Ho conosciuto Cesare Prandelli nel febbraio 2005, mentre arbitrava a Orzinovi una partita di tennis del figlio, non troppo convinto delle decisioni a suo sfavore prese dal padre.

L’incipit della storia racconta tutto il resto: Cesare Prandelli è un uomo onesto, ricco di valori per me importanti, che sa fare molto bene il proprio mestiere di allenatore, ma in un mondo che non è più il suo.

Come tutti quelli che gli sono affezionati mi sono chiesto anch’io se per caso non avessi anch’io qualcosa da farmi perdonare per questo epilogo molto amaro, e pur essendo sempre molto severo con me stesso, stavolta mi sono assolto.

Sono stato onesto nei giudizi, spesso dispiaciuto per le insufficienze che gli ho dato sul Corriere Fiorentino, ma ho adottato con lui lo stesso metro usato, per dire, con Mihajlovic o Delio Rossi.

E in verità non mi pare che ci sia stato chissà quale accanimento mediatico nei suoi confronti, se così fosse stato Cesare lo avrebbe scritto o detto.

E’ un malessere interiore, penso, profondo e irreversibile: la delusione di vedere che non sei riuscito a dare quello che tu e gli altri si aspettavano, un sogno accarezzato dieci anni e poi dissolto per varie ragioni.

Un dolore che va rispettato e che, passato il tempo del dispiacere, ce lo renderà ancora più vicino a noi.