1997/98
La voglia di novità aveva preso il sopravvento su tutto. La scopa nuova, si sa, pulisce molto meglio di quella vecchia, e così tutto quello che faceva Malesani ci sembrava straordinario. Com’era sorpassato Ranieri, con il suo brutale buonsenso e la sua proverbiale freddezza. «Facci l’ultimo miracolo: sparisci!», scrissero (ingenerosi) i tifosi su uno striscione, e furono davvero in pochi a rimpiangerlo nel momento dell’addio. Sandrelli intanto era diventato anche responsabile delle relazioni esterne della Fiorentina e, incredibile ma vero, era arrivato perfino un addetto stampa. L’inevitabile scelta era caduta su Vincenzo Macilletti, da anni raccoglitore degli umori presidenziali, dentro e fuori la telecamera. Rimasto a spasso dopo la chiusura di Teleregione, sponsorizzato da Rialti e dalla Righini, Macilletti è stato in verità più un addetto dei giocatori, soprattutto di Batistuta e Rui Costa, ma non ha mai fatto danni particolarmente gravi.
Dopo quattro anni di penitenze a Roccaporena, la Fiorentina tornò in ritiro in Toscana, ad Abbadia San Salvatore, e fu lì che conobbi per la prima volta Alberto Malesani, Alby per gli amici.

LA GUERRA
L’inizio del conflitto con Alby è di uno stupido, che più stupido non si può. Ottobre 1997, Morfeo chiede di andarsene al Lecce del suo antico maestro Prandelli, e Malesani viene in sala stampa a commentare la vicenda. Maledettamente Ceccarini si dimentica la cassetta e così rimaniamo senza le parole del tecnico, che viene comunque interpellato telefonicamente per mandare gli auguri a Kanchelskis, infortunatosi in settimana. Per rimediare alla mancanza dell’intervista su Morfeo, chiedo a Malesani di commentare in diretta le parole del suo giocatore e lo sento scocciato e sbrigativo. La settimana dopo vado al campo per fissare quando sarebbe venuto in radio per un’ora di programma e mi risponde che lui era già stato nostro ospite, che ne avremmo riparlato semmai nella stagione successiva. Faccio notevoli sforzi per non arrabbiarmi e chiedo a Cinquini di intercedere. Niente da fare. Malesani è incavolato nero perché si è sentito messo in trappola con la storia della domanda a sorpresa su Morfeo. Incasso masticando fiele il definitivo rifiuto, e attendo che il “nemico” passi sulla riva del fiume. L’occasione me la dà l’indimenticabile Edmundo, che Malesani, a dispetto della sua classe purissima, impiega col contagocce per non alterare gli equilibri della squadra. La Nazione mi affida un’inchiesta sul brasiliano, e fra i pareri raccolti ce n’è uno di Chiarugi, allora fuori dalla Fiorentina, ma sempre a libro paga, piuttosto critico sull’operato del tecnico. Lascio inalterato il senso del discorso e forzo leggermente sulle parole. Il pomeriggio dopo mi chiama Luciano e mi chiede se posso andare al campo di allenamento per spiegare a Malesani che lui quelle cose lì non le aveva dette.
«Come Luciano non le avevi dette? Ti ricordi quello che hai dichiarato?»
«Sì, David, io sono dalla parte di Edmundo e di Cecchi Gori (che spingeva per vederlo in campo), ma non volevo attaccare Alberto, che è arrabbiato nero con me. Cerca di capirmi…».
Lo capisco e mi presento ai campini, dove accade un fatto storico nella carriera di Malesani: per la prima volta in quindici anni di panchina lascia la conduzione dell’allenamento al suo vice Malatrasi e si apparta con me e Chiarugi. E’ livido di rabbia.
«Allora, come sta questa cosa dell’intervista?»
«Beh, è vero, ho appesantito le parole di Luciano, che non ti voleva mettere sotto accusa»
«Ti devi vergognare per il male che fai alla Fiorentina. Vergogna, vergogna, vergogna!».
Ho sempre avuto il rammarico di non avergli risposto che «vergogna, vergogna, vergogna!» avrebbe dovuto gridarlo a quella santa donna di sua madre. Rimasi invece in silenzio sotto lo sguardo interrogatorio del migliaio di tifosi presenti all’allenamento e della ventina di colleghi che aspettavano a pochi metri da noi.
Da quel momento le cose precipitarono. Malesani fece chiaramente capire a Luna che la mia presenza a Canale Dieci non era affatto gradita, io sfogai la mia rabbia in lunghi e ripetitivi attacchi radiofonici che determinarono tra noi una frattura sempre più profonda. Chiamai addirittura Ranieri e gli dissi: «scusami Claudio, noi abbiamo avuto dei dissapori e sono stato contento quando te ne sei andato, ma non sapevo cosa stava per succedermi».
Sbagliammo tutti e due: esagerai io ed esagerò lui, lo abbiamo capito tre anni più tardi. Fu Mino Malatrasi, con cui avevo avuto un violento scontro al loro primo anno di Parma, a fare da paciere. Si era già scusato qualche mese prima per il suo comportamento, e quando lo chiamai per fargli i complimenti per il nuovo ingaggio a Verona, mi disse: «perché non telefoni ad Alberto, gli farebbe piacere…»
«Ma sei sicuro? Guarda che non ci parliamo da anni»
«Vai tranquillo, abbiamo nostalgia di tutto ciò che abbiamo vissuto a Firenze, anche delle litigate con te».
Sembrava che fossimo stati a cena insieme la sera prima, il ghiaccio era sciolto e poi, mi dicono, lui è molto cambiato. Forse il terribile incidente che ha avuto in auto, forse perché si invecchia tutti, chissà.

