1998/99
Qualche scricchiolio si cominciava qua e là ad avvertire, ma nessuno ci dava troppo peso, ed io meno che mai. Forse perché cresciuto nell’epoca tutto sommato felice dei presidenti “ricchi e scemi” (la definizione era di Giulio Onesti, allora presidente del Coni), pensavo che il calcio fosse immutabile nelle sue certezze e nelle sue anomalie. Tutto a Firenze ci sembrava dovuto. E se Moratti, Berlusconi, Agnelli, Cragnotti, Tanzi e Sensi compravano, Cecchi Gori avrebbe dovuto fare altrettanto: eravamo o no una delle sette sorelle? Sapevamo bene di avere a che fare con uno strano tipo, che andava sopportato per i suoi colpi di testa, ma Vittorio aveva i soldi, e noi solo quelli volevamo per volare in alto. I miliardi che prometteva di spendere servivano a farci dimenticare cosa in realtà valesse il re e tutta la corte di miracoli che si portava dietro. In pratica, barattammo i nostri dubbi con la promessa di un sogno di grandezza che un calcio ormai masochisticamente avviato verso il gigantismo ed il sicuro fallimento vendeva a piene mani. Non tutti ci stettero, qualcuno come Sandro Picchi, Benedetto Ferrara, Alberto Polverosi e Manuela Righini si sforzò di fare il grillo parlante. Io invece ero nel gruppone degli illusi, con l’aggravante del rapporto preferenziale da tempo instaurato con il presidente-senatore-produttore. Quella fu comunque l’ultima stagione veramente felice.

IL MARZIANO TRAP
Trapattoni visto da vicino è esattamente come uno si immagina. Non c’è trucco e non c’è inganno. Quando seppi che sarebbe arrivato alla Fiorentina, mandai Ceccarini a Monaco di Baviera per un’intervista senza preavviso. Fu molto gentile e cominciò a raccontarsi con una semplicità disarmante e qualche strafalcione in italiano. Grazie al Trap arrivai finalmente a scrivere un articolo in prima pagina su La Nazione, solo che era lui a firmarlo. Si trattava infatti del suo saluto ai tifosi, buttato giù da me e approvato al volo da lui, a pochi minuti dall’inizio del suo primo allenamento in viola. Quando dopo pochi giorni ad Abbadia un ragazzo con in mano la bandiera della Fiorentina gli gridò in faccia “vecchio juventino” per offenderlo, lui si fermò per rispondergli: «juventino te lo posso anche passare, ma vecchio, scusa tanto, proprio no». Aveva ragione, perché come spirito dimostrava almeno trent’anni meno dell’età anagrafica. Arrivava sempre per primo al campo, si allenava con i giocatori, faceva le partitelle. Ed era disponibile con tutti, dal grande inviato al ragazzo che scriveva per il giornalino scolastico. Poi, certo, sapeva scegliere benissimo a chi fare le proprie confidenze, e credo che ancora oggi non abbia eguali nell’allenare i giornalisti. Forse Mazzone, ma lo conosco pochissimo.
Dopo gli scontri con Ranieri e le battaglie senza esclusioni di colpi con Malesani, avevo giurato a me stesso che mi sarei morso dieci volte la lingua prima di ingaggiare un nuovo duello con il prossimo tecnico viola, ma con Trapattoni il mio compito fu enormemente avvantaggiato. Entrai subito in sintonia con lui e questo feeling mi aiutò nell’unica volta che lo vidi veramente arrabbiato (e aveva ragione) per una sparata di Mario Ciuffi, che mai aveva digerito l’ingaggio dell’ex bianconero. In una puntata del Pentasport uno scatenato Ciuffi aveva più o meno detto che Trapattoni mandava in campo dei giocatori solo perché aveva degli interessi personali. Cioè, in pratica, prendeva soldi dai procuratori. Il Trap mi chiamò il giorno dopo e mi disse di avere già pronta la querela con risarcimento danni miliardario da chiedere a Ciuffi e devolvere in beneficenza. Gli spiegai che ci sarebbe andata di mezzo Radio Blu e che anch’io, come direttore responsabile, avrei dovuto pagare i danni. Rimase per qualche secondo a riflettere e si calmò un po’ quando gli assicurai che sarebbero arrivate le scuse personali di Ciuffi. Un’ora dopo Mario era allo stadio a parlare e scherzare con lui sulla Juve.
Come gestore di uomini Trapattoni è ancora il massimo, come tecnico è difficile da giudicare perché in questo campo sono pochissimi i giornalisti che possono davvero permettersi di esprimere pareri. Io, partendo dal presupposto che bisognerebbe almeno aver frequentato un corso di allenatori a Coverciano, preferisco astenermi. E, comunque, il ricordo del Trap fiorentino è tra i più piacevoli dei miei vent’anni di Fiorentina.

