Per gentile concessione dell’editore Scramasax, prossimo libro in uscita: “Fiorentina-Juventus, la partita della vita”

1981/82

Tutto nacque per caso, nel 1981. Ero proprio un cane sciolto: non avevo sponsor e nemmeno agganci politici, ero sostanzialmente timido, ma da un decennio mi ero messo in testa di diventare giornalista. Da quattro anni avevo scoperto il rutilante mondo radiofonico, da due ero a Radio Blu, dove mi avevano dato una fiducia che non ho mai dimenticato. Ci voleva un’idea, qualcosa di diverso. No, non la radiocronaca, a quei tempi non ci pensavo proprio. Sapevo che ogni tanto da qualche misteriosa stazione in F.M. spuntavano cronache locali degli incontri della Fiorentina, ma erano inascoltabili per l’audio e per la confusione con cui erano descritte le azioni. La scintilla giusta scoccò all’improvviso e per la prima volta sentii nascere dentro di me quella tumultuosa sensazione di voler fare tutto e subito che tante altre volte mi avrebbe fregato in futuro. Prestavo servizio militare a Falconara Marittima, era un luglio torrido e improvvisamente mi venne in mente che a pochi chilometri da lì, a Cattolica, passava le sue vacanze molto casalinghe Eraldo Pecci, appena acquistato dai Pontello insieme a Graziani, Vierchwood, Massaro e Monelli. Se avessi potuto, avrei lasciato lì in piena notte la baionetta per precipitarmi a cercarlo e proporgli di venire a condurre con me una trasmissione. Dovetti aspettare due giorni, che mi sembrarono un’eternità. Arrivai a Cattolica, trovai Pecci in compagnia della splendida moglie Manuela e gli rovesciai addosso mille tesi a supporto della validità della mia proposta. Negli anni successivi non gli ho mai chiesto cosa pensasse di quel ventenne che disegnava tumultuosