Che ne sappiamo davvero dei nostri figli, da quando cominciano ad arrampicarsi su quella montagna splendida e terribile che è l’adolescenza, dove ogni giorno sembra una finale di Champions e dove il domani non esiste perchè c’è solo l’oggi?
Filtriamo la loro vita, la loro rabbia, le loro emozioni attraverso la nostra esperienza.
Proviamo nel migliore dei casi a fare un gioco di ruoli, a tornare indietro di trenta, quaranta anni e cercare di ricordare come eravamo alla loro età.
Ma noi non siamo loro e non era quello il tempo in cui vivono adesso.
Di solito ragioniamo da adulti (sempre ammesso che lo si sia diventati davvero e, soprattutto per l’universo maschile, io non darei la cosa per scontata) e nella maggior parte dei casi non capiamo, a volte ci arrabbiamo, ci sono momenti in cui siamo sconfortati.
Succede a me, che pure tento di impegnarmi, succede a tutti.
Provate a passare in questi giorni a Firenze dal viale Paoli, un centinaio di metri prima della Costoli, e vedrete sempre almeno quattro, cinque ragazzi che parlano, leggono, fumano, nel punto esatto dove alle 4 del mattino del 13 ottobre è morto Bernardo.
Si danno il cambio senza bisogno di turni, continuano ad amarlo anche se ora è lontano e non tornerà più a ridere e scherzare con loro.
Noi che non avevamo what’s app (si scrive così?), facebook, internet, telefonini, noi che diciamo sempre che ai nostri tempi contavano molto di più le relazioni umane, noi convinti che adesso questi ragazzi si muovano spesso come automi senza anima, noi l’avremmo fatto?
Anzi, l’abbiamo fatto quando è morto qualcuno dei nostri amici in un incidente?
Non è un problema di meglio o peggio: si tratta solo di provare a capire, che è la cosa più difficile di questo mondo.