Una quindicina di anni fa dissi a Letizia: “se passati i 65 anni, mi vedi ronzare intorno alle redazioni per strappare una collaborazione, per scrivere un articolo, schiaffeggiami senza problemi. Me lo merito”.
Ora che ho passato i cinquanta e che ho fatto (credo) qualche passo in avanti in quella che qualche ottimista potrebbe addirittura definire una carriera, non cambio assolutamente idea e continuo a pensare alla più grande incongruenza del “nostro mestiere”: qui non smette mai nessuno ed è per questo che quando uno “pensa” di fare il giornalista ha la stessa sensazione da pessimista cosmico di quando compra il gratta e vinci.
Succede così che si rimanga giovani e in rampa di lancio anche quando si ha più di 35 anni: uno promettente, si dice, quando un tempo nemmeno tanto lontano avere quell’età significava mantenere un paio di figli.
L’ultimo esempio del “licenziamento” di Emilio Fede è lampante.
Licenziato a 81 anni?
Ho letto che la trattativa poi fallita verteva su un contratto da editorialista di tre anni più due, cioè si arrivava a 86, più o meno l’età in cui a Enzo Biagi si implorava di tornare a fare programmi in Rai.
Io non so cosa farò da vecchio e se ci arriverò, ma una delle speranze maggiori che ho è conservare questo senso direi etico del lavoro.
Vorrei davvero non diventare la caricatura di me stesso perché, anche se è dura da ammettere, non è che col tempo le tue facoltà mentali migliorino e a 50 anni non sei come a 30.
E a 80 puoi spaziare nel mondo con la tua raggiunta (si spera) tranquillità interiore, ma non dovresti continuare ad occupare militarmente posizioni che spetterebbero ad altri.