Dicembre 2008


GIORNALISTA MAI
La prima volta che ho pensato di voler diventare giornalista è stato a dieci anni e non ho mai capito bene il perché. Non c’è mai stato nessuno in famiglia che lo sia stato, a casa il giornale lo portava mio nonno la sera ed insomma non c’era tutta questa grande passione per la carta stampata. All’interno della comunità ebraica, che ho frequentato fino ai quattordici anni, per questa mia passione mi guardavano come se fossi un alieno, permettendomi comunque di fare e disfare tre giornalini di cui ero sempre il direttore: quando si dice la modestia… Finita la terza media riuscii a incontrare un paio di giornalisti de La Nazione per chiedere consigli, con la (mia) segreta speranza che mi avrebbero fatto scrivere qualcosa. La risposta fu identica e sconfortante: «te lo sconsiglio, è un mestiere in decadenza, vedrai che nel futuro non ci sarà più bisogno di giornalisti. Bisogna sacrificarsi molto ed avere delle conoscenze». Grazie dell’aiuto, grazie davvero. Era il 1974 e le stesse cose me le sono sentite ripetere per almeno vent’anni, fino a quando non è toccato a me dare consigli a chi voleva cominciare. E siccome mi ricordavo della fitta al cuore provocata da quelle parole, ho sempre cercato di spiegare a modo mio in cosa consistesse questo mestiere un po’ da puttane, invitando chi avevo davanti a proseguire se davvero ne aveva voglia.
La verità è che io giornalista nel senso pieno del termine non lo sono mai diventato. Nessuno mi ha mai assunto e così mi sono inventato imprenditore di me stesso, vendendo pubblicità, sempre con un senso di provvisorietà che mi angoscia da una vita, ma che forse è anche la mia vera forza. Non ho mai dato nulla per scontato e so che ogni anno bisogna ripartire da zero, in tutti i sensi. Però ho avuto anch’io la grande occasione e per almeno un paio di anni ho creduto che sarei diventato un giornalista “come tutti gli altriâ€?. Nel 1987 la Federazione Italiana Editori Giornali e l’Associazione Nazionale della Stampa avevano indetto una borsa di studio per permettere “l’accesso alla professioneâ€? a 35 giovani particolarmente meritevoli. L’assunzione al termine dell’anno di prova era quasi certa, visto che erano gli editori stessi a promuovere l’iniziativa. Mandai il curriculum e non seppi nulla fino al settembre del 1990, quando mi comunicarono che ero entrato fra i tremila idonei a sostenere le prove. Mi presentai a Roma e mi andò bene perché arrivai trentaquattresimo. Quando nel marzo del 1991 mi dissero che ero dentro la lista magica, provai un senso di indicibile euforia e vidi dischiudersi tutte le porte del Paradiso. Per cominciare la borsa di studio ci volle ancora un anno e così, ormai quasi trentaduenne, iniziai entusiasta l’avventura. Lavorai a La Nazione, all’Ansa e a Panorama, mi presi grandi soddisfazioni, vivendo per dodici mesi quella professione che era sempre stata il mio sogno. Alla fine però non arrivò niente, se non vaghe promesse di contratti a termine lontano da Firenze ed è stato a quel punto che ho finalmente smesso di pensare di voler fare il giornalista da grande. In compenso, a causa di quelle frequentazioni nelle redazioni, ho vissuto un doloroso divorzio e cominciato un’altra vita: qualcosa effettivamente è cambiato…

