Via ragazzi, non ce la faccio, è più forte di me.
Partiamo da un presupposto: Gabriel Omar Batistuta è il più forte giocatore che io abbia visto a Firenze, forse a causa degli infortuni di Antognoni e della stramaledetta partenza anticipata di Baggio.
Comunque sia, la storia ci consegna questo: il più grande.
E di una generosità enorme, basta pensare alle infiltrazioni fatte per esserci sempre, forzature pagate a caro prezzo a fine carriera.
Ma per spiegarlo fuori dal campo, per raccontarlo umanamente per come l’ho conosciuto io, che pure ho vissuto con lui i primi mesi da quasi separato in casa con Lazaroni, mi viene da dentro irresistibile una strofa del memorabile pezzo di Giorgio Gaber “Io se fossi Dio”, quando l’immenso Gaber parla di Aldo Moro.
Ho i testimoni: chiedete alla redazione di Radio Blu cosa avevo pronosticato sul fatto che oggi potesse andare a trovare Montella (che non gli dette la maglia numero 9 quando passò alla Roma), Andrea Della Valle e tutta la Fiorentina.
Aveva di meglio da fare e in fondo sono fatti suoi, ma stavolta l’avevo azzeccata in pieno.
Niente di nuovo sotto il sole, Batistuta è fatto così e per spiegarvelo meglio vi ripropongo quello che scrissi dieci anni fa ne “La mia voce in viola” a proposito dei nostri rapporti (ho sbagliato il finale, come capirete leggendo).
E ora sono quasi pronto a scommettere che dopo questa mia esternazione ascolterete le sue parole in un’intervista a qualche radio che non sarà certamente Radio Blu, ma che ci volete fare, sono fatto così: testardo e sincero fino all’autolesionismo…

Pare che oggi alle 11 si possa ascoltare il grande Bati: sintonizzatevi…

IO E BATI
L’ultima volta che ci siamo visti è stata quando la Roma giocò a Firenze, nel febbraio 2002. Stavamo quasi per andare a sbattere l’uno contro l’altro ed era quindi impossibile ignorarci, così abbiamo alzato tutti e due lievemente la testa in un sofferto cenno di saluto. Questa “guerra” con colui che considero il miglior giocatore della storia della Fiorentina, almeno da quando vado allo stadio, è uno di quei passaggi spiacevoli e perfino dolorosi della mia piccola storia professionale.
Eppure l’inizio era stato splendido. Nel febbraio 1992 venni incaricato di andarlo a prendere all’allenamento per accompagnarlo a La Nazione, dove avrebbe condotto un filo diretto con i tifosi. In macchina parlammo di tutto, stabilendo una confidenza che è andata poi rafforzandosi nei suoi primi anni fiorentini. Ricordo le sue partecipazioni al Ring dei Tifosi, quando organizzavamo la trasmissione registrata apposta per lui, oppure il regalo della cassetta audio con dentro i miei urli per i suoi gol e tanti altri piccoli episodi. La frattura tra noi ha una precisa collocazione temporale: metà luglio 1997.
Batistuta non voleva rimanere alla Fiorentina, perché altre squadre gli avevano promesso almeno il doppio di ingaggio e così si barricò in un albergo a Roma, in preda ad una vera e propria crisi di nervi: o gli davano più quattrini o considerava chiusa la sua esperienza in viola. Con la radio realizzammo una diretta fiume dall’hotel dove i Batistuta (c’era anche il padre) ricevevano i dirigenti in un crescendo quasi insostenibile di tensione. Ad un certo punto prese la parola Rinaldo e disse quello che tutti pensavano: «ma che crisi nervosa! Questo qui vuole solo più soldi e non gliene frega niente se ha un contratto già firmato, così come non gliene frega niente della Fiorentina». Apriti cielo! Tutti sentirono quell’intervento, anche e soprattutto gli amici di Batistuta. Alla prima uscita stagionale della Fiorentina di Malesani, io ero in campo per realizzare le interviste di Telemontecarlo e quando mi avvicinai a Gabriel, lui rispose che con me non avrebbe parlato a causa delle dichiarazioni di Rinaldo, che però, a quanto ne sapevo, non era ancora diventato il proprietario di Tmc.
