Mamma mia quanto eravamo diversi.
Niente cellulare, niente internet, le radiocronache con la prolunga di cinquanta metri, la RAI che lasciava fare e noi che eravamo gli unici a parlare di Fiorentina, un po’ sopportati, un po’ guardati con sospetto, un po’ matti.
Lasciarsi e rimettersi con la fidanzata, la tesi che non finiva mai, il lavoro preso con serietà, ma non certo con la frenesia di oggi.
Mi divertivo molto di più, avevo meno pensieri e molte meno responsabilità: la radio, la televisione erano ancora qualcosa che assomigliava ad un gioco, di scrivere su un giornale proprio non si parlava perché non avevo uno straccio di raccomandazione.
Si viveva (vivevo) alla giornata, ci presentavamo al campo di allenamento (più spesso il campo da baseball dove la squadra si spogliava) e parlavamo con quelli che uscivano e ci sembrava normale farlo.
Niente filtri, niente addetti stampa, niente sponsor sul pannello da far girare.
Una volta Landucci voleva picchiarmi per un’insufficienza che gli avevo ammollato a Rete 37, un’altra Baggio mi portò nella sua macchina per un’intervista di un’ora in cui mi raccontò delle operazioni e delle attese consumate a 19 anni senza far niente in ospedale, Battistini si arrabbiò perché volevamo dargli i soldi per una sua partecipazione televisiva, Cucchi era sempre gentilissimo, Di Chiara piaceva a tutte.
Un giorno Dunga fece mettere un cartello nello spogliatoio dedicato a Mattei: “prima di aprire la bocca, accertarsi che il cervello sia inserito”.
E Stefano era uno di quei ragazzi, tra i più sorridenti, il primo a salutarti quando lo incontravi, questione di educazione.
Erano già ricchi, ma non smodatamente divi: ci potevi andare a prendere un caffé e parlare un po’ di tutto, forse perchè eravamo più o meno coetanei o forse perché tutti consideravamo il calcio solo uno sport.
Sono vecchio? Può darsi, ma sono contento di averli vissuti quegli anni e di avere i brividi quando penso di rivederli tutti l’8 ottobre.