Non so come si sia entrati nell’argomento, ma stavolta non si scherza.
Quando si parla di certe cose, bisogna fare un passo indietro, trattenere il respiro e sperare solo che non tocchi a te o a qualcuno a cui vuoi bene.
E in alcuni casi io preferirei toccasse a me.
Quando penso che ho più di mezzo secolo di vita, e succede molto più di quanto io voglia, scatta quasi sempre il riflesso automatico: che accadrà dopo?
Sulla bestia, che ancora ho paura, una paura infantile e stupida, a chiamare col suo nome, il sentimento è da gioco d’azzardo, forse un retaggio di alcuni anni stupidi, stropicciati e un po’ buttati via: fai che non esca il mio numero.
Le analisi? Le ho fatte e le farò con gran fatica perché è vero che esiste un fatalismo idiota, quasi la voglia di non sapere.
E se poi esce davvero quel maledetto numero?
Che faccio?
Mi metto a raccontare le umane miserie di un corpo devastato (ah, l’esibizionismo incontenibile del giornalista…) o uso il metodo “Manuela”, cioè mi incazzo se solo qualcuno accenna alla mia malattia e me ne vado con enorme dignità?
Non lo so e vorrei non arrivare mai alla scelta e intanto ogni giorno la pallina gira in questa meravigliosa roulette che è la vita.