifosi sono inferociti con te – mi disse – se non la smetti con le critiche a certi giocatori, specialmente a Nappi e Salvatori, qualche testa calda ha giurato di fartela pagare. Forse è meglio se ti dai una calmata». Rimasi di stucco e mi attaccai al telefono per capire quanta verità ci fosse nel “consiglioâ€? di Borgonovo (che fra l’altro non faceva più un gol neanche per sbaglio).
Dodici anni dopo posso dire che me la presi troppo, perché dovevo capire subito o quasi che si trattava di un modo neanche troppo originale per condizionarmi, ma era la prima volta che mi trovavo in una situazione del genere ed essere attaccati non è mai piacevole. Continuai a dire quello che pensavo, perdendo il saluto di Dunga e subendo un paio di rifiuti di Lazaroni a venire ospite al Pentasport. Dormii lo stesso la notte ed imparai la lezione.

SCIOPERO
Il 28 gennaio 1990 andò in scena il primo sciopero calcistico della storia. Organizzato dai tifosi viola, aveva l’obiettivo di spiegare ai Pontello due cose semplici semplici: Baggio doveva rimanere e loro se ne dovevano andare. La clamorosa iniziativa ebbe un successo al di là delle aspettative ed in Fiesole non si presentò nessuno. Rimasero tutti al freddo fuori dello stadio ad ascoltare su Radio Blu la radiocronaca di Fiorentina-Napoli, che perdemmo grazie anche alle sciagurate scelte di Giorgi. In un’intervista esclusiva a fine partita, Claudio Pontello mi disse che il messaggio era arrivato e che loro non avrebbero mai venduto Baggio. Anzi, per lui era pronto il rinnovo di contratto ad un miliardo netto all’anno.

SENZA ALLENATORE
Una delle scene più grottesche della storia viola ante Cecchi Gori venne vissuta ad Auxerre, in una notte di marzo del 1990. I Pontello erano ormai completamente nel pallone, travolti dall’affare Baggio e decisi a lucrare il più possibile dalla vendita del campione. Il presidente Lorenzo Righetti, un galantuomo col dono della diplomazia, non aveva peso specifico nelle decisioni che altri prendevano per lui. Con Giorgi in guerra con il mondo che non capiva le sue geniali intuizioni tattiche, l’uomo forte viola era diventato Nardino Previdi, un robusto direttore sportivo originario di Sassuolo, abituato a regalare imbarazzanti forme di formaggio ai giornalisti più quotati.
Ad Auxerre la Fiorentina si presentò forte del solito uno a zero strappato a Perugia ed in piena zona retrocessione. I tifosi da mesi avevano consumato lo strappo con il contestatissimo Giorgi, che almeno il 70% dei giocatori non seguiva più, a cominciare da Baggio e Dunga. Il giorno prima della gara Previdi, pressato dai giornalisti, assicurò che quella era l’ultima volta che avremmo visto il tecnico in panchina, perché dopo Auxerre sarebbe stato sostituito. Mezz’ora prima del fischio di inizio lo stesso Previdi fece circolare in tribuna stampa la voce che i giocatori avevano platealmente sfiduciato Giorgi e che quindi l’allenatore non si sarebbe presentato in campo. La gestione tecnica era stata affidata per quella gara a Battistini e Dunga. Detti la notizia per primo all’inizio del collegamento e rimasi di sale quando vidi spuntare Giorgi dal sottopassaggio. I viola passarono ancora una volta il turno, ma i Pontello e Giorgi furono contestati lo stesso dai tifosi presenti in Francia. Il giorno successivo Previdi si rimangiò le dichiarazioni di due giorni prima e smentì di aver mai parlato di un esonero di Giorgi. Fu verbalmente linciato da Manuela Righini e Luca Calamai e chiuse lì in pratica il suo rapporto con Firenze.

LO DEVO SCRIVERE SUI MURI
…che non vado alla Juventus? Era in buonafede oppure no Baggio quando rilasciò questa dichiarazione nell’aprile del ’90? Credo di sì. In quei giorni Robertino tentò davvero di sfilarsi da un gioco più grande di lui, organizzando perfino cene carbonare con Mario Cecchi Gori, che si diceva stesse per comprare la Fiorentina. Certamente mirava anche ai suoi interessi e avrebbe chiesto ai nuovi padroni lo stesso ingaggio che gli garantiva la Juve, però sono convinto che ci abbia provato. Al ritorno da una trasferta a Roma mi capitò di rientrare a Firenze in macchina con Dunga e Baggio: ciò che ascoltai in quelle due ore di viaggio era la conferma della volontà di non tradire la promessa fatta dal ragazzo d’oro del calcio italiano ai suoi amici viola. Ma fu tutto impossibile e quei giorni di primavera furono vissuti in un clima di crescente frenesia.

