Sono sempre stato severo con me stesso e di conseguenza anche con le persone che mi sono state e mi sono accanto: prima il dovere e poi il piacere è da una quarantina d’anni il mio pensiero di riferimento.

Ho sempre sperato che chi sta dalla mia parte fosse migliore degli altri: più corretto, più leale, più intelligente.

E’ per questo che a volte mi lancio in battaglie assolutamente anacronistiche e autolesionistiche con i “miei” tifosi a proposito di cori e striscioni, ma il calcio è ben altra cosa rispetto alla vita e alla morte.

Il mio rapporto con la religione con cui casualmente sono nato è tendente allo zero: non sono credente, non seguo nessuna delle oltre 600 regole dell’ebraismo, rimango iscritto alla Counità di Firenze solo per non recidere completamente il filo che mi lega ai miei primi quattordici anni di vita.

Mi sento profondamente italiano, ma, appunto, contano anche le mie radici ed è per questo che da decenni tengo a precisare con tutti che l’essere ebreo non vuol dire automaticamente essere israeliano o filo-israeliano.

E’ da tanto che provo un profondo imbarazzo, e a volte anche rabbia, per quello che sta succedendo a Gaza, per i morti palestinesi che pesano meno di quelli israeliani,  per questa poltica dell’odio inestinguibile adottata da entrambe le parti.

Si può morire nel 2018 per un cambio di ambasciata di cui nessuno sentiva il bisogno?