PRONTO MARIO
Ora che aveva comprato la Fiorentina, Mario Cecchi Gori poteva “finalmenteâ€? ascoltare le mie radiocronache dalla sua casa di Roma. La prima volta fu a Bergamo, quando perdemmo nel finale e lui fu comunque disponibile a commentare la partita. Gli piaceva il mio modo di trasmettere ed io trovavo incredibile che allo 06/3232… rispondesse immediatamente lui, senza il filtro di almeno una mezza dozzina di segretari particolari. E se non era Mario, toccava alla signora Valeria fissare le modalità di collegamento per quelle partite in trasferta che loro non potevano seguire. Una volta a Genova contro la Sampdoria raccontai ai cerberi che mi davano la caccia in tribuna stampa che stavo trasmettendo solo ad uso e consumo di Mario Cecchi Gori e siccome non erano affatto convinti glielo passai tramite radio. Il presidente si arrabbiò di brutto perché gli scagnozzi di Mantovani gli stavano facendo perdere parte della cronaca, il tutto in rigorosa diretta, e potei continuare a trasmettere. Col passare del tempo mi passò il timore reverenziale delle prime partite, anche se il passaggio decisivo avvenne solo un anno più tardi, a causa di un imbarazzante scambio di persone. Quando ero borsista a La Nazione, Angelo Giorgetti mi prendeva spesso in giro con questa storia delle telefonate di Cecchi Gori e così mi chiamava spesso facendomi degli scherzi. Un sabato sera suonò il cellulare: «David, sono Mario Cecchi Gori, domani non vengo a Firenze a vedere la partita, mi puoi far chiamare dalla radio?»
«Sì, va bene Agio, ma il sabato sera non potresti pensare a trom… invece che venire a rompere i cog… a me?»
«Ma veramente…»
«Dai, lo so che sei te, figurati se ci casco. Ti immagini se Mario Cecchi Gori, con tutte le cose che ha da fare il sabato sera e le attrici che si ripassa, chiama me»
«David, ma sono io, te lo assicuro, sono il presidente»
Era davvero Mario Cecchi Gori e precipitai velocemente in un turbinio di scuse e di “io credevo che fosse un mio amico giornalistaâ€?, “sa, scherzano sempre su questa cosa…â€?.

SCOOP CON BAGGIO
Ero riuscito ad avere il numero di telefono torinese di Baggio, che stava passando un periodo difficile, e due settimane prima del suo ritorno a Firenze da avversario provai a chiamarlo per registrare un’intervista. Erano le dieci di sera e lo trovai voglioso di parlare. Venne fuori ciò che i tifosi viola già immaginavano: quella maglia della Juve che Baggio aveva lanciato ai suoi nuovi tifosi dopo una gara di Coppe era un gesto chiesto ed imposto dalla società e non certo un moto dell’anima. Baggio, insomma, non si sentiva affatto juventino e raccontava con parole accorate della sua nostalgia per Firenze. Capii di avere in mano del materiale scottante ed il giorno dopo chiamai un paio di redazioni per sapere se volevano avere uno stralcio della chiacchierata. Ricevetti risposte evasive ed un po’ supponenti fino a quando non fui “intercettatoâ€? da Benedetto Ferrara di Repubblica, che mi convinse a dargli l’esclusiva dell’anticipazione, in cambio della citazione del mio nome nel pezzo, che sarebbe andato nell’edizione nazionale del giornale, e di Radio Blu, che sarebbe apparsa sotto il titolo.
Il giorno dopo scoppiò il finimondo. Venni cercato da tutti i giornalisti fiorentini per avere tutta l’intervista, gli unici che non chiamarono furono quelli che avevano sottovalutato la mia proposta e che adesso erano arrabbiati con me, non ho mai capito bene il perché. Da Torino Tuttosport e La Stampa scrissero addirittura che l’intervista era stata inventata e alla radio arrivò la telefonata di Caliendo, il procuratore di Baggio: un dialogo illuminante che venne opportunamente registrato da Rinaldo.
«Lei è il signor Rinaldo Pieroni, proprietario della radio?»
«Sì, signor Caliendo, mi dica»
«Sa, c’è questa storia dell’intervista di Baggio che sta provocando dei problemi a Roberto. Le consiglierei vivamente di non mandarla in onda»
«Mi pare che Baggio sapesse benissimo di parlare con Guetta in un’intervista che sarebbe stata registrata. Non vedo dove sia il problema»
«Il problema è che se voi mandate quell’intervista, io vi faccio chiudere la radio»
«Benissimo, signor Caliendo, grazie della telefonata».
L’intervista andò in onda nell’intervallo della radiocronaca di Lecce-Fiorentina, la settimana prima della gara con la Juve, nel momento di massimo ascolto e Radio Blu per fortuna non venne chiusa. E Robertino? Il più grande di tutti. Quando lo rividi a Torino nel settembre successivo ero un po’ imbarazzato perché sapevo bene quante rotture di scatole aveva avuto dalla Juve per “colpaâ€? del mio scoop.
«Sei arrabbiato?», gli chiesi
«Ma vaia, bischero, vieni qua», e ci abbracciammo.

6 APRILE 1991
Che giornata! Fu in quel pomeriggio che la curva Fiesole disegnò la più bella coreografia mai vista in uno stadio di calcio, con Firenze stilizzata in viola sul fondo bianco. Arrivava la Juve e per la prima volta c’era Baggio da avversario. La storia la sanno tutti: il gol di Fuser, il rifiuto di tirare il rigore, la parata di Mareggini, la vittoria finale. Quel sabato dimenticammo tutte le miserie di una stagione davvero avara di soddisfazioni e conquistammo qualcosa che andava al di là dei due punti. Uscendo dal campo prima del tempo per una sostituzione, Robertino raccolse una sciarpa viola e se la mise al collo: la Juve si era comprata il campione, ma l’anima era rimasta qui.

L’AFFARE ROGGI
Per un po’ nella nuova Fiorentina regnò il caos più completo. Talune scelte vennero fatte seguendo consigli di amici e di amici degli amici. Basta pensare a chi venne affidato l’ufficio stampa… Ad un certo punto, finalmente, sembrò chiaro che ci volesse uno dentro il mondo del calcio e così fu scelto Moreno Roggi. Aveva un ottimo passato da calciatore, troppo breve per colpa di una distorsione al ginocchio mal curata che lo costrinse ad interrompere l’attività quando già era in Nazionale. Innamorato da sempre della Fiorentina, Roggi aveva dimostrato di possedere un’intelligenza al di sopra della media e rimboccatosi le maniche svolgeva da anni con successo il lavoro di procuratore. Guadagnava più di quanto avrebbe preso in viola, ma accettò entusiasta il nuovo incarico. L’inizio non fu però dei migliori. Lasciò che Di Chiara si svincolasse a costo zero e passasse al Parma, mentre a Firenze tornava Carobbi, suo ex assistito; scambiò Buso con Branca della Sampdoria, acquistò Maiellaro dal Bari, pagandolo un po’ troppo. Si diceva che da Los Angeles Vittorio Cecchi Gori, l’unico figlio (per fortuna!) di Mario e Valeria, non fosse affatto contento dell’operato del direttore sportivo e soffiasse sul fuoco. Il punto di non ritorno fu l’acquisto dal Napoli di Marco Baroni. All’ex difensore delle giovanili viola era stato dato un valore in verità eccessivo: dieci miliardi di lire, tutte in contanti. A quel punto Mario Cecchi Gori sbottò e in un’intervista a Radio Blu parlò apertamente di imbroglio, accusando neanche troppo velatamente Roggi di disonestà. Antognoni, dirigente della Fiorentina e amico da sempre di Moreno, non sapeva più che pesci prendere, l’ambiente viola, era tanto per cambiare spaccato in due fazioni. Roggi si dimise, entrò in una fase di depressione ed un paio di mesi più tardi, con un gesto di gran classe invitò alcuni giornalisti nella sua casa all’Ugolino, anche quelli che si erano schierati contro di lui. Come ringraziamento del lavoro svolto in quei mesi insieme, regalò a tutti i presenti un orologio Swatch, che nessuno rifiutò. Personalmente non ho mai pensato che Roggi avesse voluto fare la “crestaâ€? su Baroni perché se voleva rubare ci sarebbero stati tanti modi meno appariscenti per spillare quattrini a Cecchi Gori. Ero semmai perplesso per le operazioni di mercato da lui condotte e ancora oggi, quando capita di parlarne insieme, non riesce a convincermi che fosse davvero meglio dare via Di Chiara per riprendere Carobbi.

PRIGIONIERI DI DUNGA
La Fiorentina finì il campionato al dodicesimo posto, con l’unico acuto della vittoria casalinga contro la Juve. Il giovane Malusci, esploso nell’ultima fase della precedente stagione, stava pagando un’inevitabile crisi di crescita ed il bilancio di Lazaroni era desolante. Al suo attivo poteva vantare solo l’invenzione tattica di Di Chiara terzino e la completa fiducia concessa al diciannovenne Massimo Orlando, ma il resto era da dimenticare. Mario Cecchi Gori avrebbe voluto mandare via Lazaroni subito, a fine campionato, ma c’era, insormontabile, il problema Dunga. Il capitano, ancora una volta tra i migliori, aveva detto più volte che Lazaroni doveva rimanere. E così fu, fra il malumore generale. Si tentò invano di trattenere Fuser, arrivato in prestito dal Milan, e per sostituirlo arrivò da Lecce per una cifra davvero ingiustificata il timido Mazinho, che fece un grande pre-campionato, per poi sparire nell’anonimato. Intanto si aspettava dall’Argentina il fantasista Diego La Torre, che era già stato acquistato e di cui si parlava un gran bene. Il rampollo di casa Cecchi Gori aveva nel frattempo deciso di occuparsi sempre più da vicino delle vicende viola e fu per questo che si mise a guardare le cassette della Coppa America, dove La Torre era impegnato. All’improvviso Vittorio scoprì un ragazzone di ventidue anni nativo di Reconquista, un centravanti po’ grezzo tecnicamente, che però la metteva dentro quasi sempre. Il suo nome era Gabriel Omar Batistuta.

Per il quarto anno continuiamo le partite facili, cioè quelle in cui siamo tecnicamente superiori agli avversari.
Io trovo questa continuità eccezionale nel lungo periodo e anche il segno di una personalità assoluta che mai la Fiorentina aveva avuto per un periodo così duraturo.
E quella contro il Catania era la più difficile tra le cosiddette partite facili, perché Zenga è un ottimo allenatore e ha cercato con un certo successo di incartare la gara a centrocampo.
Poi ci sono quei due lì davanti e su questo punto il dibattito è aperto: sono meglio di Batistuta-Baiano, Batistuta-Chiesa, Toni-Mutu, Baggio-Borgonovo, Graziani-Bertoni, Maraschi-Chiarugi?
Mi fermo a queste coppie, perché le ho viste tutte dal vivo e sinceramente non saprei scegliere, ma intanto godiamoceli davvero, perché oggi forse solo Trezeguet-Amauri (o Del Piero-Amauri) possono giocarsela con loro.

Scusate ragazzi, vedo che ho una percentuale degna al massimo dell’UDC sulla mia idea che uno dei tre esterni sinistri debba essere ceduto ed io capisco che da tifosi uno comprerebbe Maicon a destra e Grosso a sinistra, magari per tenrli in panchina, ma qui occorre un ragionamento un po’ più ampio.
Fallita la qualificazione Champions, credo che sarebbe opportuno rientrare di qualche milione di euro, soldi che dovrebbero arrivare attraverso la cessione di giocatori impiegati nei ruoli in cui siamo più coperti.
Quanto volete che possa valere Papa Waigo sul mercato? Forse 2 milioni, sempre che Corvino riesca a superarsi.
I soldi veri si fanno con Pazzini (e mi spiace, ma non vedo altre soluzioni) e forse con Pasqual (idem): una quindicina di milioni che possono venire buoni questa estate, quando i Della Valle, con ancora la Cittadella Viola nel libro dei sogni, investiranno quasi zero nella campagna acquisti.
E comunque voglio vedere cosa succederà alla quinta giornata consecutiva in cui uno tra Gobbi o Pasqual non mette piede in campo.
Non parlo dei giocatori, ma dei tifosi, che rumoreggeranno per una partita così e così di Vargas…

Improvviso fiorire di laterali sinistri nella Fiorentina.
Dopo l’ottimo pasqual di Torino, il superbo Vargas di Bucarest e c’è Gobbi, affidabilissimo, ai box.
Uno dei tre però va ceduto, perché non siamo l’Inter e anche sul piano ambientale la vicenda sarebbe curiosa.
Perché appena quello che va in campo rende un po’ meno delle aspettative subito nascerebbero le controindicazioni perchè si pensa che sarebbe stato più giusto mettere dentro uno degli altri due.
Chi cedere è un bel problema e a questo escluderei Vargas, su cui è stato investito moltissimo.
Lasciamo decidere al mercato e vediamo quali offerte arrivano per Gobbi e Pasqual, salvo poi ovviamente dispiacerci appena se ne vanno.
Ma tre in quel ruolo sono davvero troppi.

Guardate un po’ l’ora di questo post…
Tre ore di sonno, gelo fuori, partenza per Firenze, sperando che la coincidenza funzioni.
E va bene, per una volta forse fare il giornalista non e’ meglio che lavorare, come diceva saggiamente Missiroli, ma essere tifoso della Fiorentina qualche soddisfazione qualcosa regala.
Insomma, ormai siamo al quarto anno buono, mi sembra si possa dire, visto che la stagione sta prendendo le caratteristiche consuete: battiamo quelle piu’ deboli (e la Steaua e’ davvero scarsa) e abbiamo difficolta’ con chi e’ piu’ forte e non sono molte.
Ieri sera, finalmente il primo Vargas vero per novanta minuti, ma per favore non venitemi a dire che ci si deve cospargere il capo di cenere o altre amenita’ del genere.
Qui si giudica partita per partita e rivendico, nell’analisi critica, l’ovvio ricorso all’incoerenza.
Molto bene pure Montolivo e Gilardino e’ straordinario, molto frenato invece Mutu.
Non rileggo e pubblico, correndo dentro un bruttissimo taxi romeno.

Ero e sono prevenuto, l’ultima volta qui in Romania sono stato da cani, con un viaggio di ritorno da incubo per un’intossicazione alimentare.
Bucarest non e’ Bistrita, ma la prima cosa che mi e’ successa e’ stata la rottura della carta sim che qui (la mia) non prende.
Viaggio molto lungo e pensieri che vagano, come faccio spesso, sulle differenze tra la mia vita di allora e quella di oggi, oltre ai bilanci rispetto all’ultima volta che sono stato qui.
E’ cambiato tutto nella mia vita: ho due figli in piu’ (io che ero contro la paternita’…), sono morte persone a cui ero affezionato, ho cambiato televisione, giornale e la mia amata Radio Blu e’ stata venduta.
Insomma, per uno come me conservatore nello spirito e che e’ istintivamente contrario ai cambiamenti, una rivoluzione copernicana.
Sono stato tradito da persone che credevo affidabili, e’ probabile che abbia dato qualche delusione.
E la Fiorentina? Morta e risorta, meno divertente come ambiente e molto piu’ seria del 1996.
Intanto sulle televisioni romene continuano a scorrere le immagini di Mutu, ripreso in tutte le pose, lui e’ sorridente, spero che sia sereno dentro.
Domani abbiamo bisogno soprattutto di lui.

1990/91

Il mio primo contatto con Mario Cecchi Gori risale all’aprile del 1990. La Fiorentina doveva giocare una partita decisiva per la salvezza contro l’Inter a Milano e si parlava sempre più insistentemente di un interesse del produttore per l’acquisto della società. Chiamai Roma e gli chiesi se gli sarebbe piaciuto seguire in diretta la radiocronaca. Mi sorprese il fatto che in un paio di minuti potessi parlare con uno dei più importanti uomini di cinema al mondo, ma evidentemente la parola Fiorentina apriva porte altrimenti sprangate a tanti aspiranti attori o registi. Mi rispose gentilmente di no, perché non voleva dare l’impressione di forzare i tempi di una trattativa che ancora non decollava. Due settimane prima a Roma, a pochi minuti dall’inizio della gara con i giallorossi, Mario Cecchi Gori aveva avuto un fitto colloquio “a cielo apertoâ€? con Flavio Pontello, un incontro che era stato definito dal Conte “un puro atto di cortesia verso una persona squisitaâ€?. Seppi del passaggio di proprietà della Fiorentina due giorni prima dell’annuncio ufficiale, ma avevo giurato alla mia fonte, l’avvocato Lapo Puccini, che non avrei detto nulla e rinunciai allo scoop. Tutti aspettavamo Cecchi Gori come un liberatore e non a caso venne immediatamente insignito della carica di “Magnifico Messereâ€? al calcio storico fiorentino. Fu un grande uomo ed un presidente sfortunato, con un difetto indipendente dalla sua volontà…

TELEBULGARIA
Nella stagione precedente avevo ricevuto per la prima volta offerte di lavoro da parte di una radio concorrente. Il gruppo Poli, proprietario di Rete 37, aveva intenzione di allargarsi nella radiofonia e voleva che andassi a trasmettere da loro. Non ascoltai nemmeno la proposta, ma la cosa fece molto arrabbiare Rinaldo, che in un soprassalto d’orgoglio comprò uno spazio a Tvr-Teleitalia per trasmettere il Pentasport in contemporanea televisiva. Addio dunque alle telefonate di Isler il sabato sera, alle tanto contestate pagelle e a “Calcio Parlatoâ€?. Mi dispiaceva molto lasciare Rete 37, ma capivo che non potevo fare tutto e così cominciammo la nuova avventura.
Quando oggi rivedo le cassette di quei tre anni di trasmissione, provo qualcosa a metà tra la vergogna e la tenerezza. Non avevamo immagini e così le uniche due telecamere dell’emittente inquadravano per novanta minuti degli stoccafissi che rivolgevano domande ad un solo ospite, parlando ogni tanto di tattica. A Pestuggia si erano intanto affiancati il fedelissimo Luis Laserpe e Ruben Lopes Pegna e così provai per la prima volta il brivido di dirigere una mini-redazione.

ORFANI DI BAGGIO
La prima fregatura calcistica di Cecchi Gori fu Borgonovo, strapagato al Milan dell’amico Berlusconi e tornato a Firenze completamente diverso dal giocatore rapido di due anni prima. La seconda fu Lacatus, che aveva segnato un paio di reti con la Romania ai Mondiali, ma che a Firenze si distinse soprattutto per le frequentazioni di tutti i night club nella zona del senese, dove abitava. In campionato, la prima pesantissima maglia numero dieci venne indossata da Zironelli, un giocatore normale bersagliato dalla sfortuna. In campo e fuori comandava Dunga, mentre Lazaroni cercava a fatica di capire come diavolo si giocasse in Italia. Su di lui pesava un grosso equivoco: aveva sì allenato la Nazionale del suo Paese, ma alzi la mano chi si ricorda, a parte forse Zagalo, il nome di un tecnico brasiliano. Credo che tra qualche anno anche Scolari, l’ultimo C.T vittorioso ai Mondiali, sarà dimenticato. Insomma, stare seduto sulla panchina del Brasile non voleva certo dire essere degli strateghi straordinari ed infatti Lazaroni deluse un po’ tutti. E se a novembre non fossero arrivati Orlando e Fuser, la Fiorentina sarebbe probabilmente retrocessa con due anni di anticipo.

UN SOGNO
Nell’ottobre del 1990 si avverò un sogno: giocare allo stadio, davanti a quarantamila persone. Debbo tutto questo a Carlo Conti, che mi inserì nella lista dei Vip (o presunti tali), che avrebbero affrontato la Nazionale cantanti di Morandi e Ramazzotti. Quel giorno mi svegliai alle cinque del mattino già in preda di una fortissima emozione. E’ incredibile salire le scalette del sottopassaggio del Franchi e trovare tutta quella gente sugli spalti. Ovviamente la mia presenza passò del tutto inosservata, però fu bello sentire annunciare il nome dallo speaker, come se fossi uno vero. Passati i primi momenti di smarrimento, mi ambientai bene. Anzi, fin troppo bene, perché ad un certo punto, allargando le braccia, rimproverai platealmente Antognoni, reo secondo me di non avermi passato correttamente il pallone. Mi ero chiaramente montato la testa e venni giustamente fischiato impietosamente dalla Maratona. Quando rividi l’azione, mi vergognai di me stesso: il passaggio era perfetto, ero io che sembravo filmato alla moviola.

PRIME CONTESTAZIONI
Ero piacevolmente abituato ad un consenso generale. I tifosi gradivano le mie radiocronache e pazienza se qualche volta i giocatori, imbeccati da mogli, fidanzate e amici, si arrabbiavano. Tutto rimaneva nei limiti della normalità e del rapporto civile. Quell’anno invece qualcosa cominciò a guastarsi, a causa delle critiche che rivolgevo a Lazaroni e al suo modo di giocare. Poiché sono sempre stato poco diplomatico, ci misi appena un paio di mesi prima di sbottare in un «tanto si sa che è Dunga a fare la squadra! Ormai il capitano ha un suo vero e proprio clan». Avevo i miei bravi informatori nello spogliatoio e c’era del vero in ciò che dicevo, ma logicamente tutto questo non poteva che mandare su tutte le furie il gruppo di Dunga, che cominciò a farmi la guerra.
Un pomeriggio di dicembre mi arrivò una telefonata di avvertimento di Borgonovo, con cui avevo ottimi rapporti. «I tifosi sono inferociti con te – mi disse – se non la smetti con le critiche a certi giocatori, specialmente a Nappi e Salvatori, qualche testa calda ha giurato di fartela pagare. Forse è meglio se ti dai una calmata». Rimasi di stucco e mi attaccai al telefono per capire quanta verità ci fosse nel “consiglioâ€? di Borgonovo (che fra l’altro non faceva più un gol neanche per sbaglio).
Dodici anni dopo posso dire che me la presi troppo, perché dovevo capire subito o quasi che si trattava di un modo neanche troppo originale per condizionarmi, ma era la prima volta che mi trovavo in una situazione del genere ed essere attaccati non è mai piacevole. Continuai a dire quello che pensavo, perdendo il saluto di Dunga e subendo un paio di rifiuti di Lazaroni a venire ospite al Pentasport. Dormii lo stesso la notte ed imparai la lezione.

La partita che cercavamo, che volevamo: cinici, ottima circolazione del pallone e con quei due lì davanti che mi ricordano come efficacia la premiata ditta Baggio-Borgonovo.
Mi spiace molto per il Torino, ridotto come raramente mi era capitato di vedere nella sua pur tormentosa recente storia e confesso di aver avuto la tentazione di comprare la maglia rievocativa dello scudetto del 1976, ma poi mi sono detto che non era il caso di esagerare.
Aveva quindi (ancora una volta) ragione Prandelli, quando si dimostrava certo dei progressi raggiunti dalla squadra.
Resta comunque il fatto che perdere non piace a nessuno e che se non hai due campioni davanti tutta la produzione di gioco che fai resta un’operazione academica.
E ora partenza per Bucarest, trasferta che proprio non gradisco in ricordo dei patimenti fisici di Bistrita e trasferta che ha pure poco fascino calcistico.
Però in Uefa bisogna andarci, a testa alta…

Ma che v’aspettavate dopo dopo la vergogna di agosto?
Sì, lo so che stavolta è ancora più clamorosa, perché la gara della Juve non conta niente e l’altra volta non potevano certo saperlo prima del quattro a zero di Torino, ma vedrete che giovedì ci spiattelleranno i loro ottimi dati di ascolto.
Il problema è il sistema misto, cioè ne’ carne ne’ pesce, ma un ibrido dove si continua ad assumere quasi sempre per raccomandazione politica (e tra poco ci sarà una new entry che conosco pure io), ma con la pubblicità che conta economicamente più del canone, che ancora non si riesce a capire il perché si paghi.
Una seconda vergogna che discrimina i tifosi della Fiorentina, palesemente di serie B per questi geni che decidono (ma non per De Luca, che a Radio Blu ha fatto capire di non essere d’accordo).
Temo che scrivere alla Raj sia inutile, ma può servire per sfogarsi un po’.

Ormai non frequento più i giocatori viola perchè ogni età ha i suoi tempi e sarà un anno che non vado in sala stampa a causa dei mille impegni extra calcio.
Ricordo ancora la prima volta che intervistai un calciatore della Fiorenina. Avevo sedici anni, era Ennio Pellgrini, ero il direttore (quando si dice la modestia…) del giornalino scolastico e provai un’emozione fortissima.
E poi l’anno con Pecci al Pentasport, con lui che mi massacrava di continuo con le sue battute che io, permaloso come sempre, dovevo subire in silenzio perché non avevo la forza di controbattere.
Adesso potrebbero essere davvero tutti miei figli, a parte Jorgensen, ma questa realtà mi permette di guardare un po’ più lontano.
Posso cioè cercare di intuire, nei rari casi in cui passo un po’ di tempo insieme a loro, la sostanza di questi ragazzi forunati e ricchissimi, che hanno il mondo ai propri piedi e che magari cercano lo stesso un equilibrio.
Stasera ad esempio, alla consegna del Premio Banchi, ho passato un’ora con Kuzmanovic, che in verità mi era già sembrato molto sveglio fin dalla prima intervista, ma era stata una roba di tre minuti due anni fa.
E anche questa volta l’impressione è stata ottima, Kuz è uno che non se la tira per niente, molto veloce di pensiero e disponibile al dialogo.
Questo ragazzo, insomma, con la testa c’è, adesso aspettiamo ulteriori miglioramenti in campo.

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