1992/93
Le notizie che arrivavano da Roma erano curiose, ma per il momento non preoccupanti. Sembrava che Vittorino volesse occuparsi sempre di più della Fiorentina, anche perché rivendicava (giustamente) il merito di aver scoperto Batistuta. Per noi che eravamo stati abituati ad avere a che fare con quattro, cinque, sei Pontello, non era poi un gran problema. Anzi, questo Vittorio Cecchi Gori non solo divertiva, ma prometteva di farci scrivere e parlare tanto. Fu di Vittorino l’idea della presentazione all’americana della squadra in piazza Santa Croce, con inevitabile bagno di folla. Vennero ingaggiati alcune star cinematografiche di conclamata fede laziale o romanista, a presentare Gianni Minà, che almeno, in quanto tifoso granata, era gemellato con noi. In mezzo alle solite banalità, venne promessa una Fiorentina brillante, che avrebbe puntato come minimo all’Europa. Molto defilato sotto il palco stava un amico di Vittorio dei tempi del liceo, Luciano Luna, un personaggio che avevo conosciuto ad aprile, di ritorno dalla sua prima missione calcistica. Era infatti stato in Germania a “valutareâ€? Effenberg, all’epoca in corsa con Stoichkov per vestire la maglia viola. «Sono solo un uomo di cinema – mi disse – e sono andato a Monaco per fare un piacere a Vittorio. State tranquilli, non mi occuperò mai di calcio». Infatti.

CHE CE NE FACCIAMO DI DUNGA?
La domanda, che presupponeva già la risposta, venne rivolta da Vittorio prima al babbo Mario e poi al tecnico Radice. Il brasiliano, annusando l’aria prima di tutti, aveva già capito che con il rampollo Cecchi Gori tra i piedi le cose sarebbero cambiate, anche e soprattutto per la sua leadership, fino a quel momento indiscussa. Per questo Dunga non perdeva occasione per lanciare frecciate al vice presidente. Oltretutto si era clamorosamente sbagliato su Batistuta e adesso si trovava in chiara difficoltà.
A Vittorino Dunga non piaceva neanche tecnicamente, innamorato com’era dei talenti geniali e discontinui alla Massimo Orlando, e così in pochi mesi riuscì a convincere il tecnico che il vecchio capitano era ormai un peso per la squadra. Effenberg, Di Mauro, Iachini, Dell’Oglio e Laudrup potevano bastare per fare una grande Fiorentina. Dunga fu umiliato, mandato ad allenarsi in Primavera, alla prima occasione spedito a Pescara e dato per finito. Nemmeno due anni dopo avrebbe alzato, da capitano del Brasile, la Coppa del Mondo.

TUTTI A CANALE DIECI
Nell’estate una buona notizia aveva scombussolato le vacanze di quella pattuglia di disperati ormai non più giovanissimi che si muoveva nel torbido mondo dell’emittenza privata locale: i Cecchi Gori avevano comprato, strapagandola, Canale Dieci e volevano costruire una super televisione. Come ai tempi dello sbarco fiorentino di Repubblica cominciò una corsa ad entrare che lasciò sul campo diverse vittime. Ero molto meno motivato di quattro anni prima, ma decisi lo stesso di partecipare alla gara. Stavolta partivo avvantaggiato dal fatto che Mario ascoltasse le mie radiocronache ed in teoria non avrebbero dovuto esserci dei Sandrelli di mezzo. Su suggerimento di Ugo Poggi, che avevo conosciuto ai tempi della Rondinella, presi appuntamento in sede con un signore sconosciuto, tal Paolo Cardini. In dieci minuti Cardini mi liquidò, mostrandomi le domande di impiego o collaborazione arrivate fino a quel giorno: voleva che capissi quanto sarebbe stato difficile aiutarmi. C’erano tutti, ma proprio tutti i volti televisivi e le voci radiofoniche regionali che chiedevano di tentare la nuova avventura. Ed è per questo che qualche anno dopo mi veniva da ridere, o da piangere, sentendo le stesse persone rivendicare rabbiosamente la «nostra autonomia professionale, perché questa è una televisione libera», lasciando malignamente capire quanto invece Canale Dieci fosse legata a certe logiche padronali. Certo, come no, peccato solo non poterle mostrare adesso certe raccomandazioni e certe richieste.
Canale Dieci comunque non partì per tutta la stagione e le cose cominciarono a smuoversi solo nell’agosto 1993. Fu allora che il braccio destro di Luna, Paolo Fanetti, fece il mio nome all’imperatore (così era chiamato Lucianone nostro da chi gli lavorava accanto) per le telecronache.

ALL’ATTACCO, ALL’ATTACCO
Radice capì alla svelta che bisognava rispondere non ad uno, ma a due presidenti e che il secondo, Vittorino, avendo la fissa degli attaccanti, era molto più pericoloso del primo. Per questo non forzò troppo la preparazione e schierò subito una formazione votata all’offensiva, con dentro tutti insieme Batistuta, Baiano, Orlando, Effenberg e Laudrup. Un azzardo già tentato con successo da De Sisti nove anni prima, ma con una squadra nettamente più forte. Ecco, se allo splendido impianto della stagione 83/84 fosse stato aggiunto Batistuta, quasi sicuramente quella Fiorentina avrebbe vinto lo scudetto, ma qui siamo, me ne rendo conto, al fantacalcio. Più concretamente, la squadra di Radice passava da vittorie eclatanti (sette a uno contro l’Ancona) a sconfitte clamorose (tre a sette contro il Milan), l’importante era non esaltarsi o deprimersi troppo. Su una cosa però il tecnico era intransigente: non voleva intromissioni dirigenziali nello spogliatoio e sulla formazione. Figuriamoci con uno come Vittorio, che poteva vantare addirittura un passato calcistico nelle giovanili della Lazio. Non ci volle molto a far salire la tensione tra i due.

MILANO
Per l’ultimo periodo della mia borsa di studio avevo chiesto ed ottenuto di andare a Panorama a Milano, che ho sempre preferito a Roma come città. L’inizio dell’avventura a Segrate fu quasi choccante, perché a Firenze conoscevo quasi tutti i giornalisti e quindi sia a La Nazione che all’Ansa non avevo avuto problemi di ambientamento. A Panorama invece mi misero nella redazione di economia, dove per almeno una settimana non parlai con nessuno, limitandomi ai saluti formali la mattina e la sera. Siccome mi annoiavo a morte, e non potevo certo stare a leggere tutto il giorno, iniziai a contattare via telefono i clienti fiorentini per la pubblicità alla radio e questo incuriosì i compagni di stanza, che cominciarono ad interessarsi alle mie attività collaterali. La situazione si sbloccò definitivamente quando scoprirono che mi ricordavo a memoria gli scudetti e le formazioni di molte squadre, a partire dal 1966. Cominciai a scrivere di economia e di costume, scoprendo finalmente come mai a Panorama siano così documentati su tutto. Il segreto è l’archivio della Mondadori, semplicemente formidabile: tu chiedi qualcosa e dal sottosuolo ti arrivano le notizie più disparate sull’argomento, che si tratti di tiro con l’arco o delle adozioni a distanza.
Ogni venerdì pomeriggio partivo di volata per arrivare in tempo a condurre il Pentasport radiotelevisivo in un crescendo di stress e di stanchezza. Alla fine dei quattro mesi mi chiesero se volevo rimanere come collaboratore di Panorama a Milano, ma avrei dovuto mollare tutto e vivere come quei trentenni che vagavano nell’open space di Segrate, sperando ogni settimana di piazzare il proprio pezzo. Meglio, molto meglio Firenze, per un provinciale come me.

IL DANNO
Il 3 gennaio 1993 la Fiorentina aveva perso in casa forse immeritatamente contro l’Atalanta e stavamo un po’ stancamente aspettando nel dopo partita che si presentasse Radice per spiegare l’inaspettata sconfitta. Dopo una quarantina di minuti qualcuno cominciò ad insospettirsi ed il resto della storia la conoscono tutti, compreso il furioso tentativo di Vittorino di entrare nello spogliatoio per un tentativo di processo sommario, il successivo licenziamento di Radice e le minacce di “farci fare la fine del Bolognaâ€?. Magari ci fossimo fermati lì… Mario Cecchi Gori aveva ascoltato la partita a casa grazie al solito collegamento con Radio Blu e quindi rimaneva solo lo sciagurato figlio a presidiare il campo.
Andammo tutti al Savoy in una serata tragicomica, che si concluse alle una di notte. Vittorio cercava il conforto dei giornalisti per le sue tesi quanto meno originali: «non capisce nulla, Radice non capisce nulla. La cosa migliore sarebbe prendere Chiarugi dalla Primavera e mandarlo in panchina: con i miei consigli tecnici possiamo ancora lottare per lo scudetto, con Radice invece non si va nemmeno in Uefa. Anzi, forse è meglio se l’allenatore lo faccio direttamente io, ma non lo posso fare per i regolamenti… Vabbeh, ci mandiamo Chiarugi e poi gli suggerisco io la formazione».
Non so gli altri, ma io tacqui colpevolmente di fronte a queste farneticazioni. Un po’ perché pensavo che fosse lo sfogo delirante del momento ed un po’ perché, con il fatto che la radiocronaca era trasmessa di straforo, mi conveniva non contraddirlo troppo. Rimasi così in silenzio e d’altra parte, anche se avessi replicato, sarebbe forse servito a qualcosa? Penso proprio di no, e comunque un tecnico vero alla fine lo presero lo stesso. Stavolta, senza che nessuno mi avesse chiesto niente, tornava a Firenze Aldo Agroppi. In pratica un opinionista di Radio Blu era diventato allenatore della Fiorentina: se me lo avessero raccontato qualche anno prima, non ci avrei mai creduto.

CONFUSIONE
Mi ero innamorato, e fin qui niente di male, se non fosse che ero già sposato da più di due anni con colei che avevo sempre considerato l’unica vera donna della mia vita. Andai così via di casa e mi ritrovai in un seminterrato molto pittoresco a due passi da Ponte Vecchio. Vivevo senza più punti fermi, in un caos totale, non molto dissimile a quello in cui era precipitata la Fiorentina. Casasco con i suoi non incantava più nessuno, Agroppi aveva perso il piglio decisionista della sua prima stagione in viola, Mario Cecchi Gori stava sempre peggio di salute. Rimaneva solo Vittorio, che parlava, parlava, parlava. La squadra cominciò a pagare atleticamente una preparazione leggera, qualcuno come Orlando entrò in depressione, altri come Laudrup e soprattutto Effenberg se ne fregavano di tutto e di tutti. In campo e fuori.
Pare che il tedesco prendesse ordini solo dalla moglie Martina e che per rifarsi delle angherie subite in famiglia fosse molto sensibile al fascino delle donne italiane. Come per esempio a Bergamo dove, si dice, prima della decisiva gara contro l’Atalanta, Effenberg realizzò nella notte una splendida doppietta con le compiacenti cameriere dell’albergo del ritiro viola. Poi in campo sbagliò un gol già fatto ed io esplosi con una frase che ancora oggi tanti tifosi ricordano: «me lo mangerei questo tedesco». Le ultime notizie dalla Germania davano Effenberg in fuga d’amore con la moglie di Strunz, un cognome che doveva ricordargli qualcosa della sua breve esperienza italiana.

E’ un neologismo che mi è venuto di getto nel Pentasport domenicale, quando rispondevo alle domande dei tifosi, e che ho riproposto stamani sul Corriere.
Sì, a cominciare da Prandelli, la Fiorentina si sta montolivizzando.
Cioè crede nelle proprie possibilità e adesso non si nasconde più.
Quella battuta del tecnico sugli spiccioli da giocare sullo scudetto viola è uno spartiacque per l’ambiente.
Ieri gli è andato dietro Gamberini, rispondendo ad una domanda dell’ottimo Sardelli (a proposito, sta facendo un lavoro grandioso a Marbella e ci informa tutti a qualsiasi ora del giorno e del pomeriggio, anche oggi con al Befana è regolarmente in onda).
Sembrerebbe una cosa da niente ed invece c’è dietro la consapevolezza di voler fare l’ultimo salto, quello che ci metterebbe alla pari cone le altre tre, o quattro, se vogliamo infilarci anche la Roma.
L’unico dubbio che mi rimane è legato alla città, a quella cristallizzazione di qualsiasi progetto che è ormai diventata la routine del fare politico.
Se i Della Valle rimangono, come probabilissimo, da soli, continueranno a seguire Prandelli e i giocatori nelle loro e nostre ambizioni?

Alberto Gilardino è veramente una gran brava persona: educato, disponibile, fuori dal campo non incarna neanche minimamente lo stereotipo del calciatore che noi tutti abbiamo contribuito a creare con la nostra voglia di costruire idoli.
Dentro il campo è cattivissimo, in senso tecnico, gioca a calcio meglio di Batistuta e Toni, anche se deve dimostrare di essere all’altezza di questi due eccezionali cannonieri (Batistuta più di Toni, per me il paragone non si pone).
La domanda che mi facevo ascoltandolo ieri da Marbella era come diavolo (?!) avessimo fatto a prendere uno così, pagandolo tra l’altro meno di Bojinov.
E non è che arrivasse da promessa incompiuta perché ha già vinto Mondiale, Champions e Mondiale per club.
Una grande intuizione, un lavoro eccellente da parte di tutti: complimenti.

Siamo tutti molto grati ad Osvaldo per i suoi gol, che resteranno comunque nella storia viola.
Pochi, ma molto buoni, anche i due di Livorno, dove la Fiorentina perdeva sempre.
Però, se Prandelli lo sposta tatticamente a punta centrale, come ha fatto questo pomeriggio nelle dichiarazioni da Marbella (a proposito, consentitemi un piccolo moto d’orgoglio: tra tutte le televisioni e le radio fiorentine ce n’è una sola presente laggiù col proprio inviato…), beh, secondo me Osvaldo ha sprecato una grande occasione.
Perché nella Fiorentina di Prandelli un centravanti come lui è proprio atipico e bisognerebbe davvero cambiare gioco per esaltarne le caratteristiche.
Ha imparato poco Osvaldo da questi diciotto mesi con Prandelli, e ogni volta che va in campo sembra che giochi una partita per conto suo, come se gli altri dieci non contassero.
Peccato perché poteva essere una seconda punta importante, ma una seconda punta (lo fa pure Mutu, anche se non sempre) è al servizio della squadra e non viceversa.
Ho l’impressione che partirà Pazzini non solo per l’usura del suo rapporto con Firenze, ma anche perché la sua cessione porterebbe una plusvalenza in bilancio molto forte, visto che è qui dal 2005 e che il suo costo, al contrario di quello di Osvaldo, dovrebbe essere stato quasi del tutto ammortizzato.
Ma se dipendesse solo da una scelta tecnica di Prandelli non sarei mica tanto sicuro su chi lascerebbe Firenze.

Una delle poche cose che ho imparato nella prima metà della mia vita (sono un’ottimista e mi voglio talmente bene che non mi dispiacciono le teorie berlusconiane su quanto staremo in tutto su questa Terra..) è non crearsi delle aspettative troppo grandi.
In questo senso, nel 2009 che è appena iniziato, siamo messi benissimo.
Tutti ci aspettiamo un peggioramento delle nostri condizioni attuali, specialmente a livello economico.
Non so se psicologicamente abbiamo toccato il fondo, ma certamente ci siamo molto vicini.
Non mi stupirei quindi che esattamente tra 365 giorni dicessimo: “Beh, non è mica andata troppo male, o almeno è andata meglio di quanto mi aspettassi!”.
Un augurio davvero di cuore a tutti voi, soprattutto per la salute, che è poi la cosa più importante che abbiamo.

SENZA INFAMIA E SENZA LODE
Gigi Radice non era più quello di diciotto anni prima, cioè l’uomo tutta energia capace di costruire una bellissima squadra nella stagione 1973/74. Non era però il solo ad essere cambiato dai tempi della sua prima esperienza fiorentina, basta pensare all’intero ambiente del calcio, sempre più preso d’assalto da radio e televisioni. E Radice, al contrario del suo amico Trapattoni, non si poteva certo definire un grande comunicatore. Appena seduto sulla panchina viola, il tecnico brianzolo fu abbastanza saggio da capire che non occorrevano rivoluzioni, ma solo maggiore disciplina dentro e fuori dal campo. Rifece in pratica la preparazione e mantenne la Fiorentina sempre qualche punto sopra la zona retrocessione. La difesa era appena passabile, con le amnesie di Malusci, la grinta di Faccenda ed il rendimento costante di Pioli. Carobbi non valeva l’ultimo Di Chiara, che nel frattempo aveva conquistato la Nazionale. A centrocampo Maiellaro deluse anche i suoi più accaniti estimatori e finì addirittura in panchina, mentre Orlando venne paragonato un po’ troppo presto a Baggio. Iachini e soprattutto Dunga rimanevano l’anima di una squadra che se non avesse trovato Batistuta avrebbe faticato non poco a salvarsi. In attacco Borgonovo era ormai solo la controfigura dell’ottimo attaccante che tre anni prima duettava con Baggio, e del Branca fiorentino si ricordano solo le approfondite letture de “Il Sole 24 oreâ€? e i consigli di borsa dispensati ai compagni. Le sue azioni migliori furono quelle comprate in Piazza Affari e così fu sbolognato in tutta fretta all’Udinese.

NASCE L’AMORE
Gigi Radice può comunque vantare un record destinato a durare per chissà quanto tempo: è l’unico allenatore viola che in tre partite a Firenze ha battuto per tre volte la Juventus e sempre per due a zero. Ed il successo del 26 gennaio 1992 coincise anche con il primo “congiungimentoâ€? quasi carnale tra Batistuta e la Fiesole. Al settimo del primo tempo, Bati si infilò alla grande su un cross senza troppe pretese di Carobbi e colpì di testa, lasciando di sasso Tacconi. Quello, credo, fu davvero l’inizio di tutto, perché una rete alla Juve non si dimentica mai, tanto che qualcuno si ricorda ancora oggi di un gol di Tendi ai bianconeri… Poi Gabriel segnò cinque reti nelle successive gare in trasferta e cominciò a volare sempre più in alto, senza fermarsi più.

BOMBER BARTOLELLI
Mario Bartolelli, ipotetico bomber della primavera viola, in fondo è servito a qualcosa. Tutti noi calciatori falliti nel vederlo in allenamento ed in partita abbiamo infatti pensato che se c’era lui nella Fiorentina, un giorno o l’altro sarebbe toccato pure a noi giocare in serie A. Certo una differenza sostanziale esisteva, perché noi, comuni mortali, un babbo potentissimo, dirigente del gruppo Cecchi Gori, non ce lo avevamo. In verità, non è che il povero Bartolelli abbia combinato chissà quali disastri, ma solo perché in prima squadra ha giocato per fortuna appena quattro minuti. In compenso, nella Primavera viola di Mimmo Caso, che nel febbraio 1992 vinse nonostante lui il torneo di Viareggio, Bartolelli era un titolare inamovibile. Quelli veri come Banchelli e Beltrammi si alternavano in panchina, salvo entrare quando la faccenda diventava imbarazzante. E nell’anno della retrocessione chi c’era nelle ultime partite come riserva di Batistuta e Baiano? Ma l’ormai sempre meno giovane Bartolelli, e chi altrimenti? Mentre Casasco bisbigliava ai cronisti che «quel ragazzo era utilizzato troppo poco. Ditelo e scrivetelo, perbacco». Ah, se gli avessimo dato più fiducia!

VITTORINO, VITTORINO
Avevo intanto cominciato a conoscere Vittorio Cecchi Gori. A quei tempi se lo filavano davvero in pochi perché il personaggio numero uno era Mario, carismatico e “fiorentinoâ€? nell’anima. Al secondo posto veniva la signora Valeria, e se proprio si voleva scendere di generazione, era meglio soffermarsi sulla signora Rita Rusic, bellissima. A Firenze mi ero inventato una postazione volante all’ingresso della tribuna d’onore, dove Vittorio arrivava ad un quarto d’ora dal fischio di inizio. Sentendolo parlare in romanesco, la prima volta che lo intervistai gli chiesi ingenuamente se «un giorno o l’altro la Fiorentina sarebbe diventata una passione, come lo è da cinquanta anni per i suoi genitori». Mi incenerì con lo sguardo e mi disse che lui era nato a Firenze, che stravedeva da sempre per i viola e poi tutte quelle cose che avrei sentito ripetere tristemente dieci anni più tardi. Essendo l’unico o quasi che lo avvicinava, cominciò con me ad alzare il tiro delle sue dichiarazioni. Un giorno dette quattro in pagella ai giornalisti di Repubblica, un altro se la prese con chi gli voleva portare via Orlando, che lui considerava come una specie di figlio putativo. Insomma, con Vittorio non ci si annoiava mai. Se mi avessero detto che ci avrebbe rovinato, non ci avrei creduto perché mi sembrava, quello sì, un po’ sopra le righe, ma assolutamente incapace di fare del male. Mi consolo pensando che tanti altri come me hanno sbagliato giudizio.

“Quando sarà che l’uomo potrà imparare, a vivere senza ammazzare e il vento si poserà…”.
Ogni volta che Guccini canta Auschwitz è sempre un brivido, specialmente per quelli come me cresciuti in un certo modo, con certe immagini, portandosi dentro fino ai quattordici/quindici anni verità assolute su Israele, verità che per altri bambini della comunità ebraica magari reggono ancora oggi, ma che nel mio caso si sono invece sgretolate negli anni delle superiori.
Perchè non esiste un torto e una ragione assoluta nella follia palestinese, in questo ammazzarsi da decenni senza che nessuno provi ad insegnare con convinzione una vera cultura della pace.
Io l’ho sempre fatta semplice: due Stati, la restituzione dei territori occupati, la fondamentale esigenza del riconoscimento dello Stato di Israele, ma purtroppo non è così facile.
Perché la cultura dell’odio sta contaminando una generazione dopo l’altra: atroce la rappresentazione del soldato di vent’anni catturato, senza parole i bombardamenti israeliani di ieri.
Qualcosa che, come sempre, mi fa sentire in colpa, come ebreo (non praticante, ma non importa).
Quando finirà?

Ho passato un Natale meraviglioso, stando a casa e non facendo assolutamente niente: stacco assoluto e, siccome mi piace quasi tutto del mio lavoro, a me bastano due giorni per ricaricare le pile.
Approfittando di una congiunzione astrale favorevole (nessuno dei figli malato, due giorni di ferie strappati in ufficio, sosta del campionato) avevo pensato che, visto anche il possibile e auspicabile lungo cammino Uefa della Fiorentina, sarei potuto andare a sciare dall’ultimo dell’anno alla Befana.
Niente: impossibile trovare le due doppie a qualsiasi livello di albergo nella nostra zona adorata, cioè la Val Badia.
Tutto occupato, non entra uno spillo.
Ora, partiamo dal presupposto che io rientri nel 15%, o forse sono anche meno, di persone fortunate che per ora non si accorgono della crisi e che Berlusconi sarebbe orgoglioso della famiglia Guetta per il livello quasi vergognoso di consumismo che abbiamo raggiunto (mi vengono i brividi se penso alla 850 dei vent’anni o alle tante vacanze in tenda a Torre del Lago…), però mi chiedo davvero quanto questa crisi sia un fatto psicologico e quanto invece una realtà.
Probabilmente si sta sempre più allargando la forbice tra chi sta bene e chi fatica ad arrivare alla terza/quarta settimana del mese, e quelli che se la passano più che decentemente non si fanno mancare niente.
Meno che mai durante le feste.

A volte penso a cosa rimanga delle tonnellate di parole che ogni anno facciamo uscire da quel mezzo meraviglioso che è la radio.
Per esempio, quando invito tutti a pensare almeno un minuto della giornata a chi sta peggio di noi (nel mio caso il 90% delle persone che conosco e per questo sono un uomo fortunato).
Mi chiedo se queste cose che dico non siano alla fine un po’ stucchevoli, se cioè chi le ascolta non le interpreti come un puro esercizio di retorica che non costa niente a chi lo mette in pratica.
Per me invece è naturale farlo, ma il discorso va esteso alla valanga di auguri che ci scambiamo in questi giorni.
Ho sempre un retropensiero che non mi abbandona: quanti di noi si sentono obbligati a farlo e si muovono seguono regole di convivenza più o meno civile?
E poi, perché essere buoni e disponibili per convenzione una sola settimana all’anno? E le altre 51?
Intanto continuo col solito meccanismo sugli sms: rispondo solo a quelli personalizzati e non ai seriali e apprezzo moltissimo le ditte che hanno rinunciato a mandarmi il pacco natalizio per devolvere tutto ai vari istituti e/o ospedali fiorentini e toscani.
Dove il Natale è certamente meno Natale che a casa nostra e vostra.
Auguri davvero sinceri a tutti i miei compagni di viaggio.

1991/92

Gabriel Batistuta venne presentato in una serata di agosto in modo perfino esagerato, visto che prima della Coppa America era poco più che uno sconosciuto. La cosa non piacque a Dunga e soprattutto agli altri due attaccanti, Branca e Borgonovo, che si sentivano già messi in secondo piano. Ai primi allenamenti in molti scossero la testa ed effettivamente le prime uscite dell’argentino furono deludenti: Batistuta non sembrava adatto al campionato italiano perché troppo grezzo tecnicamente. Qualche giornalista fiorentino tirò fuori la definizione di “Dertycia con i capelliâ€?, che era una specie di condanna senza appello. Dopo la sua prima esibizione a San Siro, Franco Rossi sul Giorno parlò addirittura di “bidone del secoloâ€?, mentre Lazaroni lo faceva giocare solo per le pressioni societarie, ma non era affatto convinto del suo valore. Tutto questo per dire che Batistuta si è conquistato da solo il successo e che nessuno gli ha mai regalato niente. Il suo grande segreto è stato migliorarsi giorno dopo giorno, non fermandosi mai. E quando dopo poche domeniche cominciò a segnare a raffica, anche chi non lo amava nello spogliatoio capì che doveva fare i conti con lui. Bati non ha mai cercato rivincite personali, ricordandosi però sempre di chi gli è stato accanto in quei difficili giorni dell’autunno 1991: Beppe Iachini, Gian Matteo Mareggini e Massimo Orlando.

IO E BATI
L’ultima volta che ci siamo visti è stata quando la Roma giocò a Firenze, nel febbraio 2002. Stavamo quasi per andare a sbattere l’uno contro l’altro ed era quindi impossibile ignorarci, così abbiamo alzato tutti e due lievemente la testa in un sofferto cenno di saluto. Questa “guerraâ€? con colui che considero il miglior giocatore della storia della Fiorentina, almeno da quando vado allo stadio, è uno di quei passaggi spiacevoli e perfino dolorosi della mia piccola storia professionale.
Eppure l’inizio era stato splendido. Nel febbraio 1992 venni incaricato di andarlo a prendere all’allenamento per accompagnarlo a La Nazione, dove avrebbe condotto un filo diretto con i tifosi. In macchina parlammo di tutto, stabilendo una confidenza che è andata poi rafforzandosi nei suoi primi anni fiorentini. Ricordo le sue partecipazioni al Ring dei Tifosi, quando organizzavamo la trasmissione registrata apposta per lui, oppure il regalo della cassetta audio con dentro i miei urli per i suoi gol e tanti altri piccoli episodi. La frattura tra noi ha una precisa collocazione temporale: metà luglio 1997.
Batistuta non voleva rimanere alla Fiorentina, perché altre squadre gli avevano promesso almeno il doppio di ingaggio e così si barricò in un albergo a Roma, in preda ad una vera e propria crisi di nervi: o gli davano più quattrini o considerava chiusa la sua esperienza in viola. Con la radio realizzammo una diretta fiume dall’hotel dove i Batistuta (c’era anche il padre) ricevevano i dirigenti in un crescendo quasi insostenibile di tensione. Ad un certo punto prese la parola Rinaldo e disse quello che tutti pensavano: «ma che crisi nervosa! Questo qui vuole solo più soldi e non gliene frega niente se ha un contratto già firmato, così come non gliene frega niente della Fiorentina». Apriti cielo! Tutti sentirono quell’intervento, anche e soprattutto gli amici di Batistuta. Alla prima uscita stagionale della Fiorentina di Malesani, io ero in campo per realizzare le interviste di Telemontecarlo e quando mi avvicinai a Gabriel, lui rispose che con me non avrebbe parlato a causa delle dichiarazioni di Rinaldo, che però, a quanto ne sapevo, non era ancora diventato il proprietario di Tmc.
Nell’estate successiva, il tormentone del rifiuto di tornare a Firenze si ripeté ed io moraleggiai un po’ sulla storia dei contratti da onorare e sul fatto che i soldi non sono tutto nella vita. Avevo ragione nella sostanza, ma ancora non sapevo cosa mi sarebbe capitato quaranta mesi dopo, con certa gente che pensava ai quattrini quanto e più di Batistuta, valendo però un decimo del campione argentino. Le cose stavano precipitando e così una sera di ottobre, esasperato da questa polemica, mi misi a sedere accanto a Bati nel viaggio aereo di ritorno da Lecce a Firenze. Parlammo per un’ora, tra la curiosità generale dei suoi compagni e degli altri giornalisti, arrivando ad un compromesso: se Rinaldo avesse chiesto scusa per aver tacciato Batistuta di venalità, i nostri rapporti sarebbero tornati normali. Il che, tradotto nella quotidianità, avrebbe voluto dire che smetteva di chiedere ai giornalisti della mia radio e della mia televisione di passare le sue interviste solo se io non fossi stato presente alla trasmissione. Si poteva addirittura ipotizzare che potessi ospitarlo in qualche programma e che i compagni di squadra del suo giro, chissà, forse avrebbero ricominciato a salutarmi anche quando lui era nei paraggi. Bati voleva inoltre che l’intervento “riparatoreâ€? avvenisse in un momento di grande ascolto. Non fu facile convincere Rinaldo a chiedere scusa, ma poi accettò, per il bene della radio e, credo, soprattutto per affetto nei miei confronti. Il “mea culpaâ€? andò in onda in un dopo partita, mentre eravamo collegati da Ginevra per seguire la sentenza relativa alla bomba carta di Salerno. Registrammo l’intervento e la cassetta fu portata dall’incolpevole Ceccarini al cospetto del divino capitano. «Questa me la metto sulle pa…», rispose Batistuta, decretando di fatto la fine dei nostri rapporti.
Nelle sue ultime stagioni fiorentine ci sono stati momenti perfino comici, tipo quando Bati aspettava in macchina fuori dagli studi di Canale Dieci la moglie Irina. Lei stava imparando a fare televisione e lui non voleva in nessun modo entrare negli studi, cioè nel territorio del “nemicoâ€?. Oppure quando depennò personalmente il mio nome dalla lista degli invitati alla festa del suo viola club, tra l’imbarazzo dei suoi “sottopostiâ€?, che proprio a me si erano rivolti per pubblicizzare al massimo la manifestazione. Certo non sono stato troppo furbo a rimarcare tutte le volte che qualcosa di Batistuta non mi piaceva negli atteggiamenti che teneva fuori dal campo, ma non ho mai smesso di esaltare in radiocronaca le sue incredibili qualità calcistiche. Quando nel maggio del 2000 seimila tifosi invasero il Palazzetto dello Sport per dire no alla sua cessione, un ragazzo fece il mio nome al microfono come simbolo dei nemici di Bati. Ero in studio a condurre la diretta e sentii una fischiata generale nei miei confronti che mi gelò il sangue. Ma avevano ragione loro, perché anch’io, da tifoso, tra Batistuta e Guetta non avrei avuto dubbi su come schierarmi: uno era il campione più straordinario degli ultimi trent’anni e l’altro solo un cronista che raccontava da quasi quattro lustri le partite dei viola. In questi casi non conta chi ha ragione, ma chi ha regalato emozioni.
Prima o poi anche l’immenso Batistuta appenderà le scarpette al chiodo e quel giorno, se sarà possibile e se lo vorrà, mi piacerebbe passarci insieme un’altra ora, come quel viaggio fianco a fianco da Lecce a Firenze, solo che stavolta dovrà essere davvero il punto di partenza per un nuovo rapporto.

