“Ma come? – mi dice Valentina – invexe di stare con noi a casa a vedere un bel film, vai a sentire quella musica preistorica?”.
Benedetta e adorata ragazzina: ancora tre anni e poi sarai convertita anche te alla musica di Guccini, esattamente come successe a me quindicenne nel momento in cui ascoltai per la prima volta “Incontro”.
Una folgorazione, un amore a prima vista che dura ancora.
Basta solo avere la pazienza di seguirlo attentamente, Guccini, di percepire la poesia delle sue parole per capire che è unico, inarrivabile.
Credo che sia rimasto l’ultimo rito collettivo a cui partecipo.
I Mondiali di calcio ormai mi piace più vedermeli da solo, allo stadio sono 25 anni che parlo invece di soffrire la partita e ai concerti non vado da una vita.
Agli altri concerti.
Perché quello di Guccini è qualcosa di speciale, pur essendo quasi irriverente nella sua ripetitività.
Si comincia con “In morte di S.F.” e, non ti puoi sbagliare, si finisce con il trittico nostalgia: “Auschwitz”, “Dio è morto”, “La locomotiva”.
Mai un bis, molte più chiacchiere di un tempo, anche perché a 67 anni non si possono certo pretendere prestazioni mirabolanti sul palco.
E poi quel senso di vaga insoddisfazione con cui te ne vai via, perché avresti voluto sentire almeno altre dieci canzoni imperdibili secondo te che però lui non ha cantato.
Ma quando l’anno prossimo, o quello dopo ancora, Guccini tornerà a Firenze, io tornerò a vederlo, magari con Valentina.