Quella sera in Versilia non camminavo: volavo.

Che periodo meraviglioso, estate 1980, avevo vent’anni, un grande amore che poi ho rovinato, un sacco di capelli e una passione inestinguibile per il giornalismo.

Mi piazzavo davanti al Teatro Tenda munito di un registratorino da poche lire e soprattutto di una faccia tosta che a pensarci oggi quasi me ne vergogno.

Passarono in tanti e molti furono intervistati senza che nessuno dall’alto me lo chiedesse perché già all’epoca ero l’editore di me stesso. Editore un po’ squattrinato ad essere sinceri: diecimila lire per mettere dieci secondi di pubblicità nel Pentasport e a fine mese difficilmente si arrivava a 200/300 mila lire, ma era tutto bellissimo.

Una sera passa Gianni Minà, mi butto senza paracadute e lo intervisto. Dopo averlo ringraziato, lui non va via è incuriosito dalle mie domande e mi chiede un riferimento perché ha bisogno di ragazzi in gamba che abbiano voglia di fare qualcosa: scrivo emozionato e comincio a sognare.

Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta! Senza uno straccio di raccomandazione, vado dove mi chiede di andare, vado ovunque, la fidanzata capirà: sono un giornalista.

Quella telefonata non è mai arrivata e dopo qualche mese ho pure smesso di pensarci, nel senso che avevo ormai metabolizzato il fatto che non ci sarebbe stata alcuna chiamata al soglio pontificio del giornalismo.

E ogni volta che lo vedevo in televisione ci pensavo, con un pizzico di rammarico che è poi diventata nostalgia per i miei vent’anni.

E ogni volta mi dicevo: ma quanto è bravo.

E come sarebbe stato bello averlo avuto come maestro.