Quando morì Enrico Berlinguer, e domani saranno trent’anni esatti, io ero in Puglia ad aspettare che la Fiorentina si facesse buttare fuori in Coppa Italia dal Bari che stava in serie C.
Quello che provavo in quei giorni (si era sentito male il 7 giugno) è splendidamente sintetizzato da Gaber in “Qualcuno era comunista”: “perché Berlinguer era una brava persona” (e “Andreotti non era una brava persona”, ma questo è un altro discorso).
Con tutta la ruvidezza dei miei vent’anni o poco più riuscivo a capire che era successo qualcosa di gravemente importante, che se ne era andato un gigante, anche se non era mai passato dal terribile test di dover governare, perché stare all’opposizione è sempre molto più semplice.
Io ero uno di quelli che pur non avendo niente a che spartire con la dottrina comunista, per cui provavo una sincera idiosincrasia, votavo PCI proprio perché c’era Berlinguer, e con lui sceglievo uomini e donne (poche, pochissime, ad essere sinceri) di cui sentivo di potermi fidare.
Per una forma di pigrizia mentale, ed avendo avuto “il peggior partito socialista d’Europa”, ho continuato a dare il mio voto ai successori di Berlinguer, che spesso neanche lo meritavano.
Quella morte fu uno spartiacque: a rendere omaggio alla salma venne pure Giorgio Almirante, il nemico di una vita, un fascista che avrebbe fatto certamente fucilare Berlinguer quaranta anni prima a Salò, ma che nel 1984, dopo decenni di battaglie politiche, ne riconosceva la grandezza morale.
Dopo sarebbe arrivata Tangentopoli, che c’era anche prima, Berlusconi e tutto il circo che ci siamo meritati e Berlinguer ci manca ancora di più di trent’anni fa.