Non voglio certo santificare Giacinto Facchetti, ma non mi pare male raccontare due episodi distanti quasi trent’anni tra loro, che spiegano meglio di ogni altra cosa la persona.
Il primo risale, mi pare, al 1977, quando l’allora capitano della Nazionale venne intercettato in ritiro a Coverciano da una televisione fiorentina e braccato da un ruspante intervistatore non proprio padrone dell’uso della lingua italiana.
Quasi commosso dal fatto che cotanto personaggio gli avesse concesso l’agognata intervista ed abbagliato dall’indubbia eleganza del campione, il futuro conduttore televisivo di successo (locale) esordì così: “Abbiamo qui con noi Giacinto Facchetti in veste di cravatta…”.
Facchetti lo guardò per un attimo dall’alto in basso (per via dei venti centimetri in più), rispose sorridendo e rassegnato alle domande, e ringraziò dell’intervista il giornalista.
Il secondo episodio è della scorsa primavera, quando chissà se aveva già saputo del tumore che lo aveva aggredito.
Rissa verbale radiofonica con Mancini che qualcuno di voi ricorda dopo la sconfitta dell’Inter, arriva Facchetti e mi fa educatamente segno di lasciar perdere.
A gesti dico ok, “però mi dice lei qualcosa…”.
E così andò, con finale nuovamente polemico con Mancini che io misi a confronto con il suo presidente per la differenza di stile (lo feci volutamente a tre metri dal tecnico nerazzurro, perché sentisse bene quello che stavo dicendo…).