Come molti di voi sapranno, sono di religione ebraica e in un giorno speciale come questo vorrei provare a spiegare cosa ha rappresentato la Shoah per un ebreo molto all’acqua di rose come me, non frequentatore della Comunità e in dubbio da una vita se credere o no in Dio.
Per noi ragazzi ebrei nati negli anni del boom economico, cioè negli anni sessanta, quando sembrava che tutto fosse possibile (ed infatti molto è stato possibile) quel martellamento continuo sui campi di concentramento, sullo sterminio di sei milioni di correligionari è sempre sembrato qualcosa di astratto e vicinissimo.
Il senso dell’astrattezza era dato dalla difficoltà di pensare che solo trent’anni prima saresti dovuto scappare, vivere come un animale, finire in una camera a gas, oppure morire di fame in una baracca tedesca.
Impossibile da immaginare come situazione per chi come noi aveva tutto e semmai la sera veniva pressato dai genitori perché non mangiava abbastanza…
Provavi quindi un vago senso di sollievo, ma anche di colpa per essere scampato al martirio per una mera questione temporale, mentre i tuoi avi erano invece morti.
La vicininanza al mattatoio nazifascista è una sensazione che mi accompagna da quando per la prima volta mi hanno detto “ebreo di merda”.
Mi sembra sia stato durante una partita di calcio verso i sedici anni, ma non ha molta importanza, perché a volte me lo ripetono anche adesso, che ne ho quarantacinque.
Così, per spregio e soprattutto ignoranza.
Un modo di insultarmi che ancora mi fa venire il sangue alla testa: non riesco proprio a trattenermi e se ci ragiono capisco che è una spinta interiore ineluttabile, dettata proprio da quei sei milioni di morti.
Poi un giorno, se ne avrò e ne avrete voglia, potremmo anche parlare della questione palestinese.
Intanto però ci dobbiamo chiedere come mai in libere elezioni abbia vinto Hamas: non è che per caso da quelle parti la gente ha subito troppe angherie per non essere fortemente arrabbiata con tutto e con tutti?