Si sta molto meglio climaticamente stasera che il 22 agosto, quando pioveva sempre e faceva pure freddo.
Durante il lunghissimo viaggio in treno pensavo a come quello che ci sembra impossibile pochi mesi fa e che invece poi arriva e diventa normalita´.
Pensavo al fatto che ormai, a parte Praga, e´quasi un anno che salto la vigilia al campo della Fiorentina in trasferta e questo davvero mi sarebbe apparso intollerabile: e´ la migliore dimostrazione che nessuno e´ indispensabile e magari la prossima volta quando ho l´ abbassamento di voce come e´ successo venerdi´ scorso, forse e´ il caso che non mi “bombi” di medicinali e che lasci il microfono a Bardazzi.
Dico e scrivo tutto questo senza amarezza, anzi con la consapevolezza di aver creato una squadra che lavora in maniera straordinaria, dalle 8 di mattina alle 9 di sera (si´, perche´ mica tutto finisce con la sigla del Pentasport).
Comunque sono qua, e mi veniva in mente Wembley, anche se domani sera non e´ decisiva come allora, pero´ come nell´ ottobre di 9 anni fa ci guarda tutto il mondo calcistico.
Un altro stadio storico da dove trasmettere, una tacca in piu´ per me inguaribile provinciale che sognava di trovare il Real Madrid per provare l´ ebrezza di trasmettere dal Bernabeu.
E quando vedo in questi stadi che hanno scritto la storia del calcio il mio telefono con la scritta Radio Blu provo la stessa soddisfazione di 24 anni fa, al Park Astrid di Bruexelles.
Siamo pronti e siamo carichi, domani sera ci divertiremo spero come a Lione (risultato a parte).

PROFESSOR MONELLI
Fu un campionato proprio grigio, impreziosito però dalla vittoria in casa contro il Napoli che sarebbe diventato Campione d’Italia. E’ il grande giorno di Monelli, che vede Garella fuori dai pali e lo infila con un’incredibile rete da centrocampo. Il martedì successivo a Torino arriva l’avvocato Agnelli per la classica visita alla sua Juventus. Convoca in separata sede il divino Platini e osa chiedergli ciò che nessuno, se non appunto Agnelli, avrebbe mai osato: «Mi scusi Michel, potrebbe provare anche lei a ripetere ora, qui davanti a me, il tiro di Monelli di domenica scorsa: è stato sublime». Noblesse oblige e Platini si porta col pallone a centrocampo, mentre Tacconi rimane a fare il Garella (cioè il pollo) fuori dalla porta, al limite dell’area di rigore. Una, due, tre volte ed il pallonetto di cinquanta metri di Platini non entra. L’avvocato scuote maestosamente la bianca testa e se ne va. Monelli uno – Platini zero, sono queste le soddisfazioni della vita.

DARE BUCA A BAGGIO
Aveva esordito in serie A con la Sampdoria e, tanto per non smentirsi, si era fatto male la settimana dopo. Diciamo la verità: erano in pochi a credere che quelle ginocchia così esili e martoriate avrebbero sorretto per anni il suo straordinario talento. Con Baggio nell’anno di Bersellini avevo rapporti normali, più o meno come tutti i giornalisti che gravitavano intorno alla Fiorentina. Il tempo delle scelte arrivò la stagione successiva, quando Eriksson decise che forse era meglio darlo in prestito al Cesena “per farlo maturareâ€?. Io scelsi di stare con Baggio e non me ne sono mai pentito, perché ancora oggi, se lui gioca, mi metto davanti al televisore a vedere una partita e l’abbraccio che ci scambiamo ogni volta che ci vediamo profuma di reciproco rispetto e di un briciolo di amicizia.
Dunque, in quell’anno di incubazione del futuro campione, era normale invitarlo in radio come giovane speranza. Baggio accettò senza problemi, ma sfortunatamente incappò in uno dei rarissimi momenti in cui le ragioni del cuore avevano avuto la meglio sulla mia coscienza professionale. Ero troppo impegnato in altre faccende e davvero non potevo passare a prenderlo. Non esistevano i cellulari, sapevo che questo bravo ragazzo vicentino era ad aspettarmi all’uscita di Prato Est, ma non sapevo proprio come avvertirlo. Lo chiamai mortificato la sera a casa e gli raccontai la balla di una gomma bucata (che fantasia!). «Non importa, non ti preoccupare, faremo la trasmissione la prossima settimana, sempre che a te vada bene», mi disse e la cosa finì lì. Più o meno la stessa classe del signor Ramon Angel Diaz, che per tre volte ci prese in giro promettendo di venire a Radio Blu e non facendosi mai vedere. Ma si vede che fra me e gli argentini è una questione di feeling. Alla rovescia.