SALVEZZA E TELEFONINO
Era arrivato Graziani al posto di Giorgi e la Fiorentina aveva strappato a Brema un’incredibile qualificazione per la finale Uefa contro la Juve. In campionato una brutta sconfitta con l’Inter complicò la corsa per rimanere in serie A. Fu a San Siro che fece il suo esordio ufficiale un marchingegno che ci avrebbe cambiato la vita: sua maestà il telefonino. Rinaldo era stato uno dei mille italiani che si erano prenotati per averlo subito e nella sala stampa di Milano mi presentai davanti a Trapattoni, allenatore dei nerazzurri, con questo strano “cosoâ€? in mano.
«Cosa l’è che l’è?», mi chiese sospettoso il Trap
«No, niente mister, una specie di microfono e registratore… Lei risponda alle mie domande, vada avanti tranquillo», risposi, preoccupato che arrivasse qualcuno della Lega ad impedirmi l’intervista in diretta. Cominciava una nuova epoca, era arrivato quel famoso telefono senza fili sognato fin dal 1987, e adesso anche in trasferta potevamo trasmettere da tutte le parti dello stadio. Ad essere sinceri non avevamo saltato neanche una radiocronaca, ma quando verrà il mio giorno sarei curioso di sapere quanti anni di vita ho perso per star dietro al modo di trasmettere sempre e ovunque e per cercare di acquisire i mitici diritti radiofonici locali.
Chiudemmo il campionato vincendo quattro a uno al Franchi contro l’Atalanta e in qualche modo ci salvammo. Baggio segnò la quarta rete e in molti tememmo che quello fosse il suo ultimo gol in maglia viola. Purtroppo avevamo ragione, ma non c’era tempo per pensarci troppo su, perché si stava avvicinando il momento della verità: la finale Uefa contro la Juventus, la nostra rivincita dopo lo scudetto rubato nel 1982.

LADRI
Commentai la partita di andata a Torino casualmente accanto ad Angelo Caroli, inviato de La Stampa ed ex grande bianconero. Le sue parole alla fine del primo tempo furono: «è incredibile come la Fiorentina non sia in vantaggio di almeno due reti». Aveva ragione, perché avevamo dato spettacolo. Il risultato era di uno a uno per le reti di Galia e Buso, ma Baggio si era presentato due volte solo davanti a Tacconi, fallendo in entrambe le occasioni, lui che quelle reti le segna anche bendato. Non mi è mai passato per la testa che l’abbia fatto apposta perché in procinto di andare alla Juve, ma qualche imbecille ci ha pensato davvero. L’arbitraggio dello spagnolo Soriano Aladren, da me ribattezzato negli ultimi quindici minuti di radiocronaca Soriano A-ladron, fu a dir poco scandaloso nell’assegnazione dei falli, ma il peggio doveva ancora venire.
Nel secondo tempo la Juve segnò un gol viziato da un enorme fallo di Casiraghi su Pin, ma Aladron convalidò lo stesso ed il simpatico Casiraghi disse a Pin: «non te la prendere, sai com’è… Noi siamo la Juve e tutto ci è permesso». Poi fece la frittata Landucci su un tiro al rallentatore di De Agostini e lì in pratica perdemmo la Coppa Uefa. Mentre le squadre rientravano negli spogliatoi Pin urlò ai microfoni Rai un “LADRI!!â€?, che fotografava al meglio la situazione. La telecronaca di Ennio Vitanza, poi, fu a dir poco scandalosa. Nonostante ci fossero in finale due squadre italiane, sembrava che la Fiorentina fosse una formazione tedesca o francese. Tre giorni dopo quella partita mi sposai, e confesso che i veleni e la rabbia di quella notte erano ancora pienamente in circolo.

AVELLINO
A raccontarlo adesso c’è da non crederci. Siccome in semifinale un tifoso (idiota) della Fiorentina era andato a rompere le scatole al portiere del Werder Brema, ci fecero giocare la gara di ritorno in campo neutro. Ci poteva anche stare, applicando rigidamente le regole Uefa, ma quello che fece cascare le braccia fu la scelta della città. Non Roma o al limite Napoli, dove la tifoseria è storicamente anti-juventina, ma Avellino, cioè una delle città più bianconere del mondo. Come a Cagliari otto anni prima preparammo male la sfida: dovevamo recuperare due reti e c’erano state squalifiche importanti per le improvvide dichiarazioni di alcuni viola. Ma soprattutto navigavamo a vista in mezzo al ciclone Baggio. Robertino mi aveva confidato che se ne sarebbe andato alla Juve ed ero rassegnato, speravo però che ci fosse un suo ultimo acuto che ci facesse vincere la Coppa Uefa.
La partita fu molto brutta, colpimmo un palo, giocammo buona parte in undici contro dieci, ma non costruimmo mai azioni davvero pericolose. Negli spogliatoi si respirava un’aria da fine impero: Graziani sapeva di essere sostituito dal brasiliano Lazaroni, sponsorizzato da Dunga, mentre Baggio se ne stava triste in silenzio in un angolo lontano dai compagni. Era il 16 maggio, la stessa data di Cagliari, e ancora una volta la Juve ci aveva fregato, esattamente otto anni dopo. E poi in giro per l’Italia si chiedono come mai a Firenze ce l’abbiamo tanto con la Vecchia Signora…

CIAO ROBERTINO
Il giorno dopo Avellino annunciarono quello che ormai in molti sapevamo: Baggio era stato venduto alla Juve ed aveva già firmato il contratto. Unica (magra) consolazione: come segno di rispetto verso i tifosi viola, non aveva voluto indossare la sciarpa bianconera. Per cercare di fare uscire bene il suo assistito, il procuratore Caliendo si permise di organizzare una conferenza stampa nella sede della Fiorentina all’insaputa dei Pontello, quasi a confermare che era lui in quei giorni il padrone della situazione. Nel pomeriggio successivo, furono gli stessi Pontello a chiamare i giornalisti e fuori, in piazza Savonarola, si radunarono almeno seicento persone. Prima di entrare dentro la sede mi sorpresi insieme a Rinaldo a saltare al grido di «… chi non salta un Pontello è, chi non salta un Pontello è», ma il nostro compito era un altro. Avevamo infatti deciso di trasmettere in diretta la conferenza stampa di Claudio Pontello, spedito allo sbaraglio dalla sua famiglia. Fummo, lo confesso, un po’ truffaldini con chi ci chiedeva cosa diavolo fosse quell’affare nero che Rinaldo teneva in mano vicino alla bocca di chi parlava, ma realizzammo un gran colpo.
Tutta Firenze era infatti sintonizzata su Radio Blu, e quando Claudio Pontello dichiarò bellicoso: «noi comunque rimarremo alla guida della Fiorentina anche per i prossimi anni», udimmo scoppiare da fuori il finimondo. Dentro la sede rimasero tutti senza parole perché non si aspettavano che qualcuno potesse aver sentito la dichiarazione di sfida di Pontello, mentre io facevo finta di niente. La città si rivoltò e ci furono episodi da guerriglia urbana: la polizia dovette intervenire e, incredibilmente, le signore-bene di Firenze dettero “asiloâ€? ai tifosi più esasperati. Tutti volevano che i Pontello vendessero la società, magari al grande produttore europeo Mario Cecchi Gori (il figlio non lo conosceva nessuno, tranne le lettrici di Novella 2000 che tutto sapevano dei suoi amori). Radio Blu finì sulle prime pagine di tutti i giornali ed il Corriere della Sera ci accusò addirittura di aver provocato gli scontri con la nostra diretta. Venne nei nostri studi la Digos e ci chiese la registrazione della cassetta proprio il giorno in cui la Nazionale si radunava a Coverciano, in mezzo agli insulti dei tifosi viola a cui davvero avevano fatto di tutto. Niente comunque in confronto a quello che avrebbero patito dodici anni dopo.

Stavamo andando un po’ tutti in corto circuito, l’approssimarsi del Mondiale aveva generato in Italia una frenesia mai vista. Tutti costruivano e ristrutturavano, qualcuno intascava robuste tangenti. Per ospitare la massima rassegna planetaria furono compiuti autentici scempi architettonici ed anche il glorioso Comunale pagò pegno. Via la pista di atletica, quella del record del mondo sui 1500 metri dell’inglese Coe, e capienza ridotta: tutto questo per che cosa? Per ospitare quattro partite di cui nessuno oggi ricorda niente. Miliardi buttati via, sprecati, regalati. E la Fiorentina? Eravamo in Uefa e soprattutto c’era Roberto Baggio, ormai però accerchiato da Milan e Juventus. La Stampa, il giornale di casa Agnelli, aveva addirittura un inviato fisso a Firenze, Franco Badolato, e nessuno pensò che fosse venuto da noi per seguire le prestazioni di Dertycia e Volpecina.

UN CAMPIONE DI NOME SCIREA
Si può essere anti-juventini nelle viscere, ma rimanere lo stesso pietrificati quando accadono disgrazie stupide ed immani come quella di Scirea. L’avevo intervistato qualche volta ed era sempre stato di una gentilezza unica, l’opposto di gente come Bettega o Furino. La settimana prima di partire per la Polonia, dove sarebbe morto in un incidente stradale, Scirea era stato spedito dall’allenatore bianconero Zoff a Pistoia per Fiorentina-Como di Coppa Italia, una partita in cui i viola si qualificarono solo dopo il diciassettesimo rigore. Mancavano un paio di minuti al collegamento iniziale quando Scirea venne verso la nostra postazione per chiedere cortesemente se potevamo fargli leggere la formazione. Rimase lì per tutta la gara, scambiammo due parole nell’intervallo, ci confessò che Baggio era un obiettivo della Juve, salutò educatamente e se ne andò. Quattro giorni dopo dettero in diretta la notizia della sua morte alla Domenica Sportiva e Tardelli, che era ospite, scoppiò a piangere disperato. La settimana successiva Juventus-Fiorentina si giocò eccezionalmente di mercoledì sera in un clima irreale e non fu una normale partita di calcio, ma un tentativo di rimozione di un dolore che apparteneva a tutti gli sportivi italiani.

LA CHIAVE DI VOLTA
Dopo un mese c’era già chi si prendeva la briga di contare quante volte Bruno Giorgi infilava “la chiave di voltaâ€? nei suoi discorsi. Nei momenti di maggiore tensione le chiavi si moltiplicavano e diventavano, otto, dieci, quindici, solo che al contrario di quelle di San Pietro le chiavi di Giorgi non aprivano la porta di nessun Paradiso. Al contrario, ci portavano verso l’Inferno calcistico. Presentato come uno dei più grandi allenatori italiani, Giorgi godeva di un piccolo credito in più: aveva avuto la fortuna di allenare Roberto Baggio ragazzino a Vicenza. Bisognava essere davvero ciechi per non accorgersi del suo talento, però un po’ tutti c’eravamo fatti l’idea che per Robertino fosse il tecnico ideale. Tesi che mi venne smentita dal diretto interessato dopo poche settimane di campionato. La Fiorentina di Giorgi era bruttissima sul piano spettacolare. E’ vero che Borgonovo era stato sostituito dal modesto Dertycia (che segnò solo quattro reti, si infortunò e perse poi tutti i capelli per un esaurimento nervoso), ma con Baggio, Dunga, Battistini ed il lento Kubik, qualcosa di più si poteva pure pretendere. E almeno fossero arrivati i risultati…
L’unica eccezione era la Coppa Uefa, con passaggi di turno rocamboleschi, sofferti e per questo ancora più belli. Tutte le partite “europeeâ€? vennero giocate a Perugia, come se non bastassero le normali difficoltà di una squadra che viveva solo sulle giocate di Baggio. Il primo avversario sembrava impossibile: l’Atletico Madrid di Futre. Al Vicente Calderon di Madrid Landucci fece i miracoli, la Fiorentina rimase in dieci per l’espulsione di Di Chiara e riuscì a limitare i danni perdendo solo per uno a zero. Nel ritorno segnò Buso, che la Juve ci aveva dato in prestito come “caparraâ€? per Baggio, e ai rigori passammo noi, ancora una volta grazie ad uno strepitoso Landucci.

BAGGIO CONTRO TUTTI
La “chiave di voltaâ€? della stagione fu la partita di Napoli. Là dove otto anni prima Antognoni aveva segnato la rete del possibile scudetto, Baggio inventò il gol più incredibile che abbia mai visto: scartò tutti partendo da centrocampo e depositò il pallone nella stessa porta dove era finito il tiro del suo vecchio capitano. Una galoppata entusiasmante, con il San Paolo in piedi ad applaudire. Poi Robertino segnò ancora su rigore e lì la Fiorentina smise di giocare. Nel secondo tempo il Napoli ributtò nella mischia un imbolsito Maradona, che non fece niente. Perdemmo lo stesso tre a due e nel dopo gara realizzai la mia unica intervista a Re Diego. «Rendo omaggio ad un nuovo grande talento del calcio Mondiale, si chiama Baggio», mi soffiò al microfono prima di essere inghiottito dalla sua gente. E Baggio l’avevamo noi: più andava su e più morivamo dalla voglia di non farlo scappare.

I BALLETTI DI KIEV
In Coppa Uefa succedeva invece qualcosa di strano, si giocava male, ma si andava avanti lo stesso tra mille peripezie. A Socheaux Faccenda tentò di togliere dal mondo un avversario con un’entrata assassina, venne espulso e resistemmo in dieci. Poi venne sorteggiata la Dinamo di Kiev e fu tutto un amarcord con la qualificazione in Coppa dei Campioni di venti anni prima. All’andata segnò Baggio su rigore e partimmo per l’Ucraina con tutti i pronostici contro.
La radiocronaca a Kiev fu un vero azzardo, Rinaldo non era d’accordo nel tentare di farla, ma mi imposi e tentammo l’allacciamento del telefono. Era dicembre, il termometro segnava meno venti, ma una volta arrivati all’albergo che ci ospitava non fu certo il clima l’oggetto delle nostre conversazioni. E nemmeno la tattica o la probabile formazione. Ad accoglierci c’erano infatti una decina di bellissime ragazze, tutte sotto i venticinque anni, che avevano certamente saputo dell’enorme valore letterario dei “compagni giornalistiâ€? arrivati dall’Italia. Non si spiegherebbe altrimenti la disponibilità mostrata nei nostri confronti, una disponibilità che si manifestò in mille modi, tutti estremamente graditi. E fu in quei freddi giorni in Ucraina che per una volta l’emittenza locale batté nettamente il servizio pubblico…
Riuscii miracolosamente a fare tutta la radiocronaca, mentre alla Rai la linea saltava di continuo. Il mio segreto furono otto banconote da dieci dollari che ad intervalli regolari allungavo alla funzionaria del partito addetta ai telefoni. Sul campo ghiacciato Baggio dette spettacolo e colpì anche un palo. Tutta la squadra giocò benissimo e passammo il turno pareggiando per zero a zero. Tornammo a Firenze alle sei del mattino, distrutti dalla stanchezza e con dei ricordi incancellabili.

LA PREMONIZIONE
Ammetto che sia stato un colpo di fortuna, però bisognava provarci! Ed io non lo avevo mai fatto prima di quel fatidico 15 gennaio 1989. Eravamo sull’uno a uno del “solitoâ€? storico incontro casalingo contro la Juve, con i gol di Rui Barros e rigore di Baggio. Allo scadere Robertino va a battere un calcio d’angolo e a me viene fuori di getto una frase buttata lì: «angolo per la Fiorentina, ultima occasione, va alla battuta Baggio. Il sogno dei fiorentini è segnare al novantesimo contro la Juventus, siamo in effetti al novantesimo, parte l’angolo di Baggio, intervento e… gol della Fiorentina! Ha segnato Borgonovo!». Cross, deviazione di Battistini, gol di Borgonovo. Fantastico, uno stadio che esplode, una torcida viola. Salto come un grillo dal mio pertugio in tribuna laterale e sento là sotto un vecchio tifoso urlare: «che goduria, è molto meglio che tr……». «Parla per te», gli risponde il giovane manager lampadato, con a fianco la classica biondona mozzafiato. Si abbracciano ridendo.
Lì per lì non mi ricordavo nemmeno di quello che avevo detto prima della rete, solo a fine partita, nel risentire l’azione, mi resi conto di averci azzeccato. Ho sempre avuto un grande rispetto per quel momento magico e così ho cercato di evitare certe frasi preparatorie. Sono passati interi campionati senza che fossi preso dalla tentazione, solo nell’anno della prima retrocessione un paio di volte ci provai con poca convinzione, sperando però che gli dei del calcio mi ascoltassero e facessero la grazia. Purtroppo non servì a niente e non segnammo.

IN GINOCCHIO DAL CONTE
Il 22 gennaio 1989 si gioca a Lecce, si parte in aereo il giorno prima e la Fiorentina, bontà sua, imbarca anche i cinque giornalisti al seguito. Ci sono anch’io, unico rappresentante dell’emittenza radiotelevisiva locale, una condizione particolare che è durata una decina di anni. Incredibile ma vero, stavolta c’è con noi pure il Conte Flavio, forse ringalluzzito dalla vittoria contro la Juve della precedente domenica. Mi faccio coraggio e ritento l’intervista negata sei anni prima, ai tempi della contestazione in tribuna durante Fiorentina-Verona. Stavolta sa chi sono, mi dice che le radiocronache io non le potrei fare, ma che in fondo è meglio così, perché lui si diverte molto ad ascoltarmi, anche quando sparo a velocità supersonica le pubblicità.
«Ma come fai a dirle così in fretta?»
«Non so Conte, ormai sono abituato… Vorrei chiederle qualcosa sulla Fiorentina, posso?»
«Se vuoi, ma non mi piacciono troppo le domande».
Intimorito dal tono burbero del Conte e quasi commosso dal fatto che Flavio Pontello sprecasse una fetta del suo prezioso tempo a sentire le mie radiocronache, infilo una di quelle interviste stile inginocchiatoio che neanche Gigi Marzullo nei suoi momenti peggiori (cioè sempre) sarebbe riuscito a costruire. Non gli chiedo niente del contratto di Baggio e neanche accenno a quelle voci sull’interessamento all’acquisto della società da parte del famoso produttore cinematografico Mario Cecchi Gori. La domanda più insidiosa è: “quanti soldi ci ha rimesso la famiglia Pontello con la Fiorentina?â€?. Che coraggio! Che uso spregiudicato del microfono! Roba che se oggi uno dei giornalisti a Radio Blu mi portasse un’intervista del genere, verrebbe additato al pubblico ludibrio e messo in purga per almeno un mese. Venni salvato dalla mia stessa ignoranza: non sapevo che dentro l’aereo ci vogliono microfoni particolari e poiché la mia “intervista in esclusiva al Conteâ€? era stata registrata con un semplice Sony da quarantamila lire, tutto ciò che io e Pontello ci eravamo detti era stato coperto dal rumore di fondo. Persi uno scoop, ma non ci rimisi la faccia.

QUESTA E’ LA STORIA DI UN MERCENARIO…
Cominciava così la canzone che la curva Fiesole intonò il giorno del ritorno di Berti da avversario a Firenze. Il passa parola della vigilia aveva funzionato alla grande, il mio amico Riccardo Bellini girava per Firenze addirittura con i fogli ciclostilati del testo e tutti in curva erano pronti per la contestazione in grande stile. E anche il resto dello stadio si produsse in bordate di fischi ogni volta che Berti toccava il pallone. Per la cronaca il motivetto continuava così: “… che gioca solo pensando all’onorario, lui non ha cuore, lui non ha orgoglio, lui gioca solo pensando al portafoglio. Ogni domenica gioca a Milano, Nicola Berti l’hai fatto per il granoâ€?, e via a seguire.
Nell’estate precedente Berti si era rifiutato di allungare il contratto in scadenza nel 1989 con la Fiorentina perché si era già messo d’accordo con l’Inter. Per lo stesso motivo aveva detto no al Napoli di Maradona, che avrebbe garantito ai viola un’ottima contropartita tecnica ed economica. Alla fine del mercato del 1988, Fiorentina ed Inter riuscirono a trovare un accordo, ma il popolo viola se la legò al dito. Berti fu sorpreso e annichilito dai fischi e dopo trenta minuti pessimi Trapattoni, che quell’anno avrebbe vinto il suo ultimo scudetto italiano, decise che poteva bastare, e lo tolse dal campo. Fu una grande vittoria del pubblico e poi anche della Fiorentina, che si impose per 4 a 3 al termine di una gara rocambolesca, condita da un madornale errore difensivo di Bergomi, che regalò al solito implacabile Borgonovo la palla del quarto gol viola.
Il Berti semplice che avevo conosciuto a Firenze cambiò completamente in poco tempo, diventando un’altra persona. Mi capitò di incontrarlo un anno dopo a San Siro fuori dalla sala stampa e neanche rispose al mio saluto. Si era montato la testa o forse, chissà, si era legato al dito quell’accoglienza fiorentina, che si è puntualmente ripetuta ogni volta che ha messo piede al Comunale.

SPAREGGIO
Nel finale di stagione la Fiorentina dilapidò il vantaggio che aveva sulle concorrenti Uefa e fu costretta a ricorrere allo spareggio con la Roma di Liedholm. C’era stata una pessima gestione dell’affare Eriksson, perché i Pontello non lo volevano più, salvo poi ripensarci quando ormai il tecnico svedese aveva dato la sua parola al Benfica. Seguirono giorni grotteschi, con la Firenze calcistica a pregare Eriksson perché rimanesse per il terzo anno in viola. A metà aprile venne convocata una conferenza stampa in cui Sven Goran ribadiva il suo no. In pratica un’anteprima del corto circuito mediatico andato in scena tredici anni dopo con Terim, Sconcerti e Cecchi Gori, solo che stavolta tutto fu gestito molto meglio.
Lo spareggio di Perugia venne deciso da un gol di Roberto Pruzzo, preso a novembre e mai a segno in campionato, ma il vero protagonista della gara fu Landucci, che parò tutto. Alla fine della partita, con la Fiorentina in Uefa e ventimila romanisti beffati, come a Pisa tre anni prima qualcuno pianse. Si vede che è un destino dei passaggi in Europa. Stavolta le lacrime erano di Stefano Carobbi, ceduto proprio ai rossoneri di Arrigo Sacchi, suo vecchio maestro delle giovanili viola.
E il nuovo tecnico? «Non c’è problema – ci disse trionfante il direttore sportivo Nardino Previdi – abbiamo preso il migliore sulla piazza, Bruno Giorgi. Lo abbiamo rubato alla Roma, con cui stava per accordarsi». Accidenti, un grande colpo. Soprattutto per la Roma, che evitò di poco di averlo in panchina.

1988/89
Le nostre radiocronache proseguivano fra una fuga ed una prolunga, mentre non si era ancora capito cosa volesse fare da grande la Fiorentina. Nel cuore e nella testa di tutti cresceva a dismisura Roberto Baggio. Fu negli ultimi mesi del 1988 che scoppiò definitivamente l’amore con Firenze. Non c’era fiorentino a cui Baggio non piacesse. Ai giovani perché era un ragazzo semplice di ventun anni che condivideva le loro stesse passioni, a quelli un po’ meno giovani perché mai avrebbero sperato nella loro vita calcistica di ritrovare così presto un altro grandissimo giocatore con la maglia numero dieci. Incuriosiva sapere che si stava avvicinando al buddismo, le donne impazzivano per lui. C’era chi lo trovava tenero e chi irresistibile per via degli occhi verdi. Robertino deluse tutte le ammiratrici sposandosi giovanissimo con Andreina, l’amore di sempre. Gli unici che restarono immuni da questa passione collettiva furono i Pontello, che comunque gli rinnovarono il contratto fino al 1992 a mezzo miliardo netto l’anno. Ma se per caso qualcuno avesse voluto fare una pazzia per portarselo via…

IL FATTORE D
Carlos Caetano Verri Bledorn, detto Dunga, fu acquistato dalla Fiorentina quasi per caso, nell’intricatissimo affare Socrates, e tenuto in Brasile per tre anni a farsi, come si dice, le ossa. Poi, nel 1987, Anconetani fiutò l’affare e se lo fece dare in prestito per il suo Pisa, che grazie soprattutto a lui riuscì a salvarsi. Quando l’anno successivo arrivò a Firenze, Dunga era ormai un calciatore maturo e completo, un centrocampista stile Oriali, forse con un pizzico di dinamismo in meno. Ma soprattutto aveva una personalità fortissima: “ringhiavaâ€? ai compagni di reparto, li rimproverava platealmente per un errore, era un leader nato.
Se guardo alla storia degli ultimi quindici anni in viola, ammetto di non aver mai avuto un rapporto semplice con i cosiddetti capi dello spogliatoio. Per meglio dire: all’inizio tutto fila liscio, ci si annusa, ci si stima, poi ad un certo momento scatta qualcosa che ci allontana, ci rende sospettosi, ci fa entrare in guerra. E’ successo con Dunga, con Batistuta, in parte con Rui Costa, solo con Di Livio è andata molto meglio. Probabilmente è colpa mia, lo riconosco. Può darsi che non sia abbastanza attento nel riconoscere la leadership del campione, che non mi piacciano certi suoi comportamenti, quando invece lo spogliatoio di una squadra non solo li tollera ma ne ha addirittura bisogno. Poi arrivano i tirapiedi ed i ruffiani di turno ad avvelenare i rapporti e a quel punto la situazione non la recuperi più, salvo rarissime eccezioni, come è accaduto per fortuna con Rui Costa.
Le cose fra me e Dunga comunque andarono benissimo fino all’arrivo prima di Lazaroni e poi di Batistuta, che il brasiliano di fatto osteggiò nei suoi primi mesi fiorentini. Fino al 1991 non ci furono problemi, ed essere amico di Baggio rappresentò un buon lasciapassare per diverse interviste in esclusiva, perché i due avevano lo stesso procuratore (Caliendo) ed erano l’anima della Fiorentina, in campo e fuori.

DIVERTIMENTO
Sì, quella Fiorentina divertiva. Eriksson aveva perfezionato il meccanismo, esaltando finalmente le giocate di Baggio che aveva in Borgonovo un interlocutore capace – anche più di Diaz, imprestato all’Inter – di parlare lo stesso linguaggio tecnico. La campagna acquisti era stata intelligente, a cominciare da Dunga. Il povero Enrico Cucchi, stroncato da un tumore pochi anni dopo, fu fondamentale per l’assetto del centrocampo, Carobbi e Battistini non persero un colpo, Landucci si mostrò degno di stare tra i primi cinque portieri italiani. Da Como arrivò il livornese Mattei, un faticatore della fascia destra molto estroverso. A volte persino troppo, tanto che, pensando a lui, Dunga fece affiggere nello spogliatoio il seguente cartello: “prima di azionare la bocca, accertarsi che sia inserito il cervelloâ€?.
Era una buona Fiorentina, ancora una volta più a proprio agio in casa che in trasferta. Soprattutto accontentava un pubblico di buongustai del calcio com’è quello viola e pazienza se certe ingenuità collettive trasformarono in pareggi partite già vinte.

LA REPUBBLICA DEI SOGNI
Ci fu un periodo nella prima metà degli anni ottanta in cui tutti i giovani che leggevano i giornali ed erano anche vagamente orientati a sinistra si innamorarono perdutamente di “Repubblicaâ€?. Se poi uno aveva anche la fregola di voler fare il giornalista, la miscela diventava micidiale, tanto da trasformare nomi e cognomi di giornalisti in veri e propri idoli. Nel mio piccolo la stella cometa delle letture quotidiane era il fiorentino Mario Sconcerti e quando scoprii che era un affezionato ascoltatore delle mie radiocronache quasi caddi in deliquio.
Nell’autunno del 1988 arrivò non inattesa la notizia destinata a trasformare uomini e donne perbene in affannati cercatori di posti di lavoro, gente pronta ad accoltellarsi per una firma: apriva la redazione toscana di Repubblica e stavano “facendo le scelteâ€?. Avevo poche esperienze nei giornali e tutte un po’ datate. Per sei anni avevo scritto di sport diversi dal calcio sul Tirreno, avevo collaborato a La Città, ogni tanto firmavo qualche articolo sui giornali che vengono distribuiti gratuitamente allo stadio. Ad una partita di Coppa Italia venni presentato a Sconcerti e gli chiesi immediatamente di collaborare. «Non c’è problema – mi rispose – chiamami in settimana». Lo chiamai e mi dichiarai pronto ad immolarmi alla causa di Repubblica. Potevo benissimo lasciare il mio sudato posto fisso di lavoro (mamma Cassa di Risparmio di Firenze, mai ringraziata abbastanza per la pazienza avuta in questi anni), abbandonare tutto ciò che stavo facendo, a parte la radiocronaca, per trasferirmi notte e giorno nelle stanze di via Maggio a 200.000 lire al mese. E se erano troppe potevano pure trattare sul prezzo. Ero chiaramente partito di cervello, ma Repubblica era il mio sogno, la mia nuova frontiera e solo per questo merito qualche giustificazione postuma.
Sconcerti freddò i miei bollenti spiriti mettendomi sotto l’ala protettrice (si fa per dire) di Massimo Calvino, nipote guarda caso del famoso Italo, che mi commissionò una faticosa inchiesta sulle piscine a Firenze. Cominciai a girare per la città, scrivendo tutto su tariffe e orari fino a consegnare tutto orgoglioso il mio bel compitino. «Se ne occupa Sandrelli», mi disse Calvino. Rimasi un po’ deluso, ma non sapevo ancora quello che il destino mi aveva riservato.
Massimo Sandrelli lo avevo conosciuto alla Città, quando gli consegnavo interviste un po’ scolastiche sul Prato, e non avevo con lui alcuna familiarità. E nemmeno la ebbi nelle due settimane successive al “dirottamentoâ€? di Calvino. Lo chiamavo due, tre volte al giorno, ma lui o era in riunione o appena andato via. Una sera, sfidando me stesso, gli telefonai a casa perché il mio bellissimo pezzo sulle piscine “meritava di essere pubblicatoâ€?. In tutti i modi. Se devo dire la verità, non fu freddo. Fu gelido, ed io rimasi inebetito con la cornetta in mano per un paio di minuti a darmi del cretino. A quel punto non mi rimaneva che una soluzione: Sconcerti.
Alla decima telefonata in redazione, mi fa la grazia di accettare il colloquio. Io gli sparo tutta la mia rabbia per il trattamento subito, gli racconto le angherie di Sandrelli e lui risponde: «ti rendi conto che per parlare con te io sto perdendo parte del mio tempo? Sai con chi ero al telefono prima? (Se lo avessi saputo sarei stato uno straordinario sensitivo e forse mi avrebbero assunto a Repubblica) Con Spadolini! E tu mi rompi i cog… con queste storie, se Sandrelli ha agito così avrà avuto i suoi buoni motivi». Clic. Durata della conversazione: 135 secondi. Durata dello shock: tre settimane.
Un mese dopo portai i resti della mia inchiesta a La Nazione, che non pubblicò niente. Ma qualche tempo più tardi mi chiesero di scrivere qualcosa sul pugilato ed il canottaggio a Firenze. E nel 1994 ritrovai Sandrelli come direttore a Canale Dieci. Parlammo per un’ora e ci chiarimmo. Capii che non gli era piaciuto che lo avessi scavalcato e fossi andato direttamente da Sconcerti. Ci giurammo lealtà assoluta nei rapporti e abbiamo sempre mantenuto la promessa.

IL SIGNOR GLENN E MISS HYSEN
E’ la stagione in cui cominciano le mie prese di posizione. Nette e a volte, lo ammetto, esagerate. Ad inaugurare la serie fu lo svedese Hysen, pupillo di Eriksson e da lui sempre schierato nonostante chiari limiti dinamici. Secondo me era molto più adatto Pin a giocare in coppia con Battistini, inventato dal tecnico svedese centrale difensivo, e non perdevo occasione per ribadirlo. Pin era anche uno dei giocatori con cui avevo maggiore familiarità, ma proprio per questo mi sforzavo di essere con lui più realista del re e non gli perdonavo niente. Restava comunque, secondo me, superiore al collega svedese, almeno nel campionato italiano. Eriksson sopportava con anglosassone rassegnazione la mia vis polemica, mentre non avevo notizie di come stesse reagendo Hysen, contro cui peraltro non avevo niente di personale.
Il nostro primo incontro ravvicinato avvenne a dicembre, durante una festa di un viola club e lì venni folgorato da una visione paradisiaca. Si trattava della splendida signora Hysen, che si avvicinò e mi disse gentilmente in un misto di italiano ed inglese: «lei è quel signore che alla radio parla sempre male di mio marito, vero?»
«Ma no signora, che dice? Insomma, non è che ne parli male, credo solo che abbia delle difficoltà ad adattarsi al calcio italiano. Ci vuole tempo, anche Maradona, Platini e Rumenigge (ero stato basso con i paragoni!) hanno impiegato sei mesi per capire come si gioca da noi…»
«Lei può dire quel che vuole, ma si ricordi che Glenn è da anni titolare fisso della Nazionale svedese»
«Vedrà signora che le cose miglioreranno e che la difesa viola diventerà una delle più forti del campionato»
Durante quei centoventi secondi di contatto ravvicinato avrei potuto dire di tutto, perfino che Passarella era una pippa di fronte a Glenn, il più straordinario giocatore mai visto a Firenze. Una volta tornato in me, continuai ad esercitare il diritto di critica. Hysen col tempo si adattò meglio al calcio italiano, ma ogni tanto sbagliava partita ed io gli ammollavo, implacabile, qualche insufficienza. Con la segreta e vana speranza di essere convocato in separata sede dalla signora per una dura e vibrata protesta.

ADDIO BARETTI
Non facemmo in tempo ad affezionarci alla professionalità di Pier Cesare Baretti, un uomo preparatissimo che conosceva come pochi il calcio in tutti suoi aspetti. Poiché era stato per anni direttore del torinese e filo-juventino Tuttosport, all’inizio venne guardato con sospetto dai tifosi, ma seppe poi conquistare l’ambiente viola. Fu sua la geniale intuizione di affidare i preziosissimi muscoli di Baggio alle cure del professor Vittori, l’uomo che aveva costruito il fenomeno Mennea. E dobbiamo sempre a Baretti la decisa opposizione all’idea di Eriksson di mandare Robertino a farsi le ossa in provincia. Come tutti i tifosi viola seppi della sua scomparsa dalla televisione nell’intervallo di una partita della Nazionale in Portogallo, il 5 dicembre 1987. In un primo tempo dettero per disperso l’aereo su cui viaggiava, ma si capì dopo poche ore che non c’erano speranze di trovarlo vivo. In quei mesi Baretti si stava dedicando alla riorganizzazione della società, con un occhio particolare al famoso e mai realizzato centro sportivo di Santa Brigida, per il quale erano state emesse delle obbligazioni immediatamente sottoscritte dai generosi tifosi viola. In segno di lutto il giorno dopo Radio Blu annullò per 24 ore la propria programmazione.

A DUE VELOCITA’
L’improvvisa e tragica scomparsa di Baretti poteva rappresentare una buona occasione per i Pontello per tornare in prima linea. Il politico della famiglia, Claudio, sarebbe anche stato favorevole ad assumere la presidenza, ma colui che contava più di tutti, cioè Flavio, disse di no e non se ne fece di niente. Fu così che per il ruolo di presidente venne scelto un altro uomo proveniente dal palazzo del calcio: Lorenzo Righetti, ex arbitro e altissimo dirigente della Federazione.
Intanto la squadra di Eriksson andava molto bene in casa e male in trasferta, dove venivano fuori amnesie difensive a stento mascherate dall’ottima stagione di Landucci, che alla fine venne convocato da Vicini per la Nazionale agli Europei e tenuto “in caldoâ€? in Italia come terzo portiere. Al di là del signore e della signora Hysen, anche gli altri acquisti sembravano poco indovinati a cominciare da Rebonato, cannoniere l’anno prima in serie B, arrivato in maglia viola in coppia con Bosco. Rebonato aveva segnato fra i cadetti ventuno reti, ma era fragile caratterialmente e non resse all’impatto con Firenze. Nonostante un gol alla Juve, venne velocemente retrocesso fra le riserve e a fine stagione se ne andò. L’ottavo posto finale era da considerarsi mediocre, ma proprio all’ultima giornata arrivò il secondo acuto della stagione.

ULTIMO TANGO A TORINO
Chi l’avrebbe detto che il successo del 15 maggio 1988 sarebbe stato per chissà quanti secoli l’ultimo a Torino contro la Juve? Stavolta, al contrario del 1985, loro tenevano molto alla gara perché si giocavano la qualificazione Uefa, ma prima Di Chiara e poi uno strepitoso numero di Baggio stesero i bianconeri di Marchesi, costretti quindi allo spareggio contro il Torino. Giocammo poi altre tre gare al Comunale, fra cui la finale Uefa del ’90, e undici al Delle Alpi con lo sconsolante bilancio complessivo di due pareggi e ben dodici sconfitte.

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