La mia voce in viola


SCIOPERO
Il 28 gennaio 1990 andò in scena il primo sciopero calcistico della storia. Organizzato dai tifosi viola, aveva l’obiettivo di spiegare ai Pontello due cose semplici semplici: Baggio doveva rimanere e loro se ne dovevano andare. La clamorosa iniziativa ebbe un successo al di là delle aspettative ed in Fiesole non si presentò nessuno. Rimasero tutti al freddo fuori dello stadio ad ascoltare su Radio Blu la radiocronaca di Fiorentina-Napoli, che perdemmo grazie anche alle sciagurate scelte di Giorgi. In un’intervista esclusiva a fine partita, Claudio Pontello mi disse che il messaggio era arrivato e che loro non avrebbero mai venduto Baggio. Anzi, per lui era pronto il rinnovo di contratto ad un miliardo netto all’anno.

SENZA ALLENATORE
Una delle scene più grottesche della storia viola ante Cecchi Gori venne vissuta ad Auxerre, in una notte di marzo del 1990. I Pontello erano ormai completamente nel pallone, travolti dall’affare Baggio e decisi a lucrare il più possibile dalla vendita del campione. Il presidente Lorenzo Righetti, un galantuomo col dono della diplomazia, non aveva peso specifico nelle decisioni che altri prendevano per lui. Con Giorgi in guerra con il mondo che non capiva le sue geniali intuizioni tattiche, l’uomo forte viola era diventato Nardino Previdi, un robusto direttore sportivo originario di Sassuolo, abituato a regalare imbarazzanti forme di formaggio ai giornalisti più quotati.
Ad Auxerre la Fiorentina si presentò forte del solito uno a zero strappato a Perugia ed in piena zona retrocessione. I tifosi da mesi avevano consumato lo strappo con il contestatissimo Giorgi, che almeno il 70% dei giocatori non seguiva più, a cominciare da Baggio e Dunga. Il giorno prima della gara Previdi, pressato dai giornalisti, assicurò che quella era l’ultima volta che avremmo visto il tecnico in panchina, perché dopo Auxerre sarebbe stato sostituito. Mezz’ora prima del fischio di inizio lo stesso Previdi fece circolare in tribuna stampa la voce che i giocatori avevano platealmente sfiduciato Giorgi e che quindi l’allenatore non si sarebbe presentato in campo. La gestione tecnica era stata affidata per quella gara a Battistini e Dunga. Detti la notizia per primo all’inizio del collegamento e rimasi di sale quando vidi spuntare Giorgi dal sottopassaggio. I viola passarono ancora una volta il turno, ma i Pontello e Giorgi furono contestati lo stesso dai tifosi presenti in Francia. Il giorno successivo Previdi si rimangiò le dichiarazioni di due giorni prima e smentì di aver mai parlato di un esonero di Giorgi. Fu verbalmente linciato da Manuela Righini e Luca Calamai e chiuse lì in pratica il suo rapporto con Firenze.

LO DEVO SCRIVERE SUI MURI
…che non vado alla Juventus? Era in buonafede oppure no Baggio quando rilasciò questa dichiarazione nell’aprile del ’90? Credo di sì. In quei giorni Robertino tentò davvero di sfilarsi da un gioco più grande di lui, organizzando perfino cene carbonare con Mario Cecchi Gori, che si diceva stesse per comprare la Fiorentina. Certamente mirava anche ai suoi interessi e avrebbe chiesto ai nuovi padroni lo stesso ingaggio che gli garantiva la Juve, però sono convinto che ci abbia provato. Al ritorno da una trasferta a Roma mi capitò di rientrare a Firenze in macchina con Dunga e Baggio: ciò che ascoltai in quelle due ore di viaggio era la conferma della volontà di non tradire la promessa fatta dal ragazzo d’oro del calcio italiano ai suoi amici viola. Ma fu tutto impossibile e quei giorni di primavera furono vissuti in un clima di crescente frenesia.

SALVEZZA E TELEFONINO
Era arrivato Graziani al posto di Giorgi e la Fiorentina aveva strappato a Brema un’incredibile qualificazione per la finale Uefa contro la Juve. In campionato una brutta sconfitta con l’Inter complicò la corsa per rimanere in serie A. Fu a San Siro che fece il suo esordio ufficiale un marchingegno che ci avrebbe cambiato la vita: sua maestà il telefonino. Rinaldo era stato uno dei mille italiani che si erano prenotati per averlo subito e nella sala stampa di Milano mi presentai davanti a Trapattoni, allenatore dei nerazzurri, con questo strano “cosoâ€? in mano.
«Cosa l’è che l’è?», mi chiese sospettoso il Trap
«No, niente mister, una specie di microfono e registratore… Lei risponda alle mie domande, vada avanti tranquillo», risposi, preoccupato che arrivasse qualcuno della Lega ad impedirmi l’intervista in diretta. Cominciava una nuova epoca, era arrivato quel famoso telefono senza fili sognato fin dal 1987, e adesso anche in trasferta potevamo trasmettere da tutte le parti dello stadio. Ad essere sinceri non avevamo saltato neanche una radiocronaca, ma quando verrà il mio giorno sarei curioso di sapere quanti anni di vita ho perso per star dietro al modo di trasmettere sempre e ovunque e per cercare di acquisire i mitici diritti radiofonici locali.
Chiudemmo il campionato vincendo quattro a uno al Franchi contro l’Atalanta e in qualche modo ci salvammo. Baggio segnò la quarta rete e in molti tememmo che quello fosse il suo ultimo gol in maglia viola. Purtroppo avevamo ragione, ma non c’era tempo per pensarci troppo su, perché si stava avvicinando il momento della verità: la finale Uefa contro la Juventus, la nostra rivincita dopo lo scudetto rubato nel 1982.

LADRI
Commentai la partita di andata a Torino casualmente accanto ad Angelo Caroli, inviato de La Stampa ed ex grande bianconero. Le sue parole alla fine del primo tempo furono: «è incredibile come la Fiorentina non sia in vantaggio di almeno due reti». Aveva ragione, perché avevamo dato spettacolo. Il risultato era di uno a uno per le reti di Galia e Buso, ma Baggio si era presentato due volte solo davanti a Tacconi, fallendo in entrambe le occasioni, lui che quelle reti le segna anche bendato. Non mi è mai passato per la testa che l’abbia fatto apposta perché in procinto di andare alla Juve, ma qualche imbecille ci ha pensato davvero. L’arbitraggio dello spagnolo Soriano Aladren, da me ribattezzato negli ultimi quindici minuti di radiocronaca Soriano A-ladron, fu a dir poco scandaloso nell’assegnazione dei falli, ma il peggio doveva ancora venire.
Nel secondo tempo la Juve segnò un gol viziato da un enorme fallo di Casiraghi su Pin, ma Aladron convalidò lo stesso ed il simpatico Casiraghi disse a Pin: «non te la prendere, sai com’è… Noi siamo la Juve e tutto ci è permesso». Poi fece la frittata Landucci su un tiro al rallentatore di De Agostini e lì in pratica perdemmo la Coppa Uefa. Mentre le squadre rientravano negli spogliatoi Pin urlò ai microfoni Rai un “LADRI!!â€?, che fotografava al meglio la situazione. La telecronaca di Ennio Vitanza, poi, fu a dir poco scandalosa. Nonostante ci fossero in finale due squadre italiane, sembrava che la Fiorentina fosse una formazione tedesca o francese. Tre giorni dopo quella partita mi sposai, e confesso che i veleni e la rabbia di quella notte erano ancora pienamente in circolo.

AVELLINO
A raccontarlo adesso c’è da non crederci. Siccome in semifinale un tifoso (idiota) della Fiorentina era andato a rompere le scatole al portiere del Werder Brema, ci fecero giocare la gara di ritorno in campo neutro. Ci poteva anche stare, applicando rigidamente le regole Uefa, ma quello che fece cascare le braccia fu la scelta della città. Non Roma o al limite Napoli, dove la tifoseria è storicamente anti-juventina, ma Avellino, cioè una delle città più bianconere del mondo. Come a Cagliari otto anni prima preparammo male la sfida: dovevamo recuperare due reti e c’erano state squalifiche importanti per le improvvide dichiarazioni di alcuni viola. Ma soprattutto navigavamo a vista in mezzo al ciclone Baggio. Robertino mi aveva confidato che se ne sarebbe andato alla Juve ed ero rassegnato, speravo però che ci fosse un suo ultimo acuto che ci facesse vincere la Coppa Uefa.
La partita fu molto brutta, colpimmo un palo, giocammo buona parte in undici contro dieci, ma non costruimmo mai azioni davvero pericolose. Negli spogliatoi si respirava un’aria da fine impero: Graziani sapeva di essere sostituito dal brasiliano Lazaroni, sponsorizzato da Dunga, mentre Baggio se ne stava triste in silenzio in un angolo lontano dai compagni. Era il 16 maggio, la stessa data di Cagliari, e ancora una volta la Juve ci aveva fregato, esattamente otto anni dopo. E poi in giro per l’Italia si chiedono come mai a Firenze ce l’abbiamo tanto con la Vecchia Signora…

CIAO ROBERTINO
Il giorno dopo Avellino annunciarono quello che ormai in molti sapevamo: Baggio era stato venduto alla Juve ed aveva già firmato il contratto. Unica (magra) consolazione: come segno di rispetto verso i tifosi viola, non aveva voluto indossare la sciarpa bianconera. Per cercare di fare uscire bene il suo assistito, il procuratore Caliendo si permise di organizzare una conferenza stampa nella sede della Fiorentina all’insaputa dei Pontello, quasi a confermare che era lui in quei giorni il padrone della situazione. Nel pomeriggio successivo, furono gli stessi Pontello a chiamare i giornalisti e fuori, in piazza Savonarola, si radunarono almeno seicento persone. Prima di entrare dentro la sede mi sorpresi insieme a Rinaldo a saltare al grido di «… chi non salta un Pontello è, chi non salta un Pontello è», ma il nostro compito era un altro. Avevamo infatti deciso di trasmettere in diretta la conferenza stampa di Claudio Pontello, spedito allo sbaraglio dalla sua famiglia. Fummo, lo confesso, un po’ truffaldini con chi ci chiedeva cosa diavolo fosse quell’affare nero che Rinaldo teneva in mano vicino alla bocca di chi parlava, ma realizzammo un gran colpo.
Tutta Firenze era infatti sintonizzata su Radio Blu, e quando Claudio Pontello dichiarò bellicoso: «noi comunque rimarremo alla guida della Fiorentina anche per i prossimi anni», udimmo scoppiare da fuori il finimondo. Dentro la sede rimasero tutti senza parole perché non si aspettavano che qualcuno potesse aver sentito la dichiarazione di sfida di Pontello, mentre io facevo finta di niente. La città si rivoltò e ci furono episodi da guerriglia urbana: la polizia dovette intervenire e, incredibilmente, le signore-bene di Firenze dettero “asiloâ€? ai tifosi più esasperati. Tutti volevano che i Pontello vendessero la società, magari al grande produttore europeo Mario Cecchi Gori (il figlio non lo conosceva nessuno, tranne le lettrici di Novella 2000 che tutto sapevano dei suoi amori). Radio Blu finì sulle prime pagine di tutti i giornali ed il Corriere della Sera ci accusò addirittura di aver provocato gli scontri con la nostra diretta. Venne nei nostri studi la Digos e ci chiese la registrazione della cassetta proprio il giorno in cui la Nazionale si radunava a Coverciano, in mezzo agli insulti dei tifosi viola a cui davvero avevano fatto di tutto. Niente comunque in confronto a quello che avrebbero patito dodici anni dopo.

Stavamo andando un po’ tutti in corto circuito, l’approssimarsi del Mondiale aveva generato in Italia una frenesia mai vista. Tutti costruivano e ristrutturavano, qualcuno intascava robuste tangenti. Per ospitare la massima rassegna planetaria furono compiuti autentici scempi architettonici ed anche il glorioso Comunale pagò pegno. Via la pista di atletica, quella del record del mondo sui 1500 metri dell’inglese Coe, e capienza ridotta: tutto questo per che cosa? Per ospitare quattro partite di cui nessuno oggi ricorda niente. Miliardi buttati via, sprecati, regalati. E la Fiorentina? Eravamo in Uefa e soprattutto c’era Roberto Baggio, ormai però accerchiato da Milan e Juventus. La Stampa, il giornale di casa Agnelli, aveva addirittura un inviato fisso a Firenze, Franco Badolato, e nessuno pensò che fosse venuto da noi per seguire le prestazioni di Dertycia e Volpecina.

UN CAMPIONE DI NOME SCIREA
Si può essere anti-juventini nelle viscere, ma rimanere lo stesso pietrificati quando accadono disgrazie stupide ed immani come quella di Scirea. L’avevo intervistato qualche volta ed era sempre stato di una gentilezza unica, l’opposto di gente come Bettega o Furino. La settimana prima di partire per la Polonia, dove sarebbe morto in un incidente stradale, Scirea era stato spedito dall’allenatore bianconero Zoff a Pistoia per Fiorentina-Como di Coppa Italia, una partita in cui i viola si qualificarono solo dopo il diciassettesimo rigore. Mancavano un paio di minuti al collegamento iniziale quando Scirea venne verso la nostra postazione per chiedere cortesemente se potevamo fargli leggere la formazione. Rimase lì per tutta la gara, scambiammo due parole nell’intervallo, ci confessò che Baggio era un obiettivo della Juve, salutò educatamente e se ne andò. Quattro giorni dopo dettero in diretta la notizia della sua morte alla Domenica Sportiva e Tardelli, che era ospite, scoppiò a piangere disperato. La settimana successiva Juventus-Fiorentina si giocò eccezionalmente di mercoledì sera in un clima irreale e non fu una normale partita di calcio, ma un tentativo di rimozione di un dolore che apparteneva a tutti gli sportivi italiani.

LA CHIAVE DI VOLTA
Dopo un mese c’era già chi si prendeva la briga di contare quante volte Bruno Giorgi infilava “la chiave di voltaâ€? nei suoi discorsi. Nei momenti di maggiore tensione le chiavi si moltiplicavano e diventavano, otto, dieci, quindici, solo che al contrario di quelle di San Pietro le chiavi di Giorgi non aprivano la porta di nessun Paradiso. Al contrario, ci portavano verso l’Inferno calcistico. Presentato come uno dei più grandi allenatori italiani, Giorgi godeva di un piccolo credito in più: aveva avuto la fortuna di allenare Roberto Baggio ragazzino a Vicenza. Bisognava essere davvero ciechi per non accorgersi del suo talento, però un po’ tutti c’eravamo fatti l’idea che per Robertino fosse il tecnico ideale. Tesi che mi venne smentita dal diretto interessato dopo poche settimane di campionato. La Fiorentina di Giorgi era bruttissima sul piano spettacolare. E’ vero che Borgonovo era stato sostituito dal modesto Dertycia (che segnò solo quattro reti, si infortunò e perse poi tutti i capelli per un esaurimento nervoso), ma con Baggio, Dunga, Battistini ed il lento Kubik, qualcosa di più si poteva pure pretendere. E almeno fossero arrivati i risultati…
L’unica eccezione era la Coppa Uefa, con passaggi di turno rocamboleschi, sofferti e per questo ancora più belli. Tutte le partite “europeeâ€? vennero giocate a Perugia, come se non bastassero le normali difficoltà di una squadra che viveva solo sulle giocate di Baggio. Il primo avversario sembrava impossibile: l’Atletico Madrid di Futre. Al Vicente Calderon di Madrid Landucci fece i miracoli, la Fiorentina rimase in dieci per l’espulsione di Di Chiara e riuscì a limitare i danni perdendo solo per uno a zero. Nel ritorno segnò Buso, che la Juve ci aveva dato in prestito come “caparraâ€? per Baggio, e ai rigori passammo noi, ancora una volta grazie ad uno strepitoso Landucci.

BAGGIO CONTRO TUTTI
La “chiave di voltaâ€? della stagione fu la partita di Napoli. Là dove otto anni prima Antognoni aveva segnato la rete del possibile scudetto, Baggio inventò il gol più incredibile che abbia mai visto: scartò tutti partendo da centrocampo e depositò il pallone nella stessa porta dove era finito il tiro del suo vecchio capitano. Una galoppata entusiasmante, con il San Paolo in piedi ad applaudire. Poi Robertino segnò ancora su rigore e lì la Fiorentina smise di giocare. Nel secondo tempo il Napoli ributtò nella mischia un imbolsito Maradona, che non fece niente. Perdemmo lo stesso tre a due e nel dopo gara realizzai la mia unica intervista a Re Diego. «Rendo omaggio ad un nuovo grande talento del calcio Mondiale, si chiama Baggio», mi soffiò al microfono prima di essere inghiottito dalla sua gente. E Baggio l’avevamo noi: più andava su e più morivamo dalla voglia di non farlo scappare.

I BALLETTI DI KIEV
In Coppa Uefa succedeva invece qualcosa di strano, si giocava male, ma si andava avanti lo stesso tra mille peripezie. A Socheaux Faccenda tentò di togliere dal mondo un avversario con un’entrata assassina, venne espulso e resistemmo in dieci. Poi venne sorteggiata la Dinamo di Kiev e fu tutto un amarcord con la qualificazione in Coppa dei Campioni di venti anni prima. All’andata segnò Baggio su rigore e partimmo per l’Ucraina con tutti i pronostici contro.
La radiocronaca a Kiev fu un vero azzardo, Rinaldo non era d’accordo nel tentare di farla, ma mi imposi e tentammo l’allacciamento del telefono. Era dicembre, il termometro segnava meno venti, ma una volta arrivati all’albergo che ci ospitava non fu certo il clima l’oggetto delle nostre conversazioni. E nemmeno la tattica o la probabile formazione. Ad accoglierci c’erano infatti una decina di bellissime ragazze, tutte sotto i venticinque anni, che avevano certamente saputo dell’enorme valore letterario dei “compagni giornalistiâ€? arrivati dall’Italia. Non si spiegherebbe altrimenti la disponibilità mostrata nei nostri confronti, una disponibilità che si manifestò in mille modi, tutti estremamente graditi. E fu in quei freddi giorni in Ucraina che per una volta l’emittenza locale batté nettamente il servizio pubblico…
Riuscii miracolosamente a fare tutta la radiocronaca, mentre alla Rai la linea saltava di continuo. Il mio segreto furono otto banconote da dieci dollari che ad intervalli regolari allungavo alla funzionaria del partito addetta ai telefoni. Sul campo ghiacciato Baggio dette spettacolo e colpì anche un palo. Tutta la squadra giocò benissimo e passammo il turno pareggiando per zero a zero. Tornammo a Firenze alle sei del mattino, distrutti dalla stanchezza e con dei ricordi incancellabili.

LA PREMONIZIONE
Ammetto che sia stato un colpo di fortuna, però bisognava provarci! Ed io non lo avevo mai fatto prima di quel fatidico 15 gennaio 1989. Eravamo sull’uno a uno del “solitoâ€? storico incontro casalingo contro la Juve, con i gol di Rui Barros e rigore di Baggio. Allo scadere Robertino va a battere un calcio d’angolo e a me viene fuori di getto una frase buttata lì: «angolo per la Fiorentina, ultima occasione, va alla battuta Baggio. Il sogno dei fiorentini è segnare al novantesimo contro la Juventus, siamo in effetti al novantesimo, parte l’angolo di Baggio, intervento e… gol della Fiorentina! Ha segnato Borgonovo!». Cross, deviazione di Battistini, gol di Borgonovo. Fantastico, uno stadio che esplode, una torcida viola. Salto come un grillo dal mio pertugio in tribuna laterale e sento là sotto un vecchio tifoso urlare: «che goduria, è molto meglio che tr……». «Parla per te», gli risponde il giovane manager lampadato, con a fianco la classica biondona mozzafiato. Si abbracciano ridendo.
Lì per lì non mi ricordavo nemmeno di quello che avevo detto prima della rete, solo a fine partita, nel risentire l’azione, mi resi conto di averci azzeccato. Ho sempre avuto un grande rispetto per quel momento magico e così ho cercato di evitare certe frasi preparatorie. Sono passati interi campionati senza che fossi preso dalla tentazione, solo nell’anno della prima retrocessione un paio di volte ci provai con poca convinzione, sperando però che gli dei del calcio mi ascoltassero e facessero la grazia. Purtroppo non servì a niente e non segnammo.

IN GINOCCHIO DAL CONTE
Il 22 gennaio 1989 si gioca a Lecce, si parte in aereo il giorno prima e la Fiorentina, bontà sua, imbarca anche i cinque giornalisti al seguito. Ci sono anch’io, unico rappresentante dell’emittenza radiotelevisiva locale, una condizione particolare che è durata una decina di anni. Incredibile ma vero, stavolta c’è con noi pure il Conte Flavio, forse ringalluzzito dalla vittoria contro la Juve della precedente domenica. Mi faccio coraggio e ritento l’intervista negata sei anni prima, ai tempi della contestazione in tribuna durante Fiorentina-Verona. Stavolta sa chi sono, mi dice che le radiocronache io non le potrei fare, ma che in fondo è meglio così, perché lui si diverte molto ad ascoltarmi, anche quando sparo a velocità supersonica le pubblicità.
«Ma come fai a dirle così in fretta?»
«Non so Conte, ormai sono abituato… Vorrei chiederle qualcosa sulla Fiorentina, posso?»
«Se vuoi, ma non mi piacciono troppo le domande».
Intimorito dal tono burbero del Conte e quasi commosso dal fatto che Flavio Pontello sprecasse una fetta del suo prezioso tempo a sentire le mie radiocronache, infilo una di quelle interviste stile inginocchiatoio che neanche Gigi Marzullo nei suoi momenti peggiori (cioè sempre) sarebbe riuscito a costruire. Non gli chiedo niente del contratto di Baggio e neanche accenno a quelle voci sull’interessamento all’acquisto della società da parte del famoso produttore cinematografico Mario Cecchi Gori. La domanda più insidiosa è: “quanti soldi ci ha rimesso la famiglia Pontello con la Fiorentina?â€?. Che coraggio! Che uso spregiudicato del microfono! Roba che se oggi uno dei giornalisti a Radio Blu mi portasse un’intervista del genere, verrebbe additato al pubblico ludibrio e messo in purga per almeno un mese. Venni salvato dalla mia stessa ignoranza: non sapevo che dentro l’aereo ci vogliono microfoni particolari e poiché la mia “intervista in esclusiva al Conteâ€? era stata registrata con un semplice Sony da quarantamila lire, tutto ciò che io e Pontello ci eravamo detti era stato coperto dal rumore di fondo. Persi uno scoop, ma non ci rimisi la faccia.

QUESTA E’ LA STORIA DI UN MERCENARIO…
Cominciava così la canzone che la curva Fiesole intonò il giorno del ritorno di Berti da avversario a Firenze. Il passa parola della vigilia aveva funzionato alla grande, il mio amico Riccardo Bellini girava per Firenze addirittura con i fogli ciclostilati del testo e tutti in curva erano pronti per la contestazione in grande stile. E anche il resto dello stadio si produsse in bordate di fischi ogni volta che Berti toccava il pallone. Per la cronaca il motivetto continuava così: “… che gioca solo pensando all’onorario, lui non ha cuore, lui non ha orgoglio, lui gioca solo pensando al portafoglio. Ogni domenica gioca a Milano, Nicola Berti l’hai fatto per il granoâ€?, e via a seguire.
Nell’estate precedente Berti si era rifiutato di allungare il contratto in scadenza nel 1989 con la Fiorentina perché si era già messo d’accordo con l’Inter. Per lo stesso motivo aveva detto no al Napoli di Maradona, che avrebbe garantito ai viola un’ottima contropartita tecnica ed economica. Alla fine del mercato del 1988, Fiorentina ed Inter riuscirono a trovare un accordo, ma il popolo viola se la legò al dito. Berti fu sorpreso e annichilito dai fischi e dopo trenta minuti pessimi Trapattoni, che quell’anno avrebbe vinto il suo ultimo scudetto italiano, decise che poteva bastare, e lo tolse dal campo. Fu una grande vittoria del pubblico e poi anche della Fiorentina, che si impose per 4 a 3 al termine di una gara rocambolesca, condita da un madornale errore difensivo di Bergomi, che regalò al solito implacabile Borgonovo la palla del quarto gol viola.
Il Berti semplice che avevo conosciuto a Firenze cambiò completamente in poco tempo, diventando un’altra persona. Mi capitò di incontrarlo un anno dopo a San Siro fuori dalla sala stampa e neanche rispose al mio saluto. Si era montato la testa o forse, chissà, si era legato al dito quell’accoglienza fiorentina, che si è puntualmente ripetuta ogni volta che ha messo piede al Comunale.

SPAREGGIO
Nel finale di stagione la Fiorentina dilapidò il vantaggio che aveva sulle concorrenti Uefa e fu costretta a ricorrere allo spareggio con la Roma di Liedholm. C’era stata una pessima gestione dell’affare Eriksson, perché i Pontello non lo volevano più, salvo poi ripensarci quando ormai il tecnico svedese aveva dato la sua parola al Benfica. Seguirono giorni grotteschi, con la Firenze calcistica a pregare Eriksson perché rimanesse per il terzo anno in viola. A metà aprile venne convocata una conferenza stampa in cui Sven Goran ribadiva il suo no. In pratica un’anteprima del corto circuito mediatico andato in scena tredici anni dopo con Terim, Sconcerti e Cecchi Gori, solo che stavolta tutto fu gestito molto meglio.
Lo spareggio di Perugia venne deciso da un gol di Roberto Pruzzo, preso a novembre e mai a segno in campionato, ma il vero protagonista della gara fu Landucci, che parò tutto. Alla fine della partita, con la Fiorentina in Uefa e ventimila romanisti beffati, come a Pisa tre anni prima qualcuno pianse. Si vede che è un destino dei passaggi in Europa. Stavolta le lacrime erano di Stefano Carobbi, ceduto proprio ai rossoneri di Arrigo Sacchi, suo vecchio maestro delle giovanili viola.
E il nuovo tecnico? «Non c’è problema – ci disse trionfante il direttore sportivo Nardino Previdi – abbiamo preso il migliore sulla piazza, Bruno Giorgi. Lo abbiamo rubato alla Roma, con cui stava per accordarsi». Accidenti, un grande colpo. Soprattutto per la Roma, che evitò di poco di averlo in panchina.

1988/89
Le nostre radiocronache proseguivano fra una fuga ed una prolunga, mentre non si era ancora capito cosa volesse fare da grande la Fiorentina. Nel cuore e nella testa di tutti cresceva a dismisura Roberto Baggio. Fu negli ultimi mesi del 1988 che scoppiò definitivamente l’amore con Firenze. Non c’era fiorentino a cui Baggio non piacesse. Ai giovani perché era un ragazzo semplice di ventun anni che condivideva le loro stesse passioni, a quelli un po’ meno giovani perché mai avrebbero sperato nella loro vita calcistica di ritrovare così presto un altro grandissimo giocatore con la maglia numero dieci. Incuriosiva sapere che si stava avvicinando al buddismo, le donne impazzivano per lui. C’era chi lo trovava tenero e chi irresistibile per via degli occhi verdi. Robertino deluse tutte le ammiratrici sposandosi giovanissimo con Andreina, l’amore di sempre. Gli unici che restarono immuni da questa passione collettiva furono i Pontello, che comunque gli rinnovarono il contratto fino al 1992 a mezzo miliardo netto l’anno. Ma se per caso qualcuno avesse voluto fare una pazzia per portarselo via…

IL FATTORE D
Carlos Caetano Verri Bledorn, detto Dunga, fu acquistato dalla Fiorentina quasi per caso, nell’intricatissimo affare Socrates, e tenuto in Brasile per tre anni a farsi, come si dice, le ossa. Poi, nel 1987, Anconetani fiutò l’affare e se lo fece dare in prestito per il suo Pisa, che grazie soprattutto a lui riuscì a salvarsi. Quando l’anno successivo arrivò a Firenze, Dunga era ormai un calciatore maturo e completo, un centrocampista stile Oriali, forse con un pizzico di dinamismo in meno. Ma soprattutto aveva una personalità fortissima: “ringhiavaâ€? ai compagni di reparto, li rimproverava platealmente per un errore, era un leader nato.
Se guardo alla storia degli ultimi quindici anni in viola, ammetto di non aver mai avuto un rapporto semplice con i cosiddetti capi dello spogliatoio. Per meglio dire: all’inizio tutto fila liscio, ci si annusa, ci si stima, poi ad un certo momento scatta qualcosa che ci allontana, ci rende sospettosi, ci fa entrare in guerra. E’ successo con Dunga, con Batistuta, in parte con Rui Costa, solo con Di Livio è andata molto meglio. Probabilmente è colpa mia, lo riconosco. Può darsi che non sia abbastanza attento nel riconoscere la leadership del campione, che non mi piacciano certi suoi comportamenti, quando invece lo spogliatoio di una squadra non solo li tollera ma ne ha addirittura bisogno. Poi arrivano i tirapiedi ed i ruffiani di turno ad avvelenare i rapporti e a quel punto la situazione non la recuperi più, salvo rarissime eccezioni, come è accaduto per fortuna con Rui Costa.
Le cose fra me e Dunga comunque andarono benissimo fino all’arrivo prima di Lazaroni e poi di Batistuta, che il brasiliano di fatto osteggiò nei suoi primi mesi fiorentini. Fino al 1991 non ci furono problemi, ed essere amico di Baggio rappresentò un buon lasciapassare per diverse interviste in esclusiva, perché i due avevano lo stesso procuratore (Caliendo) ed erano l’anima della Fiorentina, in campo e fuori.

DIVERTIMENTO
Sì, quella Fiorentina divertiva. Eriksson aveva perfezionato il meccanismo, esaltando finalmente le giocate di Baggio che aveva in Borgonovo un interlocutore capace – anche più di Diaz, imprestato all’Inter – di parlare lo stesso linguaggio tecnico. La campagna acquisti era stata intelligente, a cominciare da Dunga. Il povero Enrico Cucchi, stroncato da un tumore pochi anni dopo, fu fondamentale per l’assetto del centrocampo, Carobbi e Battistini non persero un colpo, Landucci si mostrò degno di stare tra i primi cinque portieri italiani. Da Como arrivò il livornese Mattei, un faticatore della fascia destra molto estroverso. A volte persino troppo, tanto che, pensando a lui, Dunga fece affiggere nello spogliatoio il seguente cartello: “prima di azionare la bocca, accertarsi che sia inserito il cervelloâ€?.
Era una buona Fiorentina, ancora una volta più a proprio agio in casa che in trasferta. Soprattutto accontentava un pubblico di buongustai del calcio com’è quello viola e pazienza se certe ingenuità collettive trasformarono in pareggi partite già vinte.

LA REPUBBLICA DEI SOGNI
Ci fu un periodo nella prima metà degli anni ottanta in cui tutti i giovani che leggevano i giornali ed erano anche vagamente orientati a sinistra si innamorarono perdutamente di “Repubblicaâ€?. Se poi uno aveva anche la fregola di voler fare il giornalista, la miscela diventava micidiale, tanto da trasformare nomi e cognomi di giornalisti in veri e propri idoli. Nel mio piccolo la stella cometa delle letture quotidiane era il fiorentino Mario Sconcerti e quando scoprii che era un affezionato ascoltatore delle mie radiocronache quasi caddi in deliquio.
Nell’autunno del 1988 arrivò non inattesa la notizia destinata a trasformare uomini e donne perbene in affannati cercatori di posti di lavoro, gente pronta ad accoltellarsi per una firma: apriva la redazione toscana di Repubblica e stavano “facendo le scelteâ€?. Avevo poche esperienze nei giornali e tutte un po’ datate. Per sei anni avevo scritto di sport diversi dal calcio sul Tirreno, avevo collaborato a La Città, ogni tanto firmavo qualche articolo sui giornali che vengono distribuiti gratuitamente allo stadio. Ad una partita di Coppa Italia venni presentato a Sconcerti e gli chiesi immediatamente di collaborare. «Non c’è problema – mi rispose – chiamami in settimana». Lo chiamai e mi dichiarai pronto ad immolarmi alla causa di Repubblica. Potevo benissimo lasciare il mio sudato posto fisso di lavoro (mamma Cassa di Risparmio di Firenze, mai ringraziata abbastanza per la pazienza avuta in questi anni), abbandonare tutto ciò che stavo facendo, a parte la radiocronaca, per trasferirmi notte e giorno nelle stanze di via Maggio a 200.000 lire al mese. E se erano troppe potevano pure trattare sul prezzo. Ero chiaramente partito di cervello, ma Repubblica era il mio sogno, la mia nuova frontiera e solo per questo merito qualche giustificazione postuma.
Sconcerti freddò i miei bollenti spiriti mettendomi sotto l’ala protettrice (si fa per dire) di Massimo Calvino, nipote guarda caso del famoso Italo, che mi commissionò una faticosa inchiesta sulle piscine a Firenze. Cominciai a girare per la città, scrivendo tutto su tariffe e orari fino a consegnare tutto orgoglioso il mio bel compitino. «Se ne occupa Sandrelli», mi disse Calvino. Rimasi un po’ deluso, ma non sapevo ancora quello che il destino mi aveva riservato.
Massimo Sandrelli lo avevo conosciuto alla Città, quando gli consegnavo interviste un po’ scolastiche sul Prato, e non avevo con lui alcuna familiarità. E nemmeno la ebbi nelle due settimane successive al “dirottamentoâ€? di Calvino. Lo chiamavo due, tre volte al giorno, ma lui o era in riunione o appena andato via. Una sera, sfidando me stesso, gli telefonai a casa perché il mio bellissimo pezzo sulle piscine “meritava di essere pubblicatoâ€?. In tutti i modi. Se devo dire la verità, non fu freddo. Fu gelido, ed io rimasi inebetito con la cornetta in mano per un paio di minuti a darmi del cretino. A quel punto non mi rimaneva che una soluzione: Sconcerti.
Alla decima telefonata in redazione, mi fa la grazia di accettare il colloquio. Io gli sparo tutta la mia rabbia per il trattamento subito, gli racconto le angherie di Sandrelli e lui risponde: «ti rendi conto che per parlare con te io sto perdendo parte del mio tempo? Sai con chi ero al telefono prima? (Se lo avessi saputo sarei stato uno straordinario sensitivo e forse mi avrebbero assunto a Repubblica) Con Spadolini! E tu mi rompi i cog… con queste storie, se Sandrelli ha agito così avrà avuto i suoi buoni motivi». Clic. Durata della conversazione: 135 secondi. Durata dello shock: tre settimane.
Un mese dopo portai i resti della mia inchiesta a La Nazione, che non pubblicò niente. Ma qualche tempo più tardi mi chiesero di scrivere qualcosa sul pugilato ed il canottaggio a Firenze. E nel 1994 ritrovai Sandrelli come direttore a Canale Dieci. Parlammo per un’ora e ci chiarimmo. Capii che non gli era piaciuto che lo avessi scavalcato e fossi andato direttamente da Sconcerti. Ci giurammo lealtà assoluta nei rapporti e abbiamo sempre mantenuto la promessa.

IL SIGNOR GLENN E MISS HYSEN
E’ la stagione in cui cominciano le mie prese di posizione. Nette e a volte, lo ammetto, esagerate. Ad inaugurare la serie fu lo svedese Hysen, pupillo di Eriksson e da lui sempre schierato nonostante chiari limiti dinamici. Secondo me era molto più adatto Pin a giocare in coppia con Battistini, inventato dal tecnico svedese centrale difensivo, e non perdevo occasione per ribadirlo. Pin era anche uno dei giocatori con cui avevo maggiore familiarità, ma proprio per questo mi sforzavo di essere con lui più realista del re e non gli perdonavo niente. Restava comunque, secondo me, superiore al collega svedese, almeno nel campionato italiano. Eriksson sopportava con anglosassone rassegnazione la mia vis polemica, mentre non avevo notizie di come stesse reagendo Hysen, contro cui peraltro non avevo niente di personale.
Il nostro primo incontro ravvicinato avvenne a dicembre, durante una festa di un viola club e lì venni folgorato da una visione paradisiaca. Si trattava della splendida signora Hysen, che si avvicinò e mi disse gentilmente in un misto di italiano ed inglese: «lei è quel signore che alla radio parla sempre male di mio marito, vero?»
«Ma no signora, che dice? Insomma, non è che ne parli male, credo solo che abbia delle difficoltà ad adattarsi al calcio italiano. Ci vuole tempo, anche Maradona, Platini e Rumenigge (ero stato basso con i paragoni!) hanno impiegato sei mesi per capire come si gioca da noi…»
«Lei può dire quel che vuole, ma si ricordi che Glenn è da anni titolare fisso della Nazionale svedese»
«Vedrà signora che le cose miglioreranno e che la difesa viola diventerà una delle più forti del campionato»
Durante quei centoventi secondi di contatto ravvicinato avrei potuto dire di tutto, perfino che Passarella era una pippa di fronte a Glenn, il più straordinario giocatore mai visto a Firenze. Una volta tornato in me, continuai ad esercitare il diritto di critica. Hysen col tempo si adattò meglio al calcio italiano, ma ogni tanto sbagliava partita ed io gli ammollavo, implacabile, qualche insufficienza. Con la segreta e vana speranza di essere convocato in separata sede dalla signora per una dura e vibrata protesta.

ADDIO BARETTI
Non facemmo in tempo ad affezionarci alla professionalità di Pier Cesare Baretti, un uomo preparatissimo che conosceva come pochi il calcio in tutti suoi aspetti. Poiché era stato per anni direttore del torinese e filo-juventino Tuttosport, all’inizio venne guardato con sospetto dai tifosi, ma seppe poi conquistare l’ambiente viola. Fu sua la geniale intuizione di affidare i preziosissimi muscoli di Baggio alle cure del professor Vittori, l’uomo che aveva costruito il fenomeno Mennea. E dobbiamo sempre a Baretti la decisa opposizione all’idea di Eriksson di mandare Robertino a farsi le ossa in provincia. Come tutti i tifosi viola seppi della sua scomparsa dalla televisione nell’intervallo di una partita della Nazionale in Portogallo, il 5 dicembre 1987. In un primo tempo dettero per disperso l’aereo su cui viaggiava, ma si capì dopo poche ore che non c’erano speranze di trovarlo vivo. In quei mesi Baretti si stava dedicando alla riorganizzazione della società, con un occhio particolare al famoso e mai realizzato centro sportivo di Santa Brigida, per il quale erano state emesse delle obbligazioni immediatamente sottoscritte dai generosi tifosi viola. In segno di lutto il giorno dopo Radio Blu annullò per 24 ore la propria programmazione.

A DUE VELOCITA’
L’improvvisa e tragica scomparsa di Baretti poteva rappresentare una buona occasione per i Pontello per tornare in prima linea. Il politico della famiglia, Claudio, sarebbe anche stato favorevole ad assumere la presidenza, ma colui che contava più di tutti, cioè Flavio, disse di no e non se ne fece di niente. Fu così che per il ruolo di presidente venne scelto un altro uomo proveniente dal palazzo del calcio: Lorenzo Righetti, ex arbitro e altissimo dirigente della Federazione.
Intanto la squadra di Eriksson andava molto bene in casa e male in trasferta, dove venivano fuori amnesie difensive a stento mascherate dall’ottima stagione di Landucci, che alla fine venne convocato da Vicini per la Nazionale agli Europei e tenuto “in caldoâ€? in Italia come terzo portiere. Al di là del signore e della signora Hysen, anche gli altri acquisti sembravano poco indovinati a cominciare da Rebonato, cannoniere l’anno prima in serie B, arrivato in maglia viola in coppia con Bosco. Rebonato aveva segnato fra i cadetti ventuno reti, ma era fragile caratterialmente e non resse all’impatto con Firenze. Nonostante un gol alla Juve, venne velocemente retrocesso fra le riserve e a fine stagione se ne andò. L’ottavo posto finale era da considerarsi mediocre, ma proprio all’ultima giornata arrivò il secondo acuto della stagione.

ULTIMO TANGO A TORINO
Chi l’avrebbe detto che il successo del 15 maggio 1988 sarebbe stato per chissà quanti secoli l’ultimo a Torino contro la Juve? Stavolta, al contrario del 1985, loro tenevano molto alla gara perché si giocavano la qualificazione Uefa, ma prima Di Chiara e poi uno strepitoso numero di Baggio stesero i bianconeri di Marchesi, costretti quindi allo spareggio contro il Torino. Giocammo poi altre tre gare al Comunale, fra cui la finale Uefa del ’90, e undici al Delle Alpi con lo sconsolante bilancio complessivo di due pareggi e ben dodici sconfitte.

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