LORO DUE INSIEME
Mi sono divertito a contare i minuti in cui Antognoni e Baggio hanno giocato uno accanto all’altro: sono 245, neanche tre partite intere. Solo all’ultima giornata contro l’Atalanta sono rimasti in campo fianco a fianco per tutta la gara, quasi a voler suggellare l’imminente passaggio di consegne. Baggio aveva un grande rispetto per Antognoni e ne ascoltava in silenzio i consigli tecnici. Esiste un’immagine bellissima di loro due a Napoli mentre preparano la punizione del pareggio viola, quella del primo gol di Robertino in serie A, nel giorno dello scudetto partenopeo. Antognoni così più alto ed elegante, quasi patriarcale, sembra quasi voler suggerire il tiro al discepolo. Quello fu anche il gol della matematica salvezza al termine di un campionato anonimo, senza spunti tecnici e con pochissime emozioni. La squadra giocava male, con un’infinità di cross da centrocampo che fecero arrabbiare i tifosi consegnando al tempo stesso a Bersellini l’ingiusta patente di allenatore fra i più scarsi mai avuti. Ne avremmo invece visti di peggio.
Quando la stagione si concluse, nessuno di noi poteva sapere che non avremmo più ritrovato Antognoni con la maglia viola. Sapevamo dell’addio dell’ottimo Oriali e del consunto Gentile, ma il capitano era come il David di Michelangelo, un monumento, ed eravamo tutti sicuri di ritrovarlo in ritiro per il sedicesimo anno consecutivo. Ed invece arrivò dal Losanna un’offerta economicamente eccezionale, una di quelle “che non si possono rifiutareâ€? e Antognoni se ne andò, tenendo comunque fede alla promessa che mai e poi mai avrebbe indossato un’altra maglia di squadra italiana e giocato contro la sua Fiorentina. Alla prima partita in Svizzera partirono in duemila da Firenze, perché il dolore dell’addio rimaneva fortissimo. Poi, piano piano ci abituammo a vivere anche senza Antognoni, ma nell’aprile del 1989 andammo in quarantamila allo stadio per “festeggiareâ€? il suo addio al calcio. Lui smetteva e noi non eravamo più dei ragazzi.

Il solito, splendido, Prandelli di ottobre, quello che ci fa volare.
Che giornata ieri: Fiorentina che vince soffrendo unpo’, ma vince, e la Juve che perde.
Rispetto molto il nuovo corso bianconero e soprattutto Ranieri, che è davvero un gran signore, ma sono figlio di Cagliari ed Avellino e dunque, come dicevo ieri in famiglia, “quando perde la Juve, io divento più buono”.
Continuiamo a vincere là dove siamo favoriti, circostanza niente affatto scontata nel calcio, e poi stiamo scoprendo il diamante Jovetic, che ha fatto un po’ più quello che ha voluto in attacco.
Pazzini mi sembrava molto preoccupato di metterla dentro e ha svariato meno del solito, però nel rigore preso da un ottimo Santana c’è il suo zampino.
Senza contare l’esecuzione: perfetta.
Su Gila cerchiamo di stare calmi, però è difficile non fare paragoni con il primo Toni fiorentino, oppure con lui stesso a Parma, che poi è il confronto più bello.
Adesso davvero ci divertiamo, alla faccia dei gufi di neanche un mese fa.

Volevo scrivere “il culo che abbiamo”, ma poi mi era sembrato un titolo troppo ruffiano, fatto apposta per invitare a leggere quasi volessi vendere qualcosa ed invece questo blog non è uno spazio che deve essere venduto.
La fortuna è quella che abbiamo noi persone normali a vivere delle nostre cose quotidiane, dando per scontato che tutto che ci succede ogni giorno sia un atto dovuto.
Ci penso ogni tanto, ma ci ho riflettuto ancora di più nei 30-minuti-30 impiegati ieri per mangiare.
C’erano le solite beghe di bassa levatura del nostro mondo giornalistico, sms che si incrociavano su quello che aveva detto tizio e su cosa stesse archiettando caio per cercare di avere un po’ di visibilità.
Insomma, la solita fuffa, che magari può essere divertente se vista dall’esterno, ma che poi diventa routine se va avanti da anni.
A due metri da me, una coppia sulla quarantina e sul passeggino un bambino che doveva avere almeno un anno in più di Cosimo, ma che purtroppo si capiva che non fosse quello che noi definiamo con la parola “normale” (mi vergogno un po’, però non trovo altri termini…).
Bisognava essere lì per vedere l’amore in ogni gesto disperato e pieno di passione con cui la mamma che imboccava suo figlio, cercando di distrarlo, mentre il babbo mi sembrava più stanco, eppure partecipe.
Lo loro dignità, il loro essere così “normali”, mi ha bloccato: ma se fosse successa a me e alla mia famiglia una cosa del genere, sarei stato in grado di trovare la forza quotidiana per essere accanto a chi avrebbe avuto più bisogno di me di quanto lo abbiano oggi i miei figli?
Oppure mi sarei abbandonato alla disperazione, trascinando con me le persone che mi vogliono bene?
Ecco, questo è il culo (enorme) che abbiamo, altro che diritti per la partita, la firma su un articolo, un contratto di pubblicità in più o in meno.
Bisogna che me ne ricordi più spesso.

Più Jovetic di Gilardino ieri sera, anche se Alberto è oggi nettamente superiore al Toni sbiadito degli ultimi sei mesi.
Aveva davanti De Rossi e Gattuso in prima battuta, e poi Chiellini e Cannavaro, insomma mica difensori ed incontristi qualsiasi, eppure li ha saltati quasi sempre, frenato poi dall’eccessivo egoismo del pur ottimo Vucinic.
Ha tutti i numeri per entrarci nel cuore, Jo-jo, e ha pure un grande allenatore che lo aiuterà nella crescita e credo si convincerà presto che tenerlo confinato sulla fascia sinistra vuol dire limitarne l’estro e quindi la pericolosità.
Aspettiamo che si sblocchi con i primi gol pesanti in maglia viola e poi vediamo quanto è pericoloso anche nel tiro.
Se ci fosse pure quello, Joveric diventerebbe, più di Bojinov, Toni e dello stesso Vucinic, il più grande colpo di mercato dell’onorata carriera di don Corvino.

Ci manca Mutu, inutile girarci intorno.
Seguo con un pizzico di appensione questa girandola di contrattempi che hanno trasformato un campione in un Paolino Paperino qualsiasi.
Da giugno in poi capitano infatti tutte a lui: mega multa dal Chelsea, rigore sbagliato con l’Italia, polemica con i compagni in Nazionale, braccio rotto, ginocchio in panne.
In più ci aggiungerei un procuratore come Alessandro Moggi, ma quello se lo è scelto lui.
Continuo a pensare che sia stato meglio tenerlo e che comunque la pessima gestione di tutta la vicenda Roma si faccia sentire ancora adesso, non fosse altro che per una velata ostilità che capto qua e là.
A tre giorni da una serie di impegni davvero preoccupante, ancora non sappiamo come stia veramente Adrian Mutu e questa non è davvero una buona notizia.

1986/87

Nel febbraio ’86, con un blitz preparato da un paio di mesi, avevamo acquistato in esclusiva i diritti radiofonici, con un contratto triennale. Sembrava impossibile, ma non eravamo più clandestini e quindi non avevamo più l’ispettore di Lega alle costole. Addio (purtroppo temporaneo) a fughe affannose in mezzo a giornalisti e spettatori. Purtroppo il blitz lo fecero anche i Pontello, che cominciarono a vendere i pezzi migliori della rosa. Niente nuovi investimenti e arrangiarsi con quello che c’era. Arrivarono Diaz, Di Chiara e lo spremuto Galbiati, partirono Galli, Massaro e Passarella. Era una squadra strana, con diversi giocatori al capolinea (Gentile e Oriali), giovani in via di maturazione (Landucci, Carobbi, Onorati e Berti), gente che non maturava mai (Monelli) e grandi speranze per l’avvenire (Baggio). In società, Nassi, senza più Ranieri Pontello presidente, aveva preferito lasciare e con lui a luglio, se ne andò improvvisamente anche Agroppi. Sarebbe più corretto dire che fu cacciato, ma qui le versioni cambiano a seconda di chi le fornisce. Al suo posto arrivò Bersellini, uomo squisito, ma non adatto da un ambiente particolare come Firenze. Fu immediatamente soprannominato Mastrolindo per un’innegabile somiglianza con il noto personaggio degli spot televisivi e si innamorò della città. Aveva sempre sperato di poter allenare un talento come Antognoni, ma a maggio, a Empoli in Coppa Italia, il capitano si era di nuovo seriamente infortunato. Stavolta però l’attesa per il ritorno fu più breve: “appenaâ€? sette mesi.

QUALCHE VOLTA POTRESTI PRENDERE IL PALLONE?
Il mondo del pallone da anni si interroga attonito su alcuni misteri calcistici. Un esempio: come hanno fatto ad arrivare in serie A elementi Andrea Rocchigiani, Carlo Pascucci e Massimiliano Fiondella? Tutti bravi ragazzi, per carità, ma poiché siamo in tanti ad esserci comportati più o meno bene nella vita, non si capisce perché a noi non è mai stata data questa fantastica opportunità. La Fiorentina, nel suo piccolo, può vantare un record: li ha fatti giocare tutti e tre, consegnando loro senza vergogna le stesse maglie che furono di gente come Magnini, Robotti, Cervato e qui mi fermo per non farmi troppo del male.
Prendiamo Rocchigiani, simpatico ragazzo fiorentino cresciuto a pane e calcio(ni). La notte fra il e il 14 settembre 1986,ad Avellino, una visione dall’al di là deve aver illuminato Bersellini, qualcosa di misterioso deve averlo convinto dell’ineluttabilità di mandare in panchina Gentile per far giocare Rocchigiani. Chissà se nell’occasione ci fu la stessa raccomandazione che Rocco fece a Rosato prima di un derby milanese degli anni sessanta: «colpisci qualunque cosa ti passa accanto, se è il pallone pazienza». A pensarci bene deve averglielo detto, perché il nostro eroe cominciò a scalciare più di un cavallo imbizzarrito, beccando alternativamente ora Tovalieri, ora Dirceu. Di calci al pallone quindi non ci fu traccia e dopo cinquanta minuti di lotta libera, Magni di Bergamo non poté che estrarre il cartellino rosso fra la costernazione del pubblico avellinese che stava cominciando a divertirsi per il match di lotta libera. Ciò nonostante, Rocchigiani, come del resto prima Pascucci e poi Fiondella, riuscì misteriosamente a collezionare diverse presenze in serie A. E pensare che c’è gente molto più dotata che si sbatte da una vita e non va oltre l’Interregionale.

IL SECCHIO
Ad Oporto la Fiorentina si gioca la qualificazione al successivo turno Uefa. Ha vinto in casa per uno a zero e sta perdendo con lo stesso punteggio contro i non impossibili portoghesi del Boavista. Si va ai supplementari e non succede niente. I rigori sembrano inevitabili ed è questo punto che Bersellini ha la pensata giusta: fa riscaldare Maldera, distintosi in due anni in viola solo per l’esagerato ammontare dell’ingaggio.
«Vai Aldo, pensaci te. Prima però fai un po’ di movimento».
Cinquanta metri avanti e cinquanta indietro, tutto bene fino a quando Maldera con la testa per aria non infila il piede nel secchio dell’acqua lasciato improvvidamente davanti alla panchina.
«Ahia!», urla Aldone.
Bersellini (paterno) «Ti sei fatto male?»
«Un po’ mister…»
«Ma te la senti di entrare per battere il rigore?»
«Non si preoccupi, vado e segno».
Entra, non tocca palla e si porta sicuro sul dischetto. Errore clamoroso e Fiorentina eliminata. Indimenticabile.

MI RACCOMANDO…
Faccio carriera. Rete 37, che a quei tempi aveva il monopolio delle trasmissioni della domenica sera, decide di affidarmi il compito di commentare la gara in trasferta e di dare i voti ai giocatori viola. Dal settembre 1986 all’aprile 1990 batto ogni record della speciale categoria e ricevo ben sessantaquattro telefonate dal direttore Michel Isler, una per ogni sabato che precede la partita. Giuro, una ad ogni vigilia. E sono tutte uguali: «mi raccomando stai nei tre minuti, se succede qualcosa di importante avvertimi prima di andare in onda, dai prima il voto e poi il giudizio sul giocatore». Ci fosse stata una volta che non l’abbia fatto, ma evidentemente non ero ritenuto affidabile. Stavo per ricorrere allo psicologo per capire cosa non andasse in me, quando ho saputo che il rito della telefonata proseguiva implacabile anche con chi aveva preso il mio posto. Mi sono consolato e oggi pagherei qualsiasi cifra per sapere cosa raccomanda ogni giorno il buon Michel a suo figlio prima di andare a scuola. Forse, «mi raccomando, se ti interrogano stai nei tre minuti»?

La loro sfortuna è che non fosse stato convocato l’uomo che non ha letto la storia, Christian Abbiati.
Quello a cui fino al 1938 il fascismo andava bene così, tout court, perché i treni arrivavano in orario e c’era poca confusione in giro.
Scelta di tempo e luoghi inevitabile quella dei fascisti italiani, che seguono la Nazionale un po’ per spirito di patria e molto perché lì non esistono gli ostacoli, anche all’interno del tifo organizzato, che hanno le squadre di club.
Il tempo è quello dello sfascio, della paura innescata dall’ultima crisi economica (che mi auguro azzeri i guadagni di tanti speculatori che giocano sulla nostra pelle).
Nel marasma mentale e nelle crisi di panico di alcuni può darsi che affiori l’ipotesi dell’uomo forte, quello che “non c’è da preoccuparsi” e che nasconde quelli che secondo molti sono escrementi sociali (poveri, extra-comunitari, insomma, i diversi) sotto il tappeto dell’ordine imposto ad ogni costo.
Il luogo è quello di un ex Paese comunista, abituato alla dittatura, dove l’idea del pugno di ferro è ancora ben dentro la testa di tanti.
Una vergogna annunciata quella dei fascisti italiani, così vicini ai loro cugini nazisti, perché nulla regala visibilità come il calcio ed infatti anch’io oggi, nel mio piccolo, sto parlando di questa gente, ma davvero non si può più fare finta di ignorarli.

Se e quando succederà che Cesare Prandelli lasci la panchina viola, il tutto avverrà alla luce del sole, con una sua conferenza stampa, guardando metaforicamente negli occhi la città.
Perchè questa è la cifra dell’uomo, la sua onestà verso se stesso e gli altri.
La storia del passaggio alla Juve non esiste, o meglio: esiste solo nelle voglie bianconere, ma poi si si ferma lì.
Prandelli è troppo onesto per rescindere unilateralmente un contratto e ha già dimostrato con l’Inter (bastava una sua minima disponibilità e Moratti sarebbe arrivato di corsa) che ai soldi dà il giusto peso.
Se poi mi sarò sbagliato, sarà una delusione, tra le più grosse certamente della mia vita professionale.

A me non era mai capitato di trattenere le lacrime allo stadio, nanche nel novembre scorso, nel minuto di raccoglimento per ricordare Manuela Prandelli.
Mi sono salvato perché ero in diretta, salvato per modo di dire perché non sta scritto da nessuna parte che un uomo di 48 anni non debba piangere.
E anzi, se noi maschi dessimo un po’ più spesso libero sfogo alle nostre emozioni forse il mondo andrebbe meglio.
Roberto vestito di viola che spinge la carrozzina di Stefano è una botta al cuore, quei primi piani sul maxi schermo, il tempo che si è fermato nei volti dei grandi campioni di ieri (a proposito: grazie Milan, grandissimo!).
Su Baggio mi piace credere che ci sia qualcosa di molto particolare: entro stranamente in ritardo allo stadio, cioè solo 75 minuti prima, e lo incrocio mentre si sta infilando negli spogliatoi.
Ci abbracciamo dopo una vita che non ci vediamo ed è veramente come racconto spesso a Valentina e Camilla: è stato ed è uno dei pochi che regala emozioni.
Poi, nel caos del dopo partita, provo a dare la linea a Russo, ed è proprio quando sta uscendo Roberto inseguito da tutti.
Fabio gli urla che vorrebbe fare un’intervista per la radio di Guetta e lui si ferma…
Su Stefano non voglio e non posso aggiungere altro a quello che ho scritto stamani per il Corriere e quindi, per una volta (scusatemi…), ripropongo il mio articolo perché racconta di quello che ho provato ieri pomeriggio.

Il “ciao David” mi arriva improvvisamente dritto al cuore dalla voce metallica del sintetizzatore. Me ne stavo defilato, accanto ad Amerini e dietro ad Orlando e Roggi, che scherzavano, ma fino ad un certo punto, sul prossimo impegno sociale, un’amichevole tra Italia e Turchia a Istanbul per raccogliere fondi contro la SLA. “Ho cinquemila malati con me”, scrive con gli occhi al computer Stefano. “Dobbiamo farla, sta organizzando tutto Terim”, lo sprona Roggi. “Partiamo subito”, è la risposta che spiega più di tante altre cose la sua voglia di combattere. Mi sposto di mezzo metro e mi infilo timidamente dentro il suo campo visivo. Sono passati più di sedici anni dall’ultima volta che ci siamo visti: io sono invecchiato, lui no. Davvero, è sempre uguale. La malattia gli è entrata da dietro con un tackle da espulsione, ma il viso e soprattutto gli occhi sono quelli che mi ricordavo, sono quelli dei suoi vent’anni. Mi riconosce subito e mi saluta. Non
sapeva che sarei andato a trovarlo per regalargli il contributo audio di tanti suoi amici del calcio e anche il racconto originale dei suoi indimenticabili gol all’Inter e alla Juve. Dieci secondi di emozione pura e poi tutto diventa fluido. Si ride e si scherza come se la “stronza” (così Stefano chiama la SLA) non avesse mai bussato alla sua porta. La vittima designata è Orlando, lui lo esalta sinceramente: “eri fortissimo, avresti dovuto giocare 60 partite in Nazionale”, io lo smonto, “guarda che ti sbagli. Era bravissimo, è vero, ma soprattutto fuori dal rettangolo verde”. Massimo ride e risponde alle battute. All’inizio era quasi commosso, imbarazzato, poi anche a lui sembra del tutto normale stare lì a giocare con l’antico compagno. Nella camera di ospedale ci sono anche due vecchi amici, uno è Aurelio Virgili, il figlio del grande Pecos Bill. Nella vita sarebbe uno stimato uomo di affari, che si occupa di finanza, ma ora è vestito da
calciatore della Fiorentina e accudisce Stefano come se fosse uno dei suoi figli. In disparte rimane Amerini. Fu Borgonovo a suggerire all’amico Pallavicino di prenderne la procura, quando Daniele era poco più di un ragazzino. Non sa come entrare nel discorso e allora lo aiuto: “Guarda Stefano che ora scendiamo ancora di livello calcistico. Dopo essere passati da te ad Orlando, ora ci sarebbe pure Amerini…”. Risate e intanto le infermiere cominciano a spazientirsi: troppa confusione. Poi Stefano diventa serio e si preoccupa: “Ma quante persone ci saranno stasera?”. Gli risponde Virgili: “Beh, io ho chiamato i parenti, Moreno, Massimo e David hanno qualche amico, forse a due-trecento ci arriviamo”. Quando gli diciamo che ne arriveranno almeno venticinquemila, Stefano sorride: “Cazzo, bisogna fare bella figura”. Gli suggerisco che con lui in campo la Fiorentina non ha mai vinto contro il Milan, ma se lo ricordava benissimo da solo. “Lo so – risponde –
ci proveremo stasera, abbiamo Orlando, che è fortissimo”. Poi ci buttano fuori, ma con Stefano non finisce qui, il prossimo appuntamento è a casa sua, a Giussano.

SUL GIORNALE DELLA TOSCANA DI OGGI CI SONO DELLE BELLISSIME PAROLE DI BATISTUTA PER STEFANO
BENE, SONO MOLTO CONTENTO E SE POI CON LE MIE PUNZECCHIATURE HO SOLLECITATO L’INTERVENTO LO SONO ANCORA DI PIU’
GRAZIE QUINDI ANCHE A GABRIEL

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