MICIDIALI
«Più boschi giri e più lupi trovi», questo disse il Trap a Batistuta, che voleva ancora una volta andarsene da Firenze. Per trattenere Edmundo si ricorse ad un patto scellerato con la società, un accordo per cui il geniale brasiliano avrebbe avuto il permesso di partecipare al Carnevale di Rio, e lì in pratica la Fiorentina perse lo scudetto. Per Rui Costa invece non ci fu bisogno di ricorrere a nessuna astuzia: il portoghese era ben felice di rimanere in viola e non pose nessuna condizione. Per tutto il girone di andata i tre dettero spettacolo, trascinando la Fiorentina al titolo di campione d’inverno, grazie anche alle quattro vittorie consecutive iniziali.
In verità i successi in fila avrebbero potuto essere cinque, se a Roma il Trap avesse dato retta al suo quasi infallibile istinto. Per sua stessa ammissione il tecnico, al momento della sostituzione di Edmundo (che mandò platealmente tutti a quel paese), Trapattoni aveva pensato di buttare dentro Firicano, salvo poi ripensarci per questioni extra campo. La domenica prima, infatti, Robbiati e Rui Costa si erano violentemente scontrati e così il Trap mandò in campo Anselmino, come se volesse rincuorarlo. Con Bati in possesso di palla e la Fiorentina in vantaggio, Sant’Anselmo da Lecco si smarcò solo davanti a Chimenti, ma il capitano fece finta di non vedere, preferendo tirare. Trapattoni a fine partita commentò: «con certi atteggiamenti infantili si perdono i campionati». Chissà a chi e cosa faceva riferimento…

BEAUTY E GEL
Guillermo Martinez Amor è stato il primo giocatore che abbia visto arrivare al campo di allenamento con il beauty in mano. Elegantissimo, attraversava il campo di Abbadia San Salvatore con l’aria distaccata dei grandi nobili spagnoli dell’ottocento e sembrava chiedersi: «ma io che ci faccio qui?». Dopo le sue prime prove, ce lo chiedemmo anche noi. Amor sembrava uno di quei fighetti che venivano a giocare nei nostri campi fangosi e che prima delle successive terrificanti mischie ci ammonivano con un frase sospetta: «ragazzi giochiamo pure, ma stiamo attenti. L’importante è non farsi male, mi raccomando». Ecco, se fosse venuto nella nostra squadra di ragazzi, non mi sarei stupito nel vederlo uscire a fine partita pulito come quando era entrato.
Nella stagione successiva il primato di Amor fu però seriamente insidiato da Mijatovic, che oltre al beauty (deve essere una fissazione di chi ha giocato in Spagna) poteva vantare i capelli più impomatati del campionato. Roba da far schiantare di invidia perfino Ugo Poggi. La signorilità di questi due gentiluomini è stata davvero squisita: mai una parola o uno scatto fuori posto, al bando ogni polemica col tecnico che non li faceva giocare per manifesta inferiorità atletica. Solo nel momento dell’addio hanno dimostrato entrambi una curiosa ed insospettabile forma di vitalità. Amor (tre miliardi netti all’anno) ha ingaggiato, perdendola, una durissima battaglia legale per dei premi promessi e non erogati. Mijatovic (quattro miliardi e mezzo netti a stagione) ha in pratica costretto la nuova Fiorentina a cambiare nome perché il giorno dopo il provvidenziale arrivo di Della Valle si è presentato (con una velocità sorprendente rispetto ai suoi movimenti nell’area di rigore avversaria) dall’imprenditore marchigiano per cercare invano di riscuotere quanto doveva ancora dargli Cecchi Gori. Ah, quando si dice la classe.

GODIAMO E RIGODIAMO
Sono i titoli di Stadio in quei fantastici mesi del 1998. Il 15 dicembre è la serata magica in cui crediamo davvero di poter vincere lo scudetto. Una Juve ormai in caduta libera viene battuta a Firenze per uno a zero, con una splendida rete di testa di Batistuta. Ho rivisto decine di volte l’azione del gol con l’audio ambientale dal campo, ad un certo punto si sente un grido: «allarga su Lulù!». Era il Trap dalla panchina che teleguidava Amoroso: palla sulla fascia per Oliveira, cross perfetto per Bati e Peruzzi infilato. Forse Amoroso avrebbe passato lo stesso il pallone sulla sinistra, chissà, ma intanto quella era la dimostrazione che a quasi sessanta anni Trapattoni “viveva” ancora come pochi la partita dalla panchina.
Poi ci rubano due punti a Perugia, dove Cesari (ancora lui!) fischia in pieno recupero un rigore che non c’era per fallo di mano di Amor, ma all’inizio del 1999 riusciamo ad ottenere quattro vittorie nelle prime cinque partite. Ormai non ci ferma più nessuno.