La mia voce in viola


1997/98
La voglia di novità aveva preso il sopravvento su tutto. La scopa nuova, si sa, pulisce molto meglio di quella vecchia, e così tutto quello che faceva Malesani ci sembrava straordinario. Com’era sorpassato Ranieri, con il suo brutale buonsenso e la sua proverbiale freddezza. «Facci l’ultimo miracolo: sparisci!», scrissero (ingenerosi) i tifosi su uno striscione, e furono davvero in pochi a rimpiangerlo nel momento dell’addio. Sandrelli intanto era diventato anche responsabile delle relazioni esterne della Fiorentina e, incredibile ma vero, era arrivato perfino un addetto stampa. L’inevitabile scelta era caduta su Vincenzo Macilletti, da anni raccoglitore degli umori presidenziali, dentro e fuori la telecamera. Rimasto a spasso dopo la chiusura di Teleregione, sponsorizzato da Rialti e dalla Righini, Macilletti è stato in verità più un addetto dei giocatori, soprattutto di Batistuta e Rui Costa, ma non ha mai fatto danni particolarmente gravi.
Dopo quattro anni di penitenze a Roccaporena, la Fiorentina tornò in ritiro in Toscana, ad Abbadia San Salvatore, e fu lì che conobbi per la prima volta Alberto Malesani, Alby per gli amici.

LA GUERRA
L’inizio del conflitto con Alby è di uno stupido, che più stupido non si può. Ottobre 1997, Morfeo chiede di andarsene al Lecce del suo antico maestro Prandelli, e Malesani viene in sala stampa a commentare la vicenda. Maledettamente Ceccarini si dimentica la cassetta e così rimaniamo senza le parole del tecnico, che viene comunque interpellato telefonicamente per mandare gli auguri a Kanchelskis, infortunatosi in settimana. Per rimediare alla mancanza dell’intervista su Morfeo, chiedo a Malesani di commentare in diretta le parole del suo giocatore e lo sento scocciato e sbrigativo. La settimana dopo vado al campo per fissare quando sarebbe venuto in radio per un’ora di programma e mi risponde che lui era già stato nostro ospite, che ne avremmo riparlato semmai nella stagione successiva. Faccio notevoli sforzi per non arrabbiarmi e chiedo a Cinquini di intercedere. Niente da fare. Malesani è incavolato nero perché si è sentito messo in trappola con la storia della domanda a sorpresa su Morfeo. Incasso masticando fiele il definitivo rifiuto, e attendo che il “nemico” passi sulla riva del fiume. L’occasione me la dà l’indimenticabile Edmundo, che Malesani, a dispetto della sua classe purissima, impiega col contagocce per non alterare gli equilibri della squadra. La Nazione mi affida un’inchiesta sul brasiliano, e fra i pareri raccolti ce n’è uno di Chiarugi, allora fuori dalla Fiorentina, ma sempre a libro paga, piuttosto critico sull’operato del tecnico. Lascio inalterato il senso del discorso e forzo leggermente sulle parole. Il pomeriggio dopo mi chiama Luciano e mi chiede se posso andare al campo di allenamento per spiegare a Malesani che lui quelle cose lì non le aveva dette.
«Come Luciano non le avevi dette? Ti ricordi quello che hai dichiarato?»
«Sì, David, io sono dalla parte di Edmundo e di Cecchi Gori (che spingeva per vederlo in campo), ma non volevo attaccare Alberto, che è arrabbiato nero con me. Cerca di capirmi…».
Lo capisco e mi presento ai campini, dove accade un fatto storico nella carriera di Malesani: per la prima volta in quindici anni di panchina lascia la conduzione dell’allenamento al suo vice Malatrasi e si apparta con me e Chiarugi. E’ livido di rabbia.
«Allora, come sta questa cosa dell’intervista?»
«Beh, è vero, ho appesantito le parole di Luciano, che non ti voleva mettere sotto accusa»
«Ti devi vergognare per il male che fai alla Fiorentina. Vergogna, vergogna, vergogna!».
Ho sempre avuto il rammarico di non avergli risposto che «vergogna, vergogna, vergogna!» avrebbe dovuto gridarlo a quella santa donna di sua madre. Rimasi invece in silenzio sotto lo sguardo interrogatorio del migliaio di tifosi presenti all’allenamento e della ventina di colleghi che aspettavano a pochi metri da noi.
Da quel momento le cose precipitarono. Malesani fece chiaramente capire a Luna che la mia presenza a Canale Dieci non era affatto gradita, io sfogai la mia rabbia in lunghi e ripetitivi attacchi radiofonici che determinarono tra noi una frattura sempre più profonda. Chiamai addirittura Ranieri e gli dissi: «scusami Claudio, noi abbiamo avuto dei dissapori e sono stato contento quando te ne sei andato, ma non sapevo cosa stava per succedermi».
Sbagliammo tutti e due: esagerai io ed esagerò lui, lo abbiamo capito tre anni più tardi. Fu Mino Malatrasi, con cui avevo avuto un violento scontro al loro primo anno di Parma, a fare da paciere. Si era già scusato qualche mese prima per il suo comportamento, e quando lo chiamai per fargli i complimenti per il nuovo ingaggio a Verona, mi disse: «perché non telefoni ad Alberto, gli farebbe piacere…»
«Ma sei sicuro? Guarda che non ci parliamo da anni»
«Vai tranquillo, abbiamo nostalgia di tutto ciò che abbiamo vissuto a Firenze, anche delle litigate con te».
Sembrava che fossimo stati a cena insieme la sera prima, il ghiaccio era sciolto e poi, mi dicono, lui è molto cambiato. Forse il terribile incidente che ha avuto in auto, forse perché si invecchia tutti, chissà.

SOLO ATTACCANTI
Batistuta, Oliveira, Edmundo, Morfeo, Robbiati, Dionigi, Kanchelskis, più Baiano ad allenarsi a parte: bastano come potenziale offensivo di una squadra che non doveva neanche giocare le coppe europee? La sindrome cecchigoriana di onnipotenza che ci avrebbe portato alla distruzione cominciò ad avvertirsi proprio nell’ossessiva ricerca dell’attaccante. A Vittorio piacevano le punte, c’era forse qualcuno che poteva contraddirlo? E così succedevano cose curiose, tipo il misterioso ingaggio di Morfeo, in pratica il clone di Robbiati, che l’anno prima era stato decisivo con i suoi undici gol. Meno male che il modulo tattico di Malesani contemplava almeno tre attaccanti, che però dovevano tornare a centrocampo. Quando arrivò Edmundo, se ne fregò degli schemi del tecnico e si mise a giocare come se fosse ancora sulla spiaggia di Copacabana. Figurarsi se i fiorentini non si innamorarono subito di uno che valeva tecnicamente almeno quanto Rui Costa, solo che, non correndo a coprire, aveva più fiato negli ultimi trenta metri. Al ventesimo dribbling in allenamento Malesani lo mise in panchina e da lì, malinconicamente, Edmundo cominciò la sua breve avventura italiana.

IL RICATTO
Cominciavano intanto ad arrivarmi strani segnali di inquietudini sul versante Cecchi Gori. Alla prima partita in casa di campionato mi venne negato il solito passaggio per le interviste in tribuna d’onore, i suoi fedelissimi mi guardavano sempre di più in cagnesco. Cosa fosse successo lo scoprii qualche giorno più tardi. Qualcuno, credo Poggi, aveva snocciolato a Vittorio i nomi dei collaboratori del Pentasport, e fra questi c’era chi il presidente non gradiva affatto. Il solito Frati, Aldo Agroppi e, chissà mai perché, Manola Conte. Cominciarono quindi delle pressioni più o meno velate perché li eliminassi. Ero di fronte ad un bivio: Cecchi Gori ci faceva molto comodo perché le sue interviste in esclusiva con noi andavano su tutti i giornali, e poi c’era sempre la storia delle radiocronache “fuorilegge”, ma accettare il diktat avrebbe voluto dire consegnarsi manie piedi a Vittorio e al suo gruppo.
Dissi di no, ribadii che Frati, Agroppi e Manola avrebbero continuato a parlare a Radio Blu e mi preparai a subire le conseguenze, che non tardarono ad arrivare. Venne infatti messa su in quattro e quattr’otto una radio concorrente, che prima chiese di ingaggiarmi e poi mi fece la guerra organizzando una trasmissione che andava in contemporanea su Canale Dieci. Fu un periodo caotico, ma alla fine l’insuccesso dell’operazione fu palese. Le frequenze di quella radio, che avrebbe dovuto trasmettere sempre e comunque notizie sulla Fiorentina, vennero vendute ad un network nazionale e Vittorio tornò spesso a parlare solo con me. Purtroppo.

FURTO A SAN SIRO
Ci presentammo a Milano contro l’Inter a punteggio pieno, appaiati a loro in testa alla classifica. La voglia di primato e di paragoni era così alta che azzardai su La Nazione un impossibile raffronto tra Amoroso e Ronaldo, nati ad un solo giorno di distanza l’uno dall’altro. Malesani, lavorando ossessivamente sulla tattica, aveva costruito un’ottima squadra: tutti sapevano cosa fare e la condizione atletica, almeno a settembre, era brillante.
Il fattaccio avvenne al trentaseiesimo del primo tempo, quando West fece un’entrata folle su Kanchelskis. Roba da stroncargli la carriera e non a caso da quel giorno “Cancello”, come lo chiamavamo a Firenze, non fu più lui. Graziano Cesari, “l’arbitro alla lampada” che adesso sproloquia contro il gioco duro ogni settimana dai canali Fininvest, tirò fuori fra l’incredulità generale solo il cartellino giallo. Passammo lo stesso in vantaggio per due a uno, ma poi l’Inter pareggiò e a otto minuti dalla fine un disgraziato passaggio all’indietro di Batistuta mandò in gol Djorkaeff. Già il pareggio sarebbe stato stretto, figuriamoci la sconfitta. Le illusioni di primato si infransero in quel luminoso pomeriggio autunnale e arrivarono in fila altri due rovesci che resero la posizione di Malesani molto poco stabile.

BISTRITA
Mai visto in vita mia un posto così desolante. A distanza di sette anni dalla “mitica” trasferta di Kiev, tornavamo all’Est, ma che differenza! Le ragazze che scaricarono davanti al nostro albergo non profumavano affatto di erotismo, ma solo di tristezza. Una tristezza senza vie d’uscita. Bistrita è una piccola piazza, due alberghi più o meno fatiscenti, una povertà impossibile da riscattare. In soli due giorni di permanenza, e nonostante tutte le precauzioni alimentari prese, riuscirono ad intossicare metà dei giornalisti. Io cominciai a sentirmi male il pomeriggio della partita e conclusi la radiocronaca solo grazie alla mia forza di volontà, che si moltiplica quando si tratta di trasmettere. Poi, nelle due ore di pullman che ci separavano da Bucarest, cominciò il calvario. Stavo sempre peggio e meno male che nel volo di ritorno in Italia venni “liberato” dall’ottimo dottor Manzuoli: se non trovavo la porta del bagno aperta, Batistuta e Rui Costa avrebbero pagato a caro prezzo la loro fissazione di stare sempre nell’ultima fila dell’aereo…

IL PEZZO CON COIS
Sandro Cois è sempre stato un simpatico figlio di buona donna, fino a quando non ha esagerato, o, inevitabilmente, non ha cominciato a cedere sul piano atletico. Aiutato da un fisico straordinario, si è sempre allenato poco, fidando sul fatto che tanto, male che andasse, sarebbe stato almeno alla pari con gli altri. Insomma, un Massaro prima maniera, con la sfortuna di non aver mai incontrato Sacchi sulla propria strada. Ci provò Ranieri a farlo cambiare, prendendolo anche a muso duro, ma alla fine si arrese anche lui. Avrebbe voluto farlo cedere, solo che invece di Cois, uno dei preferiti di Cecchi Gori, se ne andò il tecnico. Straordinarie comunque le sue prestazioni fuori dal terreno di gioco, dove ha sempre dimostrato un’invidiabile continuità di rendimento.
Avevo cominciato a collaborare con La Nazione e spesso si poneva il problema di chi chiamare per un parere o un’intervista al volo che avrebbe dovuto riempire la pagina. «Non c’è problema – rispondevo – provo a sentire Sandrino se mi dice qualcosa», e per anni siamo andati avanti così. Io e Alessandro Rialti eravamo rimasti gli unici a conoscere il suo numero di cellulare (cambiato una volta l’anno), e se vado a rivedere le collezioni del giornale c’è da vergognarsi. Mancava solo che Cois desse il suo parere sullo sexi-scandalo di Clinton e poi sarebbe stato interpellato su tutto. Ogni volta veniva fuori di riffa o di raffa il suo attaccamento alla maglia viola, il suo amore per il popolo viola, eccetera eccetera. Questa melassa di buoni sentimenti era generosamente annaffiata da un contratto folle di cinque miliardi lordi l’anno, voluto espressamente da Luna. Al termine della sua esperienza fiorentina, Cois girava ormai con la guardia del corpo per paura di incontrare qualche tifoso arrabbiato e non completamente convinto delle sue giustificazioni per le continue assenze. Però, proprio alla fine, Sandrino ebbe un guizzo di spirito, come ai vecchi tempi. Fu quando Marzio Brazzini, un geniale esponente della Vecchia Guardia, gli consegnò la “maglia della vergogna”, preparata per lui appositamente a maniche lunghe perché «non prendesse freddo e non si ammalasse». Mentre i suoi compagni scapparono, Cois si presentò subito davanti a Brazzini, prendendo l’omaggio e ringraziando per il pensiero.

LE ILLUSIONI DI COPPA
Eravamo ormai arrivati al termine del ciclo targato Ranieri. Il tecnico romano aveva rotto con parte dei giornalisti, fra cui soprattutto Sandrelli e la Righini, e anch’io sarei stato tutto sommato contento se non avesse onorato il contratto in scadenza l’anno successivo. Mediocre in campionato, la squadra si esaltava in Coppa delle Coppe, una competizione tradizionalmente favorevole ai viola. Superato il primo turno nella desolazione di Bistrita, ci volle un miracolo di Sant’Anselmo da Lecco per eliminare lo Sparta Praga. Poi arrivò il Benfica e fu tutto un tuffarsi nelle splendide nostalgie di Rui Costa, acclamato come un eroe dai suoi vecchi tifosi. E a Lisbona Batistuta fece capire a tutti chi fosse il leader indiscusso dello spogliatoio.

STUPIDI
Così il Corriere dello Sport-Stadio titolò la prova dei viola il 17 febbraio 1997. Il motivo? L’ennesima sconfitta esterna a Verona, con rete presa su punizione all’ultimo minuto. Spinta soprattutto da Bati, la squadra entrò in silenzio stampa, uno dei più “stupidi”, tanto per rimanere in tema, degli ultimi anni. Per oltre un mese si assistette a scene comiche, con giocatori che parlavano e cronisti che riportavano il pensiero illuminato ed illuminante dei nostri eroi senza poter virgolettare niente. La situazione sembrò sbloccarsi a Lisbona, alla vigilia della partita di andata dei quarti di finale di Coppa. Cinquini aveva provato a fare da mediatore, ottenendo che, in caso di successo, i giocatori viola avrebbero ritrovato l’uso della lingua. La Fiorentina si impose per due a zero, giocando fra l’altro un’ottima partita, impreziosita dal gol di Baiano e da quello splendido di Batistuta. Qualche “informatore” dello spogliatoio si era già prenotato per intervenire alla radio, quando arrivò improvviso il contrordine: “ragazzi tutti zitti!”. Era stato Batistuta a decidere così, nessuno ha mai saputo il perché, ma forse lo avrà spiegato almeno a Rui Costa, prenotato invano da una decina di colleghi portoghesi.

BARCELLONA
Quella fu anche la stagione viola peggiore di Bati, che però si tolse la straordinaria soddisfazione di zittire il Camp Nou. La postazione che mi avevano dato a Barcellona era da grande inviato, avevo addirittura il monitor e fu solo grazie al replay che vidi il gesto del dito al naso di Gabriel. «Vi ho lasciato senza parole», sembrava volesse urlare il capitano, dopo che per giorni i quotidiani spagnoli si erano divertiti a sottolineare la presunta superiorità di Ronaldo nei suoi confronti. Di quella partiva vanno ricordati altri due episodi: l’ammonizione troppo severa proprio a Batistuta, che lo costrinse a saltare la gara di ritorno, e il fischio finale che fermò Robbiati lanciato da solo verso Vitor Baia.
Il ritorno fu preparato male e giocato peggio, come è purtroppo nella tradizione della Fiorentina quando incontra le grandi squadre in scontri decisivi. Prima Couto e poi Guardiola infransero il sogno della finale e qualcuno cominciò a prendersela assurdamente con Toldo. Francesco avrà sbagliato sì e no dieci partite in otto anni, solo che tre di queste capitarono una di fila all’altra. Nel volo di ritorno dalla trasferta di Napoli, a maggio, Robbiati mi prese da una parte e mi disse: «non ti sembra il caso di fare qualcosa per aiutare Toldo, che è il miglior portiere d’Italia?». Sì, era il caso, ma che potevo fare? Di più e meglio fece Maldini, il Commissario Tecnico azzurro, che lo convocò lo stesso in Nazionale.

LA PAZZIA DI RUI
All’ultima Fiorentina di Ranieri rimaneva ancora un traguardo, la qualificazione in Coppa Uefa. La squadra era stanca, qualcuno voleva andarsene, altri giocavano in condizioni precarie. Come Rui Costa, che da settimane si trascinava un infortunio muscolare. Qualsiasi giocatore dotato di buonsenso non avrebbe giocato a Perugia ed io mi allarmai molto quando lo vidi in campo ad allenarsi da solo. Conoscendolo, temevo che facesse una pazzia. Ed infatti alla fine Rui decise di rischiare. Rimase in campo per 82 minuti, fino a quando non si strappò definitivamente: fuori per due mesi, addio Nazionale portoghese e addio Fiorentina. Sicuramente non ne valeva la pena, ma… that’s amore.

CORI
Fallita la qualificazione Uefa, la Fiorentina si trovò a giocare le ultime partite in un clima di generale disarmo. Fu forse per questo che nel congedo casalingo contro la Reggiana i tifosi della Ferrovia, non sapendo probabilmente più cosa inventare, cominciarono ad intonare un paio di cori in mio onore. Ero imbarazzato, non sapevo più cosa dire in radiocronaca, ma traboccavo d’orgoglio: ero l’unico giornalista a cui veniva riservato un tale trattamento. Solo quattro anni più tardi i tifosi tornarono ad occuparsi di me, ma in modo leggermente diverso…
E Vittorio? Lo avevamo un po’ dimenticato, ma dopo aver bleffato ed essere stato scoperto sulla storia dei diritti televisivi prenotati e mai pagati si prendeva le sue brave soddisfazioni. Si cominciava a parlare di sette sorelle e grazie a Cecchi Gori nel gruppo c’era anche la Fiorentina. Tutte le domeniche in casa voleva parlare solo con me e la società aveva inventato un lasciapassare che mi permetteva di arrivare alla tribuna d’onore, dove raccoglievo il verbo presidenziale. Per questo trattamento privilegiato la mia simpatia fra i colleghi scese ai minimi livelli, ma cercavo di barcamenarmi in qualche modo e lo stesso accadeva con Canale Dieci. Infatti, chissà perché, Vittorio preferiva esternare a Radio Blu piuttosto che alla televisione di famiglia. Tante parole, qualcuna in libertà, ma tutto sommato non peggio di altri padroni del vapore.

SEMPRE COLPA DI GUETTA
A maggio Cinquini ed Antognoni riuscirono a realizzare un ottimo colpo di mercato: la cessione di Amoruso ai Rangers di Glasgow per ben undici miliardi in contanti. Luca Speciale intervistò per Canale Dieci Pasquale Bruno, che aveva giocato un paio di anni in Scozia, proprio per raccontare la differenza fra i due modi di intendere il calcio. Il vecchio picchiatore del Torino sconsigliava Amoruso dal tentare l’avventura scozzese ed io ripresi l’intervista in un pezzo per La Nazione.
La mattina successiva ricevetti le telefonate allarmate ed allarmanti del buon Fanetti e di Sandrelli che mi annunciavano (tanto per cambiare) un Luna imbufalito con me a causa di quell’articolo. Lucianone nostro era stato opportunamente aizzato dal gatto e la volpe (così chiamavamo Cinquini ed Antognoni), che da tempo conducevano una loro battaglia personale contro Sandrelli, e quindi a seguire contro Canale Dieci. Aggiungiamoci pure che non è che io fossi ai primi posti della loro classifica di gradimento ed il gioco era fatto. Venni in pratica accusato di ostacolare la cessione di Amoruso, con tutti i danni economici che ne sarebbero conseguiti. E l’intervista di Speciale mandata in onda la sera prima? Boh, ignorata completamente, come se non fosse mai esistita. Nei due mesi successivi in cui Luna mi tolse il saluto, ebbi dei seri dubbi sui nostri dati d’ascolto televisivi.

ADDIO RANIERI
«Se ne è andato!», mi soffiò felice Sandrelli al telefono in una tarda serata di giugno.
«E chi viene al suo posto?», gli chiesi, sollevato anch’io dell’abbandono del tecnico viola più vincente degli ultimi anni.
«Ancora non si sa, probabilmente Malesani del Chievo».
Accidenti, sapevo pochissimo di lui e facevo un tifo indiavolato per uno di casa nostra, Ulivieri, che però Gazzoni a Bologna non aveva voluto liberare. Pazienza, mi sarei documentato.

1996/97
Formidabili quegli anni, formidabili davvero. Ci sono i soldi e ci sono i sogni. Ranieri sa ormai come gestire Cecchi Gori: gli dice sempre di sì e poi agisce come gli pare. Una nuotata insieme nel mare di Sabaudia per farsi suggerire che Robbiati avrebbe dovuto sempre giocare e due palleggi col piccolo Marietto, che «da grande diventerà il bomber della Fiorentina». Che gioia e che rifrullo di gente importante intorno al senatore, nel frattempo rieletto senza nemmeno ricorrere ai resti. E anche a Canale Dieci si pensa in grande, ormai è tutta una frenesia per andare a Telemontecarlo, dove ci sono più inviati e capiredattori che giornalisti semplici. Se poi stipendi e rimborsi spese sforano il budget, pazienza, qualcuno provvederà. Ci sono anche deliri di onnipotenza fiorentini di piccoli giornalisti che si sentono candidati al premio Pulitzer. «Torna subito qui – urlò uno di loro al povero Selvi uscito a comprare l’inchiostro per la fotocopiatrice – ma ti rendi conto che non ho più nessuno sotto!». Erano in due in redazione.
Sono i tempi della ciliegina e del Ciclone. Rita Rusic diventa la donna più intelligente del cinema mondiale, il marito la guarda languido ed orgogliosamente pensa: «in fondo l’ho creata io. Sono molto meglio di Berlusconi, che ha pure perso le elezioni>. Hai ragione Vittorio, sei tu il più grande, spendi per noi e vai felice in balaustra.

LA PRESENTAZIONE
Ogni tanto però qualcuno in Fiorentina pensava bene di risparmiare qualcosa e così a luglio decisero che la presentazione ufficiale per la nuova stagione l’avrei fatta io. Gratis, naturalmente. Poco dopo aver detto di sì, ripensai con terrore ai tempi delle elementari, quando mi vergognavo moltissimo a recitare le poesie davanti ad una trentina di bambini. Ora avrei avuto davanti almeno diecimila persone dentro lo stadio e non potevo sbagliare. Certo, avevo dalla mia l’esperienza radiofonica e televisiva, ma con tutta quella gente in curva Fiesole era davvero tutta un’altra cosa. Preparai la scaletta nei minimi particolari e, grazie soprattutto all’entusiasmo generale dopo la vittoria in Coppa Italia, venne fuori una bella giornata, anche perché evitai lungaggini che avrebbero stancato la gente. L’unico momento di imbarazzo fu quando presentai Robbiati, che si prese una sonora fischiata perché non voleva rinnovare il contratto con la Fiorentina. Rientrando negli spogliatoi provai inutilmente a consolarlo.

IRINA TE AMO
La verità è che a San Siro non mi sono assolutamente accorto del grido d’amore di Batistuta per la moglie, dopo il secondo decisivo gol nella Supercoppa italiana. Ero troppo impegnato ad urlare, non mi sembrava possibile che si potesse battere il Milan stellare di Baggio e Savicevic. In quella partita Gabriel ci prese per mano e ci portò in Paradiso. Tutti si ricordano della punizione e della dichiarazione ad Irina, ma secondo me il primo gol è stato ancora più bello. Quel dribbling aereo su Baresi e la susseguente botta al volo sono roba da palati sopraffini, e nel rivedere l’azione il capitano del Milan deve aver pensato per la prima volta in carriera di essere arrivato al capolinea. Fu una serata eccezionale: il 25 agosto 1996, il giorno prima del settantesimo compleanno viola.

LA GIACCA E’ MIA!
Proseguivano intanto con molte sconfitte i miei settimanali combattimenti per cercare di avere gli ospiti in televisione. Il fatto che Canale Dieci fosse di proprietà della madre del presidente della Fiorentina non era un vantaggio, ma al contrario costituiva un’aggravante per i giocatori viola. «Ma cosa ci dai? Come? Solo questo?». Conclusi un’estenuante trattativa collettiva con i “rappresentanti delle maestranze” Padalino e Carnasciali, e mi accordai sulla base di un kit composto da un radioregistratore, una cassetta della Cecchi Gori home video ed un buono per due cene.
Ogni tanto capitava che gli sponsor chiamassero i giocatori per l’inaugurazione di nuovi punti vendita ed io, che ormai ero del “ramo”, sapevo come districarmi tra omaggi e “marchette”. Una volta, per un cliente di Scandicci, ebbi però la pessima idea di inserire tra gli invitati anche Giovanni Piacentini. Al termine della serata, lui e Cois ottennero in omaggio un buono per un vestito, ma Piacentini era palesemente deluso e mi chiese se non si sarebbe potuto fare qualcosa in più. Lasciai cadere la cosa pensando che fosse finita lì, ma qualche giorno dopo mi capitò di incontrarlo da Mastrobulletta, il ristorante dove andavano a mangiare quasi tutti i calciatori viola. Testimone attendibile del dialogo, Nick Ceccarini.
«Allora David, hai sentito da quel negozio di Scandicci se mi dà qualche altra cosa?»
«Ma… Giovanni, veramente mi sembrava che un buono da un milione fosse sufficiente per il disturbo»
«E dai, che se vuoi ci riesci. Ecco, per esempio, questa bella giacca che hai addosso… Non si potrebbe avere una cosa del genere?»
«Giovanni, se vuoi ti do la mia! Provala, credo che ti stia larga, ma se ti andasse bene, prendila pure. Tra l’altro non piace nemmeno a mia moglie»
«No, è troppo grande, dai impegnati per una taglia più piccola. Fammi sapere qualcosa in settimana».
Caro vecchio Piacentini: ti ho pensato intensamente quando due anni fa Letizia mise la mia bellissima giacca marrone fra gli indumenti da regalare in beneficenza.

LULU’
Fu l’acquisto di grido di un mercato giustamente in tono minore: la squadra andava già bene così e non c’era bisogno di stravolgerla. Con lui arrivarono anche Falcone, Pusceddu e, nonostante il Ring dei Tifosi, Firicano. A febbraio, grazie ai soldi de “Il Ciclone”, la ciliegina Kanchelskis. Luis Airton Barroso Oliveira adesso è un tranquillo signore con ben cinque figli (un record nella categoria dei calciatori e non solo), che spende i suoi ultimi spiccioli di classe in giro per l’Italia, ma quando arrivò a Firenze era convinto di aver finalmente dato una svolta alla sua carriera. Aveva segnato quindici reti nell’ultimo anno di Cagliari e avrebbe voluto fare l’attaccante, ma si trovò sempre davanti Batistuta e Baiano. La sua ottima tecnica si annacquò quindi nelle rincorse sui portatori di palla avversari e alla fine Ranieri lo schierò addirittura come laterale di centrocampo.
Fuori dal tappeto verde Lulù era uno spettacolo: sempre allegro, l’unico modo per farlo arrabbiare davvero era ricordargli il suo passato ed il suo presente da cascatore. Altrimenti aveva ben chiaro da dove veniva e la povertà che lo circondava da bambino, per questo non faceva mai pesare la sopraggiunta agiatezza. E anche quando Edmundo gli fece la guerra, Oliveira disarmò il “nemico” con qualche battuta, ma senza cattiveria. Il suo finale a Firenze fu piuttosto triste. Se ne andò quasi di nascosto, a novembre, nel secondo anno del Trap, dimenticato un po’ da tutti. Come si dice a scuola per quei ragazzi simpatici, intelligenti e un po’ svogliati: avrebbe certamente potuto fare di più, ma non fu solo colpa sua.

SANT’ANSELMO DA LECCO
E’ stata la migliore definizione che abbia inventato per un giocatore in tutti questi anni e mi ha fatto piacere che qualcuno l’abbia ripresa per etichettare le prestazioni di Robbiati, che in quel campionato segnava ogni volta che entrava in campo a sostituire un compagno. Di Anselmino mi piacevano le prestazioni tecniche e ciò che diceva nelle rare interviste che rilasciava. Robbiati non era mai banale e con quella vocina quasi in falsetto raccontava delle verità spiazzanti, soprattutto il lunedì, quando spesso veniva a commentare la partita a Canale Dieci. Diventammo amici e fu per questo che rinunciai ad uno scoop per non metterlo nei guai.
Era successo che dopo una vittoria contro l’Udinese, nel primo anno di Trapattoni, fosse scoppiata una mezza rissa negli spogliatoi. Protagonisti insospettabili: Robbiati e Rui Costa, il tutto a causa di un pallone non passato dal primo al secondo. Anselmo, che attraversava un momento difficile, aveva risposto ai rimproveri del portoghese mandandolo a quel paese, accendendo in pratica la miccia. La domenica dopo a Roma, Batistuta si era “vendicato”, ignorando il compagno solo davanti alla porta e preferendo un’improbabile conclusione personale. Era una brutta storia che non conosceva nessuno e Robbiati me la raccontò amareggiato nel ritorno da una vittoriosa trasferta di Coppa Uefa a Zurigo. Durante quel volo feci anche da colomba della pace con il portoghese, che stava seduto tre file più avanti. Come immaginavo, Rui mi disse che per quanto lo riguardava l’incidente era chiuso lì, che non c’erano conseguenze nei rapporti tra lui e Robbiati, ma Anselmo era lo stesso col morale a terra. Aveva appena segnato un bel gol di testa, però sentiva di avere contro i capi dello spogliatoio. Gli chiesi se potevo pubblicare la storia del furioso battibecco con Rui Costa e mi dette l’assenso.
Alle due di notte, appena atterrati a Pisa, venni preso da uno scrupolo molto poco giornalistico. La Fiorentina, lanciata in Coppa Italia e Coppa Uefa, era prima in campionato: scrivere quello che Robbiati mi aveva detto voleva dire alzare un gran polverone che avrebbe penalizzato l’ambiente e soprattutto lui, da mesi alla ricerca di una nuova squadra. In pratica sarebbe passato per un piantagrane e non sarebbe stato giusto. Richiamai Anselmo e gli annunciai che mi dimenticavo di tutto e ancora oggi sono convinto di aver preso la decisione migliore.

IMPARA A FARE LA RADIOCRONACA!!!
Un’ottima Fiorentina aveva appena pareggiato con l’Inter, meritando ampiamente di vincere. In radiocronaca avevo più volte sottolineato il vano assalto finale, ricordando come il punto strappato dai nerazzurri fosse immeritato. Stavo quindi per cominciare le solite interviste televisive del dopo partita, quando incrocio Luna, che mi si avventa contro paonazzo di rabbia.
«Ah stro…, ma che caz.. hai detto in radiocronaca?! Tu devi impara’ a farle le radiocronache, hai capito?»
Trasecolai. Non riuscivo a capire a cosa si riferisse e stava dando di fuori come un pazzo. La misi anch’io sul triviale.
«Ma che caz.. stai dicendo? Spiegami!»
«Nun te spiego proprio nniente, va a sentì quel che hai detto oggi!», e se andò, lasciandomi lì senza parole.
Per prima cosa consegnai il microfono a Laserpe per le interviste e mi incamminai livido di rabbia verso Canale Dieci, deciso a rassegnare le dimissioni, non mi importava quanto ci avrei rimesso economicamente. Con Sandrelli ci rinchiudemmo nella sua stanza, gli raccontai dello scontro e gli annunciai che avrebbero potuto tranquillamente trovarsi un altro telecronista e un altro conduttore per il Ring. Massimo scosse il capo e mi disse di aspettare. Dopo un quarto d’ora, arrivò la telefonata di scuse di Luna, che ammetteva di aver esagerato, che era stato informato male e che io ero una colonna insostituibile della televisione.
In serata riuscii finalmente a ricostruire quello che era successo, grazie anche ai miei informatori dentro lo spogliatoio. La colpa di tutto era di Flachi, all’epoca un bambino viziato, che aveva bisogno di accreditarsi in qualche modo con i compagni più grandi. Ranieri lo aveva spedito in tribuna e lui, non ho mai capito perché, si era messo a sentire la mia radiocronaca. Successivamente era sceso negli spogliatoi, stravolgendo la verità e raccontando che avevo attaccato la Fiorentina per come aveva giocato. Il preparatore atletico Sassi, con cui ero in pessimi rapporti fin dai tempi dell’infelice ritiro a San Vincenzo, ci aveva messo del suo, ingigantendo la cosa e facendo sì che i leader dello spogliatoio se la prendessero con Luna, «perché Guetta lavora a Canale Dieci».
Feci cinque cassette degli ultimi venti minuti di radiocronaca e le consegnai a Batistuta, Rui Costa, Padalino, Sassi e Luna. A Flachi niente, perché sarebbe stato del tutto inutile.

RESISTERE, RESISTERE, RESISTERE
Perché, nonostante quello che ho passato, non me ne sono andato via prima da Canale Dieci, resistendo addirittura nove anni? Intanto perché era l’unica televisione che permetteva, in tutti i sensi, di lavorare in modo decoroso. Se avessi mollato, ci sarebbero stati almeno una decina di colleghi pronti a prendere il mio posto, soprattutto quelli che oggi pontificano nelle altre tv e non volevo dare loro questa soddisfazione. Poi, a partire dal 1998, ho avuto la responsabilità di un gruppo di ragazzi che avevano puntato tutto proprio su Canale Dieci: io li avevo fatti entrare e la loro permanenza era strettamente legata alla mia.
La verità è che in tutti quegli anni posso aver ammorbidito qualche volta i toni della polemica, ma non ho mai subito condizionamenti. Nessuno, insomma, mi ha mai detto quello che dovevo o non dovevo dire. Quando, per esempio, nel maggio del 2002 Sconcerti venne paracadutato da Zerunian a Canale Dieci per raccontare “Fiorentina, la verità” (la sua, quella di Zerunian), con tutte le assurde assicurazioni sul fatto che Cecchi Gori avrebbe pagato e che la società viola si sarebbe regolarmente iscritta al campionato di B, io mi defilai, non mettendoci la faccia. Altre volte invece mi sono trovato nel mezzo della bufera e probabilmente non sono stato abbastanza bravo nello spiegare la mia distanza da alcune posizioni insostenibili. Certo, ho pagato in stress e rabbia questa “libertà” di pensiero, ma alla fine gli errori che ho commesso sono stati solo frutto della mia testa e delle mie convinzioni. Ho sbagliato soprattutto a non valutare bene dove ci stava portando Cecchi Gori e da metà del 2000 fino al luglio del 2001 ho mantenuto nei suoi confronti un atteggiamento possibilista, che è stato ingigantito dalla mia onnipresenza (altro sbaglio) nelle trasmissioni di maggior richiamo di Canale Dieci. Al momento della dissoluzione della vecchia Fiorentina, ho quindi ritenuto giusto pagare le mie “colpe” con almeno un anno di allontanamento dal video, in una sorta di rito purificatore.
Ma Canale Dieci resta una splendida realtà e fino a quando se ne occuperanno Andrea Parenti e Paolo Fanetti ha la concreta possibilità di sopravvivere alle nefandezze del suo proprietario. Mi pare comunque giusto ricordare con sincera commozione tutti coloro che in quegli anni hanno tentato (invano) di farmi cacciare: l’indimenticabile Paolo Giuliani, Ugo Poggi, poi diventato un amico, Paolo Cardini, Luciano Luna, Sarkis Zerunian e Ottavio Bianchi. Se sono riuscito ad avere la soddisfazione di essere io ad andarmene e non loro a buttarmi fuori, lo devo solo ed unicamente al successo delle mie trasmissioni, agli sponsor che portavo e ai ragazzi che hanno lavorato con me.

GRANDE STAGIONE
Ranieri tirò fuori il meglio dai propri uomini ed il risultato conclusivo fu il migliore degli ultimi anni. Ad un certo punto la Fiorentina sembrò addirittura in corsa per lo scudetto, ma l’organico era nettamente inferiore al Milan ed alla Juventus, soprattutto nelle alternative ai titolari. Complice la cavalcata trionfale in Coppa Italia, le cose in campionato si complicarono nelle ultime partite e si temette la riedizione dello scialbo finale dell’anno precedente. Invece andò tutto bene, ed una vittoria un po’ fortunata a Piacenza permise alla Fiorentina di tornare finalmente, dopo sei anni, in Europa, al terzo posto a pari punti con la Lazio. Tutti noi però eravamo distratti da un solo pensiero: vincere finalmente qualcosa, a ventuno anni di distanza dalla Coppa Italia del 1975.

LA PARTITA VIRTUALE
E’ stato l’avvenimento più straordinario organizzato da Canale Dieci. Credo che l’idea a Sandrelli sia venuta dopo aver visto quanta gente avrebbe voluto seguire i viola a Bergamo per il ritorno della finale. L’Atalanta non poteva garantire più di cinquemila biglietti, ma i tifosi pronti a partire erano più del doppio e allora Massimo tirò fuori questa iniziativa, che a prima vista poteva sembrare una pazzia: tutti al Franchi a vedere (male) la partita sul maxi schermo. Canale Dieci organizzò una diretta di oltre sette ore, con uno sforzo di produzione all’altezza di una televisione nazionale. Fu un successo clamoroso. Arrivarono in quarantamila allo stadio, spinti solo dalla voglia di esserci e la scena della squadra che entra in campo alle tre di notte in mezzo alle bandiere viola è il momento più bello di tutta l’era Cecchi Gori.

IL TRIONFO
Esagerazioni per una semplice Coppa Italia? Può darsi, visto da fuori Firenze. Ma il calcio dalle nostre parti è soprattutto passione, e se ripenso a quella magica serata di Bergamo non mi vergogno di niente. Al secondo gol di Batistuta, urlai come un matto e caddi dalla seggiolina in postazione. “Prendiamocela!! E’ nostra!!”, gridavo ossessivamente, neanche dessi l’ordine di attacco alla fortezza nemica. Ero quasi sdraiato in terra quando mi accorsi di un po’ di movimento alle mie spalle, ma non ci feci troppo caso. Solo più tardi seppi che avevano cacciato dalla tribuna stampa il povero Ceccarini, che si era sacrificato per il sottoscritto, accusato di “comportamento professionale poco decoroso”. «Vado fuori io – disse – ma lasciatelo finire», e lo misero giù nel parterre, in castigo.
Mentre da Bergamo intervistavo i protagonisti in collegamento video con il Franchi in estasi, mi chiedevo cosa mai sarebbe successo in caso di scudetto a Firenze. Erano già passati quattordici anni da quando preparavamo la festa, poi rovinata dagli arbitri e dalla Juventus. Allora mi sembrava tutto un grande gioco e poi alla fine una delusione indicibile; adesso la realtà mi appariva molto diversa, forse a causa dell’età o delle responsabilità che aumentavano. Comunque fosse, mi sarebbe piaciuto almeno una volta capire, da semplice tifoso della Fiorentina, cosa si prova in quei momenti lì.

1995/96
In pochi mesi Cecchi Gori comprò prima Videomusic e poi Telemontecarlo, accreditandosi come unico esponente del tanto vagheggiato terzo polo televisivo. La popolarità di Vittorio era alle stelle, tutti facevano progetti con lui e su di lui. Noi a Canale Dieci stavamo golosamente alla finestra, aspettando gli eventi. Sandrelli riuscì addirittura ad accreditare la voce che “Guetta sarebbe stato una dei telecronisti impiegati dall’emittente”. Che differenza dai tempi di Repubblica! Il fatto che il senatore fosse così impegnato con la televisione, permise a Luna, Cinquini ed Antognoni di costruire la migliore campagna acquisti dell’era Cecchi Gori. Arrivarono Serena, Amoruso, Bigica, Padalino, Piacentini e Schwarz. Tutta gente costata il giusto e, Bigica a parte, di grande sostanza. E soprattutto Batistuta aveva ventisei anni, e Rui Costa neanche ventiquattro…

VALENTINA
Alla prima giornata di campionato, la Fiorentina sconfisse il Torino con una doppietta di Banchelli, entrato nella ripresa. Il martedì successivo, Letizia avvertì i primi inequivocabili segnali che da lì a poco sarei diventato babbo. Il giorno dopo la Fiorentina avrebbe giocato ad Ascoli in Coppa Italia ed io non saltavo una radiocronaca dal gennaio del 1990…
Nei momenti di tregua del travaglio, scrissi “appena” cinque paginette di appunti per Laserpe, che avrebbe avuto il compito di sostituirmi al microfono. Le infermiere dell’ospedale mi guardavano con curiosità, ma io non me ne curavo, concentratissimo com’ero sui due avvenimenti. Avevo deciso fin dal primo giorno che non avrei assistito al parto, solo che quando arrivammo alle battute finali, l’ostetrica mi disse suadente ed imperativa: «non vorrà mica perdersi la nascita di sua figlia, vero?». Mi sentii un verme e risposi .
Andò tutto bene e ancora oggi Letizia mi prende in giro ricordandomi la mia espressione assente e beata non appena mi fu consegnata per la prima volta Valentina tra le braccia. Erano le sette del mattino, tornai a casa e mi buttai sul letto a riposare. Mi svegliai alle dieci e corsi all’ospedale felicemente stravolto, con in testa una domanda assurda che, con finta indifferenza, rivolsi a Letizia: «ti scoccerebbe molto se alle due parto con gli altri per Ascoli?». Fu grande a rispondermi che non c’erano problemi.

TRE VOLTE
L’idea era stata di Sandrelli: per valorizzare al massimo i diritti televisivi sulla Fiorentina, sarebbe stato opportuno commentare nuovamente l’incontro dei viola con un ospite il lunedì, in una trasmissione organizzata ad hoc sulla gara. Era un’ottima pensata, non c’è dubbio, con il solo inconveniente che fra la domenica ed il lunedì mi sarei rivisto la partita almeno tre volte. A volte quattro, quando la registrazione non veniva bene. Uscivo da queste maratone completamente cotto, in uno stato di overdose calcistica preoccupante, a volte arrivavo a sognare il pallone di notte. Avevo in compenso una conoscenza più che approfondita di ogni singolo passaggio della gara, in pratica sarei potuto andare negli spogliatoi ed aiutare nella spiegazione tattica prima Ranieri e poi Malesani. L’unico vantaggio (personale) dell’addio di Sandrelli a Canale Dieci fu proprio l’immediata soppressione nel 1998 di “Fuorigioco, la partita in controluce”. Dopo pochi mesi lasciai spontaneamente anche la telecronaca e capii in quei giorni di aver perso alcune mie caratteristiche, legate ai primi anni di lotta nella giungla del giornalismo. Mi interessava molto meno apparire e molto più il successo del gruppo, e non era poi così importante chi realizzava un’intervista o un commento. Se me l’avessero detto qualche anno prima, non ci avrei mai creduto.

E’ STATA TUA LA COLPA
Alla quarta giornata di campionato la Fiorentina prese la solita ripassata a Parma: tre a zero e prova indecorosa. Su Ranieri cominciarono così a levarsi critiche sempre più feroci. Mario Ciuffi chiese ufficialmente il cambio con Galeone, la sua infatuazione calcistica del momento, e meno male che nessuno gli dette retta. Inconsapevole della rabbia accumulata dal tecnico romano verso la critica, mi presentai a Sarzana, dove i viola giocavano in amichevole, per la solita intervista televisiva all’allenatore.
«Allora Claudio, torniamo sulla gara di Parma: a freddo hai capito di chi è stata la colpa di un simile rovescio?»
«Sì, l’ho capito: la colpa è stata tua»
«Come?»
«Sì, la colpa è stata tua, Guetta. Ci ho riflettuto a lungo ed è la verità: abbiamo perso per colpa tua ed è giusto che i tifosi lo sappiano»
Fui bravo a non perdere la calma e a non dare soddisfazione ai colleghi che intorno a noi aspettavano la mia reazione per godere del successivo casino che sarebbe venuto fuori. Ordinai all’operatore di fermare la ripresa e dissi a Ranieri: «va bene, Claudio, facciamo finta che non sia successo niente e ricominciamo daccapo l’intervista». Venne fuori una cosa regolare e senza colpi di testa, ma ho conservato per anni quel nastro con dentro le parole senza senso di un tecnico famoso per non perdere mai il controllo di sé.

FORMULA VINCENTE
Ranieri era comunque un ottimo allenatore e quella Fiorentina una squadra molto concreta, perché impostata su tre mediani più Rui Costa, libero di inventare per le due punte Batistuta e Baiano. In difesa, nessuno avrebbe scommesso una lira sull’accoppiata Padalino-Amoruso, che invece fu una delle rivelazioni del torneo, mentre Serena, fino a quando non si infortunò, rappresentò un’autentica sicurezza sulla fascia sinistra. In porta, Toldo conquistò addirittura la Nazionale. L’unica mina vagante furono le continue sostituzioni di Rui Costa, alcune veramente gratuite, ma per fortuna il delitto di lesa maestà venne commesso ai danni di uno dei giocatori più intelligenti del calcio mondiale. Uno che capiva che prima veniva la squadra e poi il singolo, e così Rui evitò di strumentalizzare a suo favore il malcontento dei tifosi.

IMMENSO BATI
Andò a segno consecutivamente nelle prime undici domeniche di campionato, battendo il record di Pascutti e facendo delirare una città. Era impressionante vedere la rabbia con cui Batistuta cercava e trovava il gol. Il momento più bello fu a Napoli, alla decima giornata, con la Fiorentina in svantaggio a pochi minuti dal termine. Un autogol di Cannavaro ed una prodezza di Cois rovesciarono il risultato e sembrava già andare bene così, solo che Gabriel non aveva ancora timbrato il cartellino e Pascutti avrebbe salvato il suo primato. In sei minuti Batistuta si scatenò, segnando una doppietta. Riuscii a sapere quando saremmo atterrati con la squadra all’aeroporto di Peretola e lo annunciai nel dopo partita: furono in cinquecento ad attendere il capitano per portarlo in trionfo. La domenica successiva contro la Sampdoria, al quarto d’ora della ripresa, Bati entrò nella storia trasformando un rigore. Mai nessuno sarà grande quanto lui.

4 DICEMBRE 1994
Siamo lanciatissimi, nei piani alti della classifica, e giochiamo a Torino contro la Juve. La signora Valeria è in collegamento da Roma, ogni tanto chiama al cellulare Vittorio e trasmetto per lui la radiocronaca personalizzata. Il primo tempo è da non credere: assatanati su ogni pallone, segniamo prima con Baiano e poi con Carbone. Abbiamo in pugno la partita, Manuela Righini accanto a me commenta estasiata e vuole perfino bene a Ranieri. Inizia la ripresa e non cambia nulla. A venti minuti dalla fine, giustamente, il tecnico manda in campo Amerini al posto di Baiano e cominciamo a guardare quanto tempo manca.
Poi, il giudizio universale calcistico. Segna Vialli e si intravedono le prime crepe. E’ un assalto della Juve, non riusciamo a venire fuori dalla nostra area. Segna di nuovo Vialli e siamo delusi, perché ormai avevamo fatto la bocca ai tre punti, ma in fondo un pareggio a Torino… A tre minuti dalla fine, uno dei più bei gol mai visti e commentati dal vivo. Un’autentica pennellata al volo di Del Piero su un lancio senza pretese di Tacchinardi. Non so ancora come ho fatto ad arrivare alla fine della radiocronaca. Dallo studio di Prato, a fine partita, Rinaldo vuole salutare donna Valeria: «allora signora Cecchi Gori, ci sentiamo fra due domeniche… Pronto, pronto, signora…». Scomparsa. Esattamente come la sua Fiorentina.

COME CON IL DUCE
Povero Vittorio, quante volte lo abbiamo ingannato. Ora che ci ha rovinato, glielo possiamo pure confessare: abbiamo usato con lui la stessa tattica che i fedelissimi del Duce usavano con Mussolini. Gli abbiamo fatto credere che le cose andassero in un certo modo, anche se non era vero. All’inizio della guerra, quando Benito passava in rassegna il modesto potenziale bellico italiano, i federali spostavano i pochi carri armati a disposizione da un luogo all’altro per dare più spessore ai folli sogni di grandezza dell’Impero. Noi, molto più modestamente, abbiamo fatto credere per anni a Vittorio di recepire in pieno i suoi desideri. Ad esempio, per suoi misteriosi motivi, Vittorio aveva deciso che Luca Frati de La Nazione, che commentava per noi le gare in diretta, portasse male e non fosse all’altezza del compito assegnato. Non lo voleva assolutamente sentire. E allora Rinaldo, alla fine del primo tempo, prendeva il telefono e raccoglieva gli sfoghi presidenziali, mentre Frati, non ascoltato da Roma, faceva tranquillamente il suo intervento. Una volta Vittorio chiese, sempre tramite Rinaldo, di andare da Luna per trasmettere a Ranieri il seguente perentorio messaggio: togliere Piacentini e mettere dentro Robbiati, il suo preferito. Ovviamente nessuno si mosse dalla tribuna stampa. Ma il capolavoro andò in scena a Canale Dieci, una sera in cui il presidente aveva deciso di esternare. Voleva a tutti i costi che io fossi presente in trasmissione, ma ero in ritardo a causa di una coda in autostrada. Il problema era che a Cecchi Gori non piaceva, chissà perché, Ilaria Masini, la presentatrice della trasmissione. Fu così che venne inventata la figura del “conduttore per una sera”: prendemmo Luigi Laserpe, lo vestimmo da bravo presentatore e lo catapultammo a condurre il programma di maggiore ascolto di Canale Dieci. I telespettatori non capirono bene cosa fosse successo, ma Vittorio si divertì moltissimo.

AI LAVORI FORZATI
La sciagurata idea fu di Roberto Sassi, il taciturno e velenoso preparatore atletico di Ranieri, che decise per dicembre, durante la sosta natalizia, un richiamo della preparazione fisica. Più che un richiamo, fu un vero e proprio urlo, una scudisciata inopportuna sui preziosi muscoli dei nostri eroi, che da quelle fatiche non si ripresero più. Arrivai a San Vincenzo, dove la squadra era in ritiro, alla fine dei lavori e trovai gente stravolta. Robbiati, esile com’era, non sembrava più lui: lo avevano torturato per fargli ingrossare i muscoli ed il risultato fu che non giocò per tutto il resto della stagione. Per colpa in gran parte di quella settimana da incubo la Fiorentina terminò il campionato in avvitamento su se stessa, al decimo posto. Nelle ultime cinque partite fece appena tre punti, ma opportunamente Luna, Cinquini e Antognoni scongiurarono il licenziamento di Ranieri, ormai quasi messo in atto da Cecchi Gori.

VI FACCIO CHIUDERE
Bettega mi era sempre stato antipatico per la supponenza dimostrata in tante interviste, ma non avrei mai creduto che fosse capace di dire quello che disse al termine di una dilagante vittoria della Juve a Firenze. La partita era andata malissimo, Batistuta aveva sbagliato un rigore e ai bianconeri ne era stato assegnato uno, inesistente, per un presunto fallo di Toldo su Ravanelli. Appena aveva visto Francesco in uscita, l’attaccante si era chiaramente buttato per terra e non c’era stato alcun contatto. Nel dopo partita riuscii ad agganciare Bettega per portarlo davanti alle telecamere. Alla terza domanda, gli chiesi del rigore inesistente e lui rispose che il fallo era netto.
«Mi scusi signor Bettega, ora se permette rivediamo le immagini»
«Va bene, non ci sono problemi»
Scorrono i fotogrammi al rallentatore ed è chiaro che si è trattato di un errore arbitrale.
«Come commenta signor Bettega queste immagini?»
«Non le commento, dico solo che ho fatto male ad accettare di essere intervistato da una televisione viola, lo dovevo sapere che era una trappola». E se ne andò, senza salutare.
Mentre stava per uscire dallo sgabuzzino adibito a studio televisivo, pronunciò a denti stretti, ma perfettamente udibile, la fatidica frase «io vi faccio chiudere».
Lì per lì passai cinque minuti con un grosso dubbio: che faccio, la riferisco o no? Poi ne parlai con Sandrelli, che ebbe l’ottima pensata di rilanciare l’infelice espressione in tutte le salse possibili. In fondo era un modo per dimenticare, almeno in parte, il fatto che la Fiorentina aveva perso 4 a 1 in casa contro la Juventus e per mandare Canale Dieci sulle prime pagine dei giornali. Scoppiò un putiferio. La signora Valeria, proprietaria della televisione, uscì dall’abituale riserbo e fu durissima con Bettega, che ebbe almeno il pudore di non smentire la minaccia. Da quel giorno però non mi ha più concesso un’intervista.

1994/95
Dopo la morte di Mario, tutto il potere era nelle mani di Vittorio e dei suoi fedelissimi: Sergio Bartolelli, Luciano Luna e Paolo Cardini. Non si parlava ancora di acquistare televisioni nazionali e quindi si viveva tranquilli. Al “gruppo” bastava e avanzava Canale Dieci, dove i giochi di potere erano alquanto limitati. Cardini e Luna si erano divisi i compiti: il primo controllava la parte politica, il secondo la Fiorentina. Grazie al gioco dei resti elettorali, Vittorio era riuscito a diventare senatore nelle file del Partito Popolare, all’opposizione. Nella nottata dello spoglio dei voti, la tensione a Canale Dieci era alle stelle: e se nonostante tutti gli sforzi non fosse passato? Ad un certo punto arrivò a Villa Cora Bruno Altissimi, un produttore cinematografico indipendente dell’entourage romano, e gridò: «Aho, ce l’avemo fatta per un pelo di f…, adesso famose du spaghe». Nei mesi successivi all’approdo in Parlamento, il neo-senatore cominciò a sviluppare la pericolosissima sindrome Berlusconi. Secondo i suoi uomini, Vittorio era addirittura più geniale di Silvio e il tempo gli avrebbe certamente dato ragione. Intanto, la stagione del ritorno in serie A si annunciava piena di speranze.

MONDIALE IN CANTINA
Il pomeriggio della semifinale mondiale tra Italia e Bulgaria me ne stavo tranquillo in Versilia, pregustando lo spettacolo serale, quando arrivò la telefonata di Grassia: «hanno appena comprato Rui Costa, arriverà alle 19 a Roma e vedrà la partita a casa di Cecchi Gori. Bisogna in tutti i modi andare là, abbiamo già chiamato l’operatore per l’intervista». Costrinsi il buon Selvi a montare in macchina con me e partimmo di controvoglia. Arrivammo in via Platone cinque minuti prima del fischio di inizio della semifinale e venimmo fatti accomodare senza troppi complimenti nelle cantine della villa, dove per fortuna era stato installato un piccolo televisore. Solo nell’intervallo venni ammesso nel salone delle feste, mentre Francesco, evidentemente non ritenuto all’altezza, rimase di sotto a sgranocchiare qualcosa. Notai, con preoccupante sorpresa per il mio futuro professionale a Canale Dieci, che era presente anche Sandrelli e venni quindi presentato da Vittorio a Rui Costa come «quello che quando segna la Fiorentina urla goool». Avrei voluto rispondere a Cecchi Gori che avevo anche qualche altra funzione nella vita, che come lui ero addirittura laureato, ma tacqui per non turbare l’armonia idilliaca della serata. Finita l’intervista, salutai e tornai nelle cantine a vedere la partita con Selvi. Nessuno, d’altra parte, mi aveva chiesto di rimanere.

FUORICLASSE
Credo davvero che Rui Costa, come Toldo, sarebbe riuscito in qualsiasi altro campo della vita. Per la fortuna sua, e di noi che lo abbiamo visto giocare per sette anni, ha scelto di diventare un calciatore. In tre mesi parlava l’italiano meglio degli stranieri che stavano da tre lustri in Italia, e in poche settimane aveva già capito Firenze. La differenza sostanziale tra Bati e Rui è che il portoghese non considera il calcio un lavoro. In lui si respira chiaramente la voglia di pallone e mentre il fuoriclasse argentino vedrà in televisione sì e no una decina di partite all’anno, Manuel non perde mai una gara importante. Sono profondamente differenti anche nella disponibilità verso i tifosi. Rui si porta dietro la voglia che aveva da ragazzino di entrare nel mondo del pallone. Con i bambini poi è instancabile: foto, autografi, dediche, potrebbe passare ore insieme ai suoi piccoli fans. C’è una dolcezza di fondo nel suo carattere che lo fa assomigliare un po’ a Baggio. Nel 1995, dopo l’ennesima sostituzione, mandò a quel paese Ranieri; capì di aver sbagliato e convocò per il lunedì una conferenza stampa per scusarsi di aver mancato di rispetto al tecnico e soprattutto all’insalutato Robbiati, che entrava al suo posto.
I nostri rapporti sono stati ottimi fin dall’inizio, con picchi in alto particolarmente gradevoli. Solo se era con Batistuta, negli ultimi due anni dell’argentino a Firenze, Rui dimostrava una freddezza che un po’ mi infastidiva. Ad un certo punto le cose precipitarono, in gran parte per colpa mia. Mi ero infatti arrabbiato perché, dopo una partita di Champions Leagues, Rui Costa aveva saltato la nostra postazione. Secondo me (ed il mio solito complesso di persecuzione) l’aveva fatto apposta e non capivo il perché. Siccome poi Rui attraversava un momento difficile e non riuscivo più a portarlo in trasmissione, mi convinsi che esistesse tra noi una frattura che io stesso andavo ingigantendo. Il punto di non ritorno lo toccai una sera al Pentasport, quando commentai il pugno quasi omicida di Ferrigno del Como al modenese Bertolotti. Con un paragone assolutamente infelice, misi in relazione il livello di esasperazione che aveva raggiunto il calcio con il fatto che Rui Costa mi aveva tolto il saluto. Non c’entrava niente, era solo lo stupido sfogo di una persona delusa, ma lo avevano ascoltato decine di migliaia di persone. Per fortuna, la mia presunzione non mi impedì di capire l’errore e così un pomeriggio di dicembre, senza farmi preparare il terreno da nessuno, chiesi a sorpresa di parlare con lui. Non volevo interviste, ma solo riprendere le antiche consuetudini. Fu un colloquio aspro e risolutore, in cui ammisi le mie colpe, chiedendo lealmente scusa. I rapporti tornarono normali e la sua ultima apparizione in una televisione fiorentina fu al Ring dei Tifosi, il giorno dopo la vittoria in Coppa Italia. Me lo aveva promesso in caso di successo e, al contrario di altri, Rui Costa è un uomo che sa sempre mantenere la parola data.

SE SEGNI SETTE GOL…
… ti faccio conoscere Sharon Stone. Lo aveva promesso Vittorio a Marcio Santos, e chissà se la splendida attrice americana ha mai saputo di essere diventata un “premio di produzione” molto particolare. E poi, che voleva dire “ti faccio conoscere”? Una volta conosciuta, cosa sarebbe successo? Forse per evitare di rispondere all’imbarazzante quesito, Marcio Santos di gol ne fece appena due, più due autoreti che misero il timbro d’autore (era appena diventato Campione del Mondo) alla banda del buco, cioè l’allucinante difesa della Fiorentina. Il povero Toldo subì infatti ben 57 reti, con un crescendo finale impressionante, e Marcio Santos venne misteriosamente ingaggiato dall’Ajax, dove in pratica non giocò mai.

IL RING DEI TIFOSI
In quella stagione decollò definitivamente il Ring, ideato insieme a Luna, a cui piacevano i tifosi alla Ciuffi, quelli che sfottevano in televisione a suon di battute. La trasmissione venne immediatamente considerata una mina vagante dagli altri dirigenti viola, proprio perché affidata alla spontaneità di chi vi partecipava. Dopo le prime quattro puntate dell’anno della B, il vice presidente Ugo Poggi suggerì a Vittorio di sopprimerla. «Tu cosa ne pensi?», mi chiese Cecchi Gori nello spogliatoio del Franchi, mentre aspettavamo di giocare una partita di beneficenza contro la Nazionale cantanti. «Il programma funzione, Vittorio – gli risposi – è quello che fa gli ascolti più alti». Ed era vero, solo che spesso creava dei casini, soprattutto a causa della mia conduzione un po’ “scapigliata”. Devo riconoscere a Grassia e Sandrelli il grande merito di essersi opposti a tutti i tentativi di cancellazione, che arrivavano dal versante Cardini. E dopo poco tempo, lo stesso Poggi diventò un estimatore, non perdendosi una puntata. Qualche volta si lamentarono anche Giancarlo Antognoni e Oreste Cinquini, che nel frattempo aveva preso il posto dell’indimenticabile dottor Giuliani.
Resterà nella piccola storia di Canale Dieci la telefonata che ricevetti proprio da Cinquini al termine di una puntata in cui i tifosi presenti avevano espresso il loro dissenso per l’arrivo in maglia viola di Aldo Firicano, già ingaggiato a parametro zero dal Cagliari.
«Ti rendi conto – mi disse Cinquini – che adesso Firicano non verrà più: lo hanno già avvertito che a Firenze non lo vogliono e tutto questo per colpa tua»
«Accidenti Oreste – gli risposi – ma allora il Ring è proprio seguito…»
«David, non fare lo spiritoso, domani parlerò di tutto questo con Luna».
Ah ecco, mi sembrava strano.

ADDIO MARIO
Sapevamo che stava male, ma non così male. La morte improvvisa di Mario Cecchi Gori fece capire una volta di più come Firenze fosse una città assolutamente straordinaria. In fondo era stato il presidente della prima retrocessione dopo sessanta anni e Agroppi invece di De Sisti lo aveva scelto lui, ma la gente lo amava lo stesso. Tutto merito della sua bonaria sincerità, che lo avvicinava al ceto popolare dal quale proveniva. Gli inderogabili impegni milanesi di Filippo Grassia mi catapultarono la sera del 5 novembre 1993 a commentare la scomparsa del presidente dalla “sua” televisione. Il giorno successivo ero un po’ agitato perché avrei dovuto coordinare il lavoro di un gruppo di persone che di tv sapeva poco o niente. Di solito sono fissato con la puntualità e mi catapulto allo stadio almeno con un’ora e mezzo di anticipo, fra l’ironia dei colleghi e la sopportazione di chi viene con me. E’ una mania che mi porto dietro da oltre vent’anni e con l’invecchiare peggioro. Quella domenica avrei voluto essere in piazza Santa Croce – dove sarebbe stata esposta la salma del presidente – fin dalla mattina, ma mi feci convincere da Letizia (“ma quanta gente vuoi che ci vada?”) a pranzare alla solita ora. Mai scelta si rivelò così sbagliata. Trovai una folla enorme, mi feci largo a furia di gomitate e mi presentai in chiesa appena cinque minuti prima dell’arrivo della bara. Luna era inferocito e ruggì in romanesco qualcosa di incomprensibile e di sinceramente poco adatto al luogo. Lo calmammo con un filmato tutto dissolvenze realizzato da Franco Boldrini, un “Ciao Mario” che chi ha lavorato in quegli anni a Canale Dieci non può aver dimenticato, perché fu programmato almeno una trentina di volte nei due mesi successivi.
Qualche ora dopo il ruggito di Luna realizzai un piccolo scoop, riuscendo ad intervistare in contemporanea Vittorio Cecchi Gori e Giampiero Boniperti, il presidente della Juventus, solitamente molto restio a presentarsi davanti alle telecamere. Il servizio andò in onda sul TG sportivo nazionale della Rai, senza che fosse annunciato chi fosse l’autore: un grande smacco per uno che, come mi ricordava spesso Sandro Picchi, avrebbe firmato anche le lettere anonime.

NOTTE IN BIANCO
Quanta fiele ho inghiottito nei nove anni di Canale Dieci e quante notti insonni! Adesso mi dico che sono stato proprio un bischero a prendermela tanto, ma il carattere è quello e non si cambia. La prima volta che minacciarono di cacciarmi fu nel dicembre 1993, grazie al contributo indispensabile del dottor Paolo Giuliani, il nuovo direttore generale, arrivato non si sa come in viola. Tutto, come spesso accade in queste circostanze, fu frutto del caso. Eravamo appena scesi dall’aereo ad Ascoli, e al momento del collegamento con la radio mi trovai accanto a Furio Valcareggi. Era il procuratore di Malusci, che il giorno dopo sarebbe andato in panchina per far posto a D’Anna. Lo feci intervenire, pensando a delle normali dichiarazioni. Non so bene cosa gli fosse passato per la testa, fatto sta che Valcareggi junior cominciò a sparare a zero contro la Fiorentina, accennando anche ad imprecisate minacce fisiche che erano arrivate sia a lui che a Malusci. L’Ansa rilanciò l’intervista e all’ora di cena, mentre stavo per addentare le prime fantastiche olive ascolane, mi chiamò l’esimio dottor Giuliani.
«Che casino hai combinato con la tua radio di mer…! Ma io ti faccio cacciare da Canale Dieci! Tu sei fuori, capito, tu sei fuori!!! Non ti presentare mai più!». La logica perversa di Giuliani era la seguente: Furio Valcareggi aveva parlato male della società a Radio Blu, di cui io ero il direttore, per questo me ne dovevo andare da Canale Dieci. Fantastico. Senza contare che Giuliani con Canale Dieci non c’entrava niente. Mi attaccai al telefono con mezzo mondo, ma quasi tutti quelli dell’entourage viola si negavano o rimanevano nel vago. Col complesso di persecuzione ereditato dai miei avi e che mi porto dietro da sempre, mi sentii perso: ero caduto in disgrazia ed il mondo mi odiava senza che ci fosse un vero perché. Grassia da Milano mi tranquillizzò, dicendomi di non preoccuparmi, ma passai lo stesso la notte in bianco.
Alle sette del mattino svegliai l’intera famiglia Fanetti. Paolo mi assicurò che nel tardo pomeriggio ci sarebbe stato un incontro chiarificatore con Luna. Beccai dall’imperatore una paternale ridicola, tutta basata sul tradimento della fiducia che mi era sta concessa. Non replicai, anche perché ero distrutto da una giornata di grande tensione. Arrivò anche la tremenda punizione: ad Ascoli non avrei realizzato le interviste del dopo la partita, sai che roba. Incontrai Giuliani allo stadio di Ascoli: mi salutò come se non fosse mai successo niente e mi parlò del programma viola della settimana successiva. Quando nel giugno successivo (lui) venne finalmente cacciato dalla Fiorentina, offrii da bere a tutta la redazione.

RIMOZIONE
E’ strano a dirsi, ma di quell’anno in serie B mi sono rimaste impresse soprattutto le sconfitte, specialmente quella di Ascoli e di Brescia, dove l’agente di polizia penitenziaria Cardona fischiò quattro rigori in novanta minuti. Le vittorie diventarono quasi un atto dovuto, molto belle furono quelle di Palermo, perché alla prima giornata, e Bari, con un gol di Banchelli a tempo scaduto. Speravamo di lavare l’onta della retrocessione con la Coppa Italia, ma venimmo eliminati dal Venezia, che aveva già fatto fuori la Juve. Nella gara di ritorno avevamo allestito un collegamento con la signora Valeria Cecchi Gori, vedova da poco più di un mese. Volevo sapere se era tutto a posto, ma dallo studio non davano segni di vita e dopo un minuto di silenzio, pensando di essere in pre-ascolto, sparai un’imprecazione da osteria che venne ascoltata dall’allibita (immagino) signora Cecchi Gori e dal resto del popolo viola sintonizzato su Radio Blu.
Fu in quella stagione che assistemmo all’unica sostituzione tecnica in viola di Batistuta: contro il Verona in casa, Ranieri osò toglierlo per far posto a Zironelli, che poi segnò la rete del vantaggio. Gabriel negli spogliatoi disse che andava bene così, prima veniva la squadra e poi il singolo. Quando arrivò la matematica promozione, nessuno fece festa e la cosa turbò molto i nuovi arrivati che non avevano nessun “debito” da pagare. Non si poteva dar loro torto, ma bisognava aver vissuto lo strazio dell’estate prima per capire lo stato d’animo dei tifosi.

TELEFONATA E NUVOLE
Interno di casa Guetta, più precisamente il salotto. Metà aprile 1994, ora di cena, suona il cellulare.
«A Gue’, so Luna, ma che caz… di domande vai a fa’ a Ranieri?»
«Scusa Luciano, ma a quale domanda ti riferisci?»
«Che me lo sta anche a chiede? Sei andato a domandargli se rinnova o no il contratto per l’anno prossimo!»
«E allora? Se lo chiedono tutti, noi facciamo un telegiornale e chi ci guarda vuole sapere»
«Tu quelle cose lì non gliele devi domandare, hai capito?»
«Ma perché?»
«Perché no, e basta»
«Guarda che se ricapita, io glielo richiedo»
«Vaffanc…».
Grande indimenticabile Luna, l’uomo che fece stare in casa per un week-end di primavera del 1994 quei poveri toscani della costa che seguivano Canale Dieci. Era infatti appena arrivato un nuovo sistema computerizzato per il meteo e Lucianone nostro sembrava felice come un bambino perché potevano essere utilizzati tanti bei simboli, comprese le saette dei temporali. Peccato che per il giorno successivo fosse previsto tempo splendido in tutta la regione. Luna si corrucciò per un attimo e poi ebbe la pensata geniale. «Aho – disse all’attonito tecnico – qui c’è troppo vuoto, mettiamo delle nuvole da qualche parte. Ecco, qua a sinistra, vicino al mare, ci stanno bene. E anche qualche saetta». Indimenticabile.

L’ORLANDO FURIOSO
Al suo quarto bidone in radio mi arrabbiai di brutto e sparai a zero contro Massimo Orlando, che, lo seppi dopo, stava vivendo un periodo difficile. Per me la cosa era finita lì, ma dopo pochi giorni venni convocato dall’ormai ex enfant prodige viola. E’ interessante a questo punto ricordare come, dopo una prima disastrosa esperienza, la Fiorentina per anni non abbia avuto un addetto stampa, ognuno faceva quello che gli pareva, giocatori e giornalisti. Orlando mi disse che non mi picchiava perché non voleva rovinarsi ed io pensai tra me e me che tutto sommato avrei tranquillamente potuto reggere la scazzottata. In compenso minacciò che mi avrebbe fatto cacciare da Canale Dieci: ma allora era una fissazione! Dissi che andava bene, che aspettavo la lettera di licenziamento e me ne andai. La settimana dopo mi chiamò direttamente Vittorio Cecchi Gori. Con una calma insolita per lui, mi spiegò che io ed Orlando dovevamo andare d’accordo perché «eravamo due colonne della Fiorentina e quindi dovevamo per forza fare pace». Riparlai con Orlando solo nel settembre del 1995, al ritorno dalla sua esperienza poco felice al Milan. Ritrovammo in cinque minuti il vecchio affiatamento e per anni è stato uno dei miei più affezionati ospiti salva-trasmissione, cioè quei personaggi che i tifosi vedono volentieri e che puoi chiamare anche il giorno prima. Non un amico, ma quasi.

1993/94

L’inizio con Canale Dieci fu molto cinematografico. Venni convocato da Luna, che mi chiese di preparargli un “soggetto” per presentare le avversarie della Fiorentina: città, storia della squadra, tanto colore, interviste al sindaco e ai personaggi. Nessun accenno alle spese da sostenere, ma si capiva che non rappresentavano un problema. Era una rivoluzione copernicana rispetto ai miei primi dieci anni in televisione, basta pensare che nelle ultime tre stagioni non ero mai riuscito ad ottenere da Tvr lo straccio di una telecamera che venisse a riprendere un’intervista… Scrissi una specie di sceneggiatura, consegnai il manoscritto e venni invitato per una cena a Radda in Chianti, dove incontrai per la prima volta Paolo Fanetti, una delle persone migliori conosciute in nove anni di vita nel gruppo Cecchi Gori. Non ho mai saputo se Luna si sia accorto che non capivo niente di tutte le sue disquisizioni sui campi larghi e campi stretti da utilizzare per quei fantastici reportage che, per fortuna delle casse di Canale Dieci, rimasero solo nella testa di Lucianone nostro. Dissi sì a tutti gli accorgimenti tecnici suggeriti, chiedendomi se ero stato convocato come giornalista o ipotetico aiuto regista. A dirigere la televisione per fortuna non venne ingaggiato Mario Monicelli, ma Filippo Grassia, un nome di rilevanza nazionale, che aveva guidato il Guerin Sportivo e la redazione sportiva de La Stampa: un grande professionista, capace di stare sette ore in video senza mai fermarsi. Cominciava una nuova avventura.

RITIRO BOLLENTE
Dopo il dolore della retrocessione, il primo dei quattro consecutivi ritiri a Roccaporena (luogo ideale per la penitenza) si presentò delicatissimo. Per commentare la classica uscita stagionale contro i dilettanti del posto mandai allo sbaraglio il giovane Selvi ed il povero Francesco non riuscì nemmeno a finire la telecronaca a causa delle intemperanze dei tifosi alle sue spalle. Batistuta non c’era perché impegnato con la Nazionale, in compenso erano arrivati in viola Bruno, Tedesco, Campolo e Di Sole, e soprattutto Robbiati e Toldo, all’inizio in ballottaggio con Scalabrelli. Laudrup se ne era andato in prestito al Milan, mentre Effenberg venne trattenuto contro la sua volontà, quasi come punizione per il comportamento tenuto nei mesi precedenti. Non c’erano confronti con le altre squadre di serie B, anche se Baiano si fece male subito e restò fuori per sei mesi. Uno dei migliori fu Carnasciali, che nonostante la serie B continuò ad essere convocato in Nazionale: un buon difensore da inserire tra i non molti uomini con la testa sulle spalle conosciuti in oltre vent’anni di calcio. Il nuovo allenatore Ranieri fu bravo a gestire l’ambiente, tenendo sempre ben pigiato il pedale del freno. Questo atteggiamento gli costò l’amore dei tifosi più caldi, che avrebbero preferito un tecnico più sanguigno, ma con Ranieri la Fiorentina ottenne i migliori risultati degli ultimi trentacinque anni.

SIMPATICO QUESTO TOLDO
Il primo impatto con Toldo fu subito positivo. Arrivai apposta a Roccaporena per intervistarlo e mi trovai di fronte ad una pertica lunga quasi due metri, dalla faccia simpaticissima. Scoprii che non possedeva il telefonino e questa storia diventò fra noi un tormentone durato almeno due anni. Solo alla prima convocazione in Nazionale, Toldo si arrese alla dittatura del cellulare. All’inizio del nostro rapporto mi ero messo in testa di farlo diventare per forza una star della televisione, perché la sua simpatia era veramente contagiosa, e nella stagione successiva lo costrinsi a girare con Cois uno spot per i prodotti ufficiali della Fiorentina. Gli ho rotto per mesi le scatole con la storia che doveva laurearsi, o almeno diplomarsi all’Isef, perché intuivo che non avrebbe avuto grandi problemi nello studio: ha frequentato per un po’ di tempo e poi ha lasciato perdere. Peccato. Non si è mai arrabbiato quando l’ho criticato, semmai si è messo a spiegarmi pazientemente perché su quel pallone era proprio impossibile arrivarci. Non è mai cambiato da quando l’ho conosciuto la prima volta e quel gran cuore viola di Luciano Dati mi ha raccontato che Toldo è stato l’unico a chiedergli se aveva bisogno di un aiuto economico nell’anno in cui alla Fiorentina pagavano un mese sì e quattro no. Si impegna molto nel sociale, ma evita di farlo sapere per una forma di pudore ereditata dai genitori. Ci sono tanti minimi episodi che fanno di Francesco un giocatore fuori dai classici stereotipi del campione viziato. L’ultimo è avvenuto un’ora e mezzo prima del derby Inter-Milan. Suona il mio cellulare ed è lui dal pullman che chiede a bassa voce, per non essere ascoltato dai compagni, se mi era arrivata la sua maglia con dedica per un bambino a cui avevo promesso il regalo. So che ha Firenze nel cuore: sarò pure un inguaribile romantico, ma mi piacerebbe che giocasse da noi l’ultima stagione della sua splendida carriera.

VOGLIO CONOSCERE GUETTA
Richiesta più che legittima, rivolta polemicamente da Ranieri ai quei pochi giornalisti presenti ad un amichevole a Viareggio. Era successo che in una delle tante “prove tecniche di trasmissione”, Luna decidesse di riprendere l’amichevole della Fiorentina a Livorno, una partita che non sarebbe stata trasmessa, ma vista solo dalla squadra in una seduta di allenamento a porte chiuse. In pratica, mi esibivo per pochi intimi. Potevo quindi tranquillamente evitare di criticare, ed invece finii per raccontare la partita alla mia maniera, che piacesse o meno. Fu grande la Righini nel rispondere a Ranieri che «Guetta è il radiocronista più seguito a Firenze ed in questa stagione, con la squadra in B, lo sarà ancora di più». Grazie ancora, Manuela.

GUARDA CHE NON SIAMO IN SERIE A
Fantastico il mio approccio alla serie cadetta. La Fiorentina esordisce a Palermo ed io decido di non dare da studio i risultati della B, interpretando così al meglio il sentimento dei tifosi, che si sentivano ancora (giustamente) in serie A. Al decimo minuto chiedo il riepilogo dagli altri campi della massima serie e nessuno ha ancora segnato. Vado avanti con la radiocronaca, segna Banchelli e rendo ancora la linea alla regia per sapere se qualcuno in serie A è andato in gol. Niente. Al venticinquesimo minuto comincio a parlare di evento storico, perché non mi ricordavo un campionato in cui la prima rete si facesse attendere così a lungo. Finalmente, al trentacinquesimo del primo tempo vengo soccorso da una voce misericordiosa al cellulare di Luca Speciale: «dite a David che la serie A è partita con mezz’ora di ritardo rispetto alla B, forse era un po’ difficile che qualcuno riuscisse a fare gol…».
Uno dei pochi a darci una mano in quei mesi di Purgatorio calcistico fu il grande Paolo Beldì, che inventò da zero una trasmissione destinata ad avere un successo enorme: “Quelli che il calcio…”. Insospettabilmente tifoso viola, ma di quelli veramente malati per la propria squadra, Beldì infilò la Fiorentina dappertutto, con tormentoni particolarmente apprezzati dai tifosi, tipo mettere l’inno di Narciso Parigi ogni volta che Batistuta e compagni segnavano. E anche quello fu un modo per spiegare al mondo che non eravamo spariti dal calcio che conta.

CAPOCLASSE
Non sono mai diventato giornalista a tempo pieno, ma ho in compenso traghettato verso la professione un discreto numero di aspiranti cronisti. Come direbbe Sandro Picchi, uno dei pochi che mi abbia davvero insegnato qualcosa, anch’io “ho fatto i miei danniâ€?. Ho così scoperto nel tempo una vena da talent scout che non avrei mai immaginato di possedere. Il primo vero “discepoloâ€? fu Luca Speciale, che nel giugno del 1992 si dichiarò “pronto a lavare i pavimenti per terraâ€? pur di entrare nella redazione di Radio Blu. Nessuno gli ha mai dato in mano lo spazzolone ed il cencio, ma piuttosto qualche consiglio ed una fiducia totale, ripagata fino a quando non gli ho fatto incontrare qualcuno più importante di me. Mi è andata molto meglio con Francesco Selvi, una specie di fratello minore, che non mi ha mai deluso. Speciale e Selvi, sono stati regolarmente assunti e adesso lavorano in una televisione nazionale. Poi ci sono i più sfortunati, cioè quelli che sono arrivati troppo tardi sulla scena e che hanno trovato tutte le caselle occupate. Penso ad un talento come Niccolò Ceccarini, ad Ilaria Masini, a Leonardo Bardazzi, a Valentina Conte, ad Ernesto Poesio. Tutti ragazzi che in un Paese normale, con regole di accesso alla professione normali, farebbero “normalmenteâ€? i giornalisti e che invece si sbattono ogni giorno per raccattare alla fine del mese, sette, ottocento euro, quando va bene. Il fatto è che non esistono vie di mezzo: se sei assunto tutto ti è dovuto, altrimenti sei veramente sulla strada e devi addirittura ringraziare chi ti fa scrivere articoli e condurre trasmissioni pagandoti cifre ridicole. A pensarci bene non è del tutto esatto affermare, come ho fatto in precedenza, che il giornalismo è un mestiere da puttane, perché almeno le signore in questione incassano per i loro servizi cifre molto più consistenti.

FRAMMENTI DI UN DISASTRO
Il frullatore della memoria ha selezionato nel tempo alcune fotografie del primo crollo viola. Il gol di Branca dopo nove secondi ad Udine. Una radiocronaca trasmessa da Ancona con trentanove di febbre. Le reti in fuorigioco di Savicevic a Milano. L’ammonizione di Batistuta per aver esultato dopo il gol di Fiorentina-Brescia e poco dopo la sua espulsione. La partita a porte chiuse a Verona contro il Cagliari, vinta in rimonta col batticuore. La prima rete contro di Baggio a Torino e il susseguente esonero di Agroppi. Il dolore e la stanchezza di Mario Cecchi Gori a Bergamo, dopo la sconfitta fatale. Gli inutili tentativi del Torino di farci segnare in una partita che con dirigenti più scaltri poteva essere “giocataâ€? meglio. Ed infine il giorno che ogni fiorentino non potrà mai dimenticare: il 6 giugno 1993. La retrocessione.
Quel pomeriggio mi fece una gran pena vedere Mario e Valeria Cecchi Gori andarsene via dallo stadio scortati dalla polizia, neanche fossero stati dei delinquenti. Lui era bianco come un cencio ed impaurito, lei piangeva. Sono sicuro che nessun tifoso avrebbe mai alzato un dito contro di loro, al massimo ci sarebbe stata qualche fischio. Quella domenica c’era spazio solo per il dolore di essere finiti in B, un dolore quasi fisico, che ognuno viveva a modo suo. Tornai a casa distrutto, mi buttai sul divano e dissi a Letizia che era tutto finito, che con la Fiorentina in B anche le mie radiocronache e le mie trasmissioni non avevano più senso. Distrattamente mi misi a guardare le immagini della domenica e solo allora mi resi conto del bel regalo di Carnevale e della Roma: avevano graziato l’Udinese, mandandoci con loro massima goduria all’inferno.

TU SSSPARA
Il lunedì dopo la retrocessione mi invitarono al “Processo del lunedìâ€? e per uno strano gioco di rifiuti e veti incrociati mi ritrovai ad essere l’unico giornalista fiorentino presente in studio. Mentre ero a mangiare nella mensa della Rai, si avvicinò Biscardi. «Tu sei Guetta, vero? Bene, non avere paura, tu ssspara tutto quello che ti vieni in mente. Ricordati che rappresenti Firenze!!». Figuriamoci se mi lasciavo scappare l’occasione. Ero incavolato nero per la B e per niente emozionato per il fatto di andare in prima serata in tutta Italia. Feci il diavolo a quattro con punte di populismo perfino imbarazzanti. Urlai a piena voce che volevo rivedere alla moviola il tiro moscio di Carnevale a porta vuota e, naturalmente, non venni accontentato. Polemizzai pesantemente con il presidente del Cagliari Cellino e sbottai in un roboante «siete tutti d’accordo!», che mi fece sentire per un attimo un arruffapopolo televisivo collocabile a metà strada tra Sgarbi e Vittorio Cecchi Gori. A fine trasmissione, ero esausto e nemmeno feci caso ai complimenti di Biscardi. Niente in confronto alle ovazioni fiorentine del giorno dopo. Ero in tribunale per la prima udienza della separazione e mi ritrovai a firmare autografi, mentre l’avvocato cercava di darmi gli ultimi suggerimenti qualche minuto prima del combattimento che si sarebbe tenuto senza esclusione di colpi davanti al giudice Sebastiano Puliga, lo stesso che otto anni più tardi si sarebbe occupato del fallimento della Fiorentina.

« Pagina precedentePagina successiva »