1992/93
Le notizie che arrivavano da Roma erano curiose, ma per il momento non preoccupanti. Sembrava che Vittorino volesse occuparsi sempre di più della Fiorentina, anche perché rivendicava (giustamente) il merito di aver scoperto Batistuta. Per noi che eravamo stati abituati ad avere a che fare con quattro, cinque, sei Pontello, non era poi un gran problema. Anzi, questo Vittorio Cecchi Gori non solo divertiva, ma prometteva di farci scrivere e parlare tanto. Fu di Vittorino l’idea della presentazione all’americana della squadra in piazza Santa Croce, con inevitabile bagno di folla. Vennero ingaggiati alcune star cinematografiche di conclamata fede laziale o romanista, a presentare Gianni Minà, che almeno, in quanto tifoso granata, era gemellato con noi. In mezzo alle solite banalità, venne promessa una Fiorentina brillante, che avrebbe puntato come minimo all’Europa. Molto defilato sotto il palco stava un amico di Vittorio dei tempi del liceo, Luciano Luna, un personaggio che avevo conosciuto ad aprile, di ritorno dalla sua prima missione calcistica. Era infatti stato in Germania a “valutareâ€? Effenberg, all’epoca in corsa con Stoichkov per vestire la maglia viola. «Sono solo un uomo di cinema – mi disse – e sono andato a Monaco per fare un piacere a Vittorio. State tranquilli, non mi occuperò mai di calcio». Infatti.

CHE CE NE FACCIAMO DI DUNGA?
La domanda, che presupponeva già la risposta, venne rivolta da Vittorio prima al babbo Mario e poi al tecnico Radice. Il brasiliano, annusando l’aria prima di tutti, aveva già capito che con il rampollo Cecchi Gori tra i piedi le cose sarebbero cambiate, anche e soprattutto per la sua leadership, fino a quel momento indiscussa. Per questo Dunga non perdeva occasione per lanciare frecciate al vice presidente. Oltretutto si era clamorosamente sbagliato su Batistuta e adesso si trovava in chiara difficoltà.
A Vittorino Dunga non piaceva neanche tecnicamente, innamorato com’era dei talenti geniali e discontinui alla Massimo Orlando, e così in pochi mesi riuscì a convincere il tecnico che il vecchio capitano era ormai un peso per la squadra. Effenberg, Di Mauro, Iachini, Dell’Oglio e Laudrup potevano bastare per fare una grande Fiorentina. Dunga fu umiliato, mandato ad allenarsi in Primavera, alla prima occasione spedito a Pescara e dato per finito. Nemmeno due anni dopo avrebbe alzato, da capitano del Brasile, la Coppa del Mondo.

TUTTI A CANALE DIECI
Nell’estate una buona notizia aveva scombussolato le vacanze di quella pattuglia di disperati ormai non più giovanissimi che si muoveva nel torbido mondo dell’emittenza privata locale: i Cecchi Gori avevano comprato, strapagandola, Canale Dieci e volevano costruire una super televisione. Come ai tempi dello sbarco fiorentino di Repubblica cominciò una corsa ad entrare che lasciò sul campo diverse vittime. Ero molto meno motivato di quattro anni prima, ma decisi lo stesso di partecipare alla gara. Stavolta partivo avvantaggiato dal fatto che Mario ascoltasse le mie radiocronache ed in teoria non avrebbero dovuto esserci dei Sandrelli di mezzo. Su suggerimento di Ugo Poggi, che avevo conosciuto ai tempi della Rondinella, presi appuntamento in sede con un signore sconosciuto, tal Paolo Cardini. In dieci minuti Cardini mi liquidò, mostrandomi le domande di impiego o collaborazione arrivate fino a quel giorno: voleva che capissi quanto sarebbe stato difficile aiutarmi. C’erano tutti, ma proprio tutti i volti televisivi e le voci radiofoniche regionali che chiedevano di tentare la nuova avventura. Ed è per questo che qualche anno dopo mi veniva da ridere, o da piangere, sentendo le stesse persone rivendicare rabbiosamente la «nostra autonomia professionale, perché questa è una televisione libera», lasciando malignamente capire quanto invece Canale Dieci fosse legata a certe logiche padronali. Certo, come no, peccato solo non poterle mostrare adesso certe raccomandazioni e certe richieste.
Canale Dieci comunque non partì per tutta la stagione e le cose cominciarono a smuoversi solo nell’agosto 1993. Fu allora che il braccio destro di Luna, Paolo Fanetti, fece il mio nome all’imperatore (così era chiamato Lucianone nostro da chi gli lavorava accanto) per le telecronache.

ALL’ATTACCO, ALL’ATTACCO
Radice capì alla svelta che bisognava rispondere non ad uno, ma a due presidenti e che il secondo, Vittorino, avendo la fissa degli attaccanti, era molto più pericoloso del primo. Per questo non forzò troppo la preparazione e schierò subito una formazione votata all’offensiva, con dentro tutti insieme Batistuta, Baiano, Orlando, Effenberg e Laudrup. Un azzardo già tentato con successo da De Sisti nove anni prima, ma con una squadra nettamente più forte. Ecco, se allo splendido impianto della stagione 83/84 fosse stato aggiunto Batistuta, quasi sicuramente quella Fiorentina avrebbe vinto lo scudetto, ma qui siamo, me ne rendo conto, al fantacalcio. Più concretamente, la squadra di Radice passava da vittorie eclatanti (sette a uno contro l’Ancona) a sconfitte clamorose (tre a sette contro il Milan), l’importante era non esaltarsi o deprimersi troppo. Su una cosa però il tecnico era intransigente: non voleva intromissioni dirigenziali nello spogliatoio e sulla formazione. Figuriamoci con uno come Vittorio, che poteva vantare addirittura un passato calcistico nelle giovanili della Lazio. Non ci volle molto a far salire la tensione tra i due.

MILANO
Per l’ultimo periodo della mia borsa di studio avevo chiesto ed ottenuto di andare a Panorama a Milano, che ho sempre preferito a Roma come città. L’inizio dell’avventura a Segrate fu quasi choccante, perché a Firenze conoscevo quasi tutti i giornalisti e quindi sia a La Nazione che all’Ansa non avevo avuto problemi di ambientamento. A Panorama invece mi misero nella redazione di economia, dove per almeno una settimana non parlai con nessuno, limitandomi ai saluti formali la mattina e la sera. Siccome mi annoiavo a morte, e non potevo certo stare a leggere tutto il giorno, iniziai a contattare via telefono i clienti fiorentini per la pubblicità alla radio e questo incuriosì i compagni di stanza, che cominciarono ad interessarsi alle mie attività collaterali. La situazione si sbloccò definitivamente quando scoprirono che mi ricordavo a memoria gli scudetti e le formazioni di molte squadre, a partire dal 1966. Cominciai a scrivere di economia e di costume, scoprendo finalmente come mai a Panorama siano così documentati su tutto. Il segreto è l’archivio della Mondadori, semplicemente formidabile: tu chiedi qualcosa e dal sottosuolo ti arrivano le notizie più disparate sull’argomento, che si tratti di tiro con l’arco o delle adozioni a distanza.
Ogni venerdì pomeriggio partivo di volata per arrivare in tempo a condurre il Pentasport radiotelevisivo in un crescendo di stress e di stanchezza. Alla fine dei quattro mesi mi chiesero se volevo rimanere come collaboratore di Panorama a Milano, ma avrei dovuto mollare tutto e vivere come quei trentenni che vagavano nell’open space di Segrate, sperando ogni settimana di piazzare il proprio pezzo. Meglio, molto meglio Firenze, per un provinciale come me.

IL DANNO
Il 3 gennaio 1993 la Fiorentina aveva perso in casa forse immeritatamente contro l’Atalanta e stavamo un po’ stancamente aspettando nel dopo partita che si presentasse Radice per spiegare l’inaspettata sconfitta. Dopo una quarantina di minuti qualcuno cominciò ad insospettirsi ed il resto della storia la conoscono tutti, compreso il furioso tentativo di Vittorino di entrare nello spogliatoio per un tentativo di processo sommario, il successivo licenziamento di Radice e le minacce di “farci fare la fine del Bolognaâ€?. Magari ci fossimo fermati lì… Mario Cecchi Gori aveva ascoltato la partita a casa grazie al solito collegamento con Radio Blu e quindi rimaneva solo lo sciagurato figlio a presidiare il campo.
Andammo tutti al Savoy in una serata tragicomica, che si concluse alle una di notte. Vittorio cercava il conforto dei giornalisti per le sue tesi quanto meno originali: «non capisce nulla, Radice non capisce nulla. La cosa migliore sarebbe prendere Chiarugi dalla Primavera e mandarlo in panchina: con i miei consigli tecnici possiamo ancora lottare per lo scudetto, con Radice invece non si va nemmeno in Uefa. Anzi, forse è meglio se l’allenatore lo faccio direttamente io, ma non lo posso fare per i regolamenti… Vabbeh, ci mandiamo Chiarugi e poi gli suggerisco io la formazione».
Non so gli altri, ma io tacqui colpevolmente di fronte a queste farneticazioni. Un po’ perché pensavo che fosse lo sfogo delirante del momento ed un po’ perché, con il fatto che la radiocronaca era trasmessa di straforo, mi conveniva non contraddirlo troppo. Rimasi così in silenzio e d’altra parte, anche se avessi replicato, sarebbe forse servito a qualcosa? Penso proprio di no, e comunque un tecnico vero alla fine lo presero lo stesso. Stavolta, senza che nessuno mi avesse chiesto niente, tornava a Firenze Aldo Agroppi. In pratica un opinionista di Radio Blu era diventato allenatore della Fiorentina: se me lo avessero raccontato qualche anno prima, non ci avrei mai creduto.

CONFUSIONE
Mi ero innamorato, e fin qui niente di male, se non fosse che ero già sposato da più di due anni con colei che avevo sempre considerato l’unica vera donna della mia vita. Andai così via di casa e mi ritrovai in un seminterrato molto pittoresco a due passi da Ponte Vecchio. Vivevo senza più punti fermi, in un caos totale, non molto dissimile a quello in cui era precipitata la Fiorentina. Casasco con i suoi non incantava più nessuno, Agroppi aveva perso il piglio decisionista della sua prima stagione in viola, Mario Cecchi Gori stava sempre peggio di salute. Rimaneva solo Vittorio, che parlava, parlava, parlava. La squadra cominciò a pagare atleticamente una preparazione leggera, qualcuno come Orlando entrò in depressione, altri come Laudrup e soprattutto Effenberg se ne fregavano di tutto e di tutti. In campo e fuori.
Pare che il tedesco prendesse ordini solo dalla moglie Martina e che per rifarsi delle angherie subite in famiglia fosse molto sensibile al fascino delle donne italiane. Come per esempio a Bergamo dove, si dice, prima della decisiva gara contro l’Atalanta, Effenberg realizzò nella notte una splendida doppietta con le compiacenti cameriere dell’albergo del ritiro viola. Poi in campo sbagliò un gol già fatto ed io esplosi con una frase che ancora oggi tanti tifosi ricordano: «me lo mangerei questo tedesco». Le ultime notizie dalla Germania davano Effenberg in fuga d’amore con la moglie di Strunz, un cognome che doveva ricordargli qualcosa della sua breve esperienza italiana.