Nell’estate successiva, il tormentone del rifiuto di tornare a Firenze si ripeté ed io moraleggiai un po’ sulla storia dei contratti da onorare e sul fatto che i soldi non sono tutto nella vita. Avevo ragione nella sostanza, ma ancora non sapevo cosa mi sarebbe capitato quaranta mesi dopo, con certa gente che pensava ai quattrini quanto e più di Batistuta, valendo però un decimo del campione argentino. Le cose stavano precipitando e così una sera di ottobre, esasperato da questa polemica, mi misi a sedere accanto a Bati nel viaggio aereo di ritorno da Lecce a Firenze. Parlammo per un’ora, tra la curiosità generale dei suoi compagni e degli altri giornalisti, arrivando ad un compromesso: se Rinaldo avesse chiesto scusa per aver tacciato Batistuta di venalità, i nostri rapporti sarebbero tornati normali. Il che, tradotto nella quotidianità, avrebbe voluto dire che smetteva di chiedere ai giornalisti della mia radio e della mia televisione di passare le sue interviste solo se io non fossi stato presente alla trasmissione. Si poteva addirittura ipotizzare che potessi ospitarlo in qualche programma e che i compagni di squadra del suo giro, chissà, forse avrebbero ricominciato a salutarmi anche quando lui era nei paraggi. Bati voleva inoltre che l’intervento “riparatore” avvenisse in un momento di grande ascolto. Non fu facile convincere Rinaldo a chiedere scusa, ma poi accettò, per il bene della radio e, credo, soprattutto per affetto nei miei confronti. Il “mea culpa” andò in onda in un dopo partita, mentre eravamo collegati da Ginevra per seguire la sentenza relativa alla bomba carta di Salerno. Registrammo l’intervento e la cassetta fu portata dall’incolpevole Ceccarini al cospetto del divino capitano. «Questa me la metto sulle pa…», rispose Batistuta, decretando di fatto la fine dei nostri rapporti.
Nelle sue ultime stagioni fiorentine ci sono stati momenti perfino comici, tipo quando Bati aspettava in macchina fuori dagli studi di Canale Dieci la moglie Irina. Lei stava imparando a fare televisione e lui non voleva in nessun modo entrare negli studi, cioè nel territorio del “nemico”. Oppure quando depennò personalmente il mio nome dalla lista degli invitati alla festa del suo viola club, tra l’imbarazzo dei suoi “sottoposti”, che proprio a me si erano rivolti per pubblicizzare al massimo la manifestazione. Certo non sono stato troppo furbo a rimarcare tutte le volte che qualcosa di Batistuta non mi piaceva negli atteggiamenti che teneva fuori dal campo, ma non ho mai smesso di esaltare in radiocronaca le sue incredibili qualità calcistiche. Quando nel maggio del 2000 seimila tifosi invasero il Palazzetto dello Sport per dire no alla sua cessione, un ragazzo fece il mio nome al microfono come simbolo dei nemici di Bati. Ero in studio a condurre la diretta e sentii una fischiata generale nei miei confronti che mi gelò il sangue. Ma avevano ragione loro, perché anch’io, da tifoso, tra Batistuta e Guetta non avrei avuto dubbi su come schierarmi: uno era il campione più straordinario degli ultimi trent’anni e l’altro solo un cronista che raccontava da quasi quattro lustri le partite dei viola. In questi casi non conta chi ha ragione, ma chi ha regalato emozioni.
Prima o poi anche l’immenso Batistuta appenderà le scarpette al chiodo e quel giorno, se sarà possibile e se lo vorrà, mi piacerebbe passarci insieme un’altra ora, come quel viaggio fianco a fianco da Lecce a Firenze, solo che stavolta dovrà essere davvero il punto di partenza per un nuovo rapporto.