SOLO ATTACCANTI
Batistuta, Oliveira, Edmundo, Morfeo, Robbiati, Dionigi, Kanchelskis, più Baiano ad allenarsi a parte: bastano come potenziale offensivo di una squadra che non doveva neanche giocare le coppe europee? La sindrome cecchigoriana di onnipotenza che ci avrebbe portato alla distruzione cominciò ad avvertirsi proprio nell’ossessiva ricerca dell’attaccante. A Vittorio piacevano le punte, c’era forse qualcuno che poteva contraddirlo? E così succedevano cose curiose, tipo il misterioso ingaggio di Morfeo, in pratica il clone di Robbiati, che l’anno prima era stato decisivo con i suoi undici gol. Meno male che il modulo tattico di Malesani contemplava almeno tre attaccanti, che però dovevano tornare a centrocampo. Quando arrivò Edmundo, se ne fregò degli schemi del tecnico e si mise a giocare come se fosse ancora sulla spiaggia di Copacabana. Figurarsi se i fiorentini non si innamorarono subito di uno che valeva tecnicamente almeno quanto Rui Costa, solo che, non correndo a coprire, aveva più fiato negli ultimi trenta metri. Al ventesimo dribbling in allenamento Malesani lo mise in panchina e da lì, malinconicamente, Edmundo cominciò la sua breve avventura italiana.

IL RICATTO
Cominciavano intanto ad arrivarmi strani segnali di inquietudini sul versante Cecchi Gori. Alla prima partita in casa di campionato mi venne negato il solito passaggio per le interviste in tribuna d’onore, i suoi fedelissimi mi guardavano sempre di più in cagnesco. Cosa fosse successo lo scoprii qualche giorno più tardi. Qualcuno, credo Poggi, aveva snocciolato a Vittorio i nomi dei collaboratori del Pentasport, e fra questi c’era chi il presidente non gradiva affatto. Il solito Frati, Aldo Agroppi e, chissà mai perché, Manola Conte. Cominciarono quindi delle pressioni più o meno velate perché li eliminassi. Ero di fronte ad un bivio: Cecchi Gori ci faceva molto comodo perché le sue interviste in esclusiva con noi andavano su tutti i giornali, e poi c’era sempre la storia delle radiocronache “fuorilegge”, ma accettare il diktat avrebbe voluto dire consegnarsi manie piedi a Vittorio e al suo gruppo.
Dissi di no, ribadii che Frati, Agroppi e Manola avrebbero continuato a parlare a Radio Blu e mi preparai a subire le conseguenze, che non tardarono ad arrivare. Venne infatti messa su in quattro e quattr’otto una radio concorrente, che prima chiese di ingaggiarmi e poi mi fece la guerra organizzando una trasmissione che andava in contemporanea su Canale Dieci. Fu un periodo caotico, ma alla fine l’insuccesso dell’operazione fu palese. Le frequenze di quella radio, che avrebbe dovuto trasmettere sempre e comunque notizie sulla Fiorentina, vennero vendute ad un network nazionale e Vittorio tornò spesso a parlare solo con me. Purtroppo.

FURTO A SAN SIRO
Ci presentammo a Milano contro l’Inter a punteggio pieno, appaiati a loro in testa alla classifica. La voglia di primato e di paragoni era così alta che azzardai su La Nazione un impossibile raffronto tra Amoroso e Ronaldo, nati ad un solo giorno di distanza l’uno dall’altro. Malesani, lavorando ossessivamente sulla tattica, aveva costruito un’ottima squadra: tutti sapevano cosa fare e la condizione atletica, almeno a settembre, era brillante.
Il fattaccio avvenne al trentaseiesimo del primo tempo, quando West fece un’entrata folle su Kanchelskis. Roba da stroncargli la carriera e non a caso da quel giorno “Cancello”, come lo chiamavamo a Firenze, non fu più lui. Graziano Cesari, “l’arbitro alla lampada” che adesso sproloquia contro il gioco duro ogni settimana dai canali Fininvest, tirò fuori fra l’incredulità generale solo il cartellino giallo. Passammo lo stesso in vantaggio per due a uno, ma poi l’Inter pareggiò e a otto minuti dalla fine un disgraziato passaggio all’indietro di Batistuta mandò in gol Djorkaeff. Già il pareggio sarebbe stato stretto, figuriamoci la sconfitta. Le illusioni di primato si infransero in quel luminoso pomeriggio autunnale e arrivarono in fila altri due rovesci che resero la posizione di Malesani molto poco stabile.