Estate 1974 o 1975, non ricordo bene, ma tanto cambia poco.
Avevo fondato l’ennesimo giornalino che si chiamava Gazzettino Junior, lo seguivo con Massimo Lopes Pegna, mio amico fraterno, oggi corrispondente de La Gazzetta dello Sport da New York.
Ci piaceva tanto l’atletica, ricordo che eravamo quasi impazziti per l’italo-sudafricano Marcello Fiasconaro, che nel 1973 aveva fatto a sorpresa il record del mondo sugli 800 metri a Milano con 1.43.7 (lo ricordo a memoria, non ho bisogno di consultare archivi).
Poi c’era lui, un dio dell’atletica, inarrivabile, l’unico bianco con Borzov rispettato e temuto dagli americani: Pietro Paolo Mennea.
Io non so come fu e se ci penso oggi devo confessare di provare molta tenerezza per quel quattordi/quindicenne che già allora rompeva le scatole per fare cose, conoscere campioni, provare a scrivere qualcosa.
Il fatto è che riuscii davvero ad avvicinare Mennea e lo intervistai per il mio giornalino, dopo praticamente decollai in orbita e riuscii pure (non so come) a far mettere una foto del campione sul cartoncino che faceva da copertina alle sedici pagine ciclostilate che rappresentavano il centro della mia vita oltre alla Fiorentina e alla scuola (ragazze? Ma quando mai, quelle sarebbero arrivate nella testa e non solo qualche mese più tardi).
Quando ho letto la notizia, è stato un colpo allo stomaco.
Non sapevo niente della sua malattia e mi è anche venuto in mente di quella fantastica estate a Copenaghen, quando riuscimmo in qualche modo a capire che aveva vinto la medaglia d’oro a Mosca.
Un grande italiano, anomalo rispetto alla normale panoramica di campioni dello sport.
Un signore che ha sempre faticato, in pista e fuori, dove non so neanche quante lauree abbia conseguito.
Una vita finita troppo presto e che dovrebbe essere raccontata a chi va a fare le selezioni per il grande fratello o a chi partecipava alle cene eleganti di Arcore o ancora a chi vive da parassita all’ombra della politica e dell’affarismo.