Mentre guardavo la foto di Aylan morto su una spiaggia turca cercavo dentro di me qualcosa che mi portasse un po’ più in là della semplice indignazione o del sentirsi in colpa perché davvero Aylan dovrebbe davvero diventare “il figlio di tutti noi”.
Ma questa affermazione, per quanto sincera, odora molto di retorica, perché poi tra tre giorni avremo altre cose di cui occuparci e scivoleremo inevitabilmente nel nostro microcosmo quotidiano fatto a volte di piccole e grande miserie.
Provando a spingere le emozioni su terreni un po’ meno battuti, mi è venuto in mente che anche quando si muore si può essere più o meno fortunati.
Il piccolo Aylan è diventato un simbolo e almeno in questo il padre, unico sopravvissuto della famiglia, avrà qualcosa di cui parlare, una piccola “distrazione” ad un dolore che non riesco nemmeno ad immaginare.
Ma Galip, il fratello di Aylan?
E i migliaia di bambini che muoiono ogni giorno nelle guerre e nelle stive di questi criminali da diporto?
Loro per noi non hanno un nome: scivolano via e basta, come se non fossero mai esistiti, ed è come se fossero morti due volte.