“Sarà per avere quindici anni in meno o avere tutto per possibilità”, cantava il sommo Guccini nel 1978.
Ora gli anni in meno sarebbero trenta, ma è identica la sensazione, quella che tutto fosse possibile.
Perfino vincere il Mondiale.
Perfino vincere lo scudetto.
Con la morte di Bearzot, i campioni del mondo del 1982 hanno fatto un bel passo avanti nel vissuto italiano, ma non hanno ancora raggiunto i “messicani”.
Non so se è solo una mia sensazione, ma è come se esistesse un legame più forte con l’Italia che ha perso la finale nel 1970 piuttosto che con quella magnifica squadra che ha vinto (e molto bene, tra l’altro) nel 1982.
Ma forse è un sentimento mio, legato al mito che da bambino sentivo per i campioni del tempo, mentre dodici anni più tardi già era una cosa diversa, anche se non certo professionale e molto meno divertente come oggi.
Ha avuto una bella vita Enzo Bearzot, perché ad un certo punto contano più i moti del cuore del potere o del prestigio e lui era circondato dall’affetto vero dei pochi a cui teneva.
E se ripenso a quei giorni in cui “tutto è ancora intero”, sento oltre che un’implacabile nostalgia la sensazione di come potessimo tranquillamente “perdere il tempo”.
Eravamo lenti nel nostro agire, senza internet, telefonini e l’ansia che ci divora quotidianamente.
Cazzeggiavamo tanto e inseguivamo i nostri sogni e i nostri ormoni senza però fare drammi se qualche volta (soprattutto i sogni) non riuscivamo ad afferrarli.
E Antognoni che non giocava la finalissima contro la Germania era una notizia che ci faceva davvero male: eravamo bischeri?