CONSIGLIERE INASCOLTATO
A fine settembre la Fiorentina venne sconfitta in casa dalla Roma e i Cecchi Gori decisero di averne abbastanza di Lazaroni. Cominciò così un rifrullo di telefonate fra Roma e Firenze per tastare il polso ai giornalisti che contavano di più. Per la prima volta inserirono anche me nell’illustre lista, un po’ perché Mario continuava a seguire le mie radiocronache e un po’ perché il plenipotenziario del settore cinema, Sergio Bartolelli, aveva il figlio che giocava nella Primavera viola e voleva avere buoni rapporti con tutti quelli che conosceva. E fu proprio Bartolelli a chiamarmi il pomeriggio dell’esonero del tecnico brasiliano. «Siamo incerti tra Radice ed Agroppi, lei Guetta cosa ci consiglia?».
Agroppi lo avevo “scopertoâ€? radiofonicamente nel 1988, e da quell’anno tutti i lunedì commentava per noi il campionato. Nonostante il crescente successo televisivo alla Rai, aveva continuato a titolo totalmente gratuito una collaborazione di cui andavamo fieri. Risposi senza esitazioni: «Agroppi è la scelta giusta, prendetelo e non ve ne pentirete. A Firenze lo ricordano tutti volentieri». Avrei voluto aggiungere «tutti meno Antognoni», ma lasciai perdere. Ovviamente scelsero Radice, pare su consiglio del giornalista Lino Cascioli, ma appena quindici mesi dopo Agroppi arrivò lo stesso.

UE UE UE
Era l’intercalare di Maurizio Casasco, il nuovo direttore sportivo viola. Paracadutato nel dorato mondo calcistico dall’ex ministro Prandini, Casasco era l’uomo che (a parole) aveva una soluzione per tutto. Con i giornalisti applicava una regola vecchia come il cucco, dando ad ognuno di noi la sensazione di essere il depositario dei segreti viola. Certo non si può dire che fosse proprio un portafortuna per le squadre a cui dispensava i suoi illuminanti consigli: quattro squadre negli anni novanta e quattro retrocessioni, tra cui purtroppo quella della Fiorentina. Era comunque un tipo coraggioso. In quella stagione i viola incapparono in una serie di tre sconfitte consecutive, l’ultima delle quali davvero pesante, per quattro a zero a Cagliari. Il martedì dopo ai campini c’era aria di contestazione e così il prode Casasco immolò faccia e camicia alla causa viola. Incurante degli inviti alla prudenza, marciò con passo sicuro verso i tifosi, quando fu centrato in pieno da due uova marce provenienti dagli spalti. Un po’ schifato, si ripulì gli occhiali e tornò grondante di tuorlo negli spogliatoi: «ue, ue, ue – disse sconsolato – con certa gente non si può proprio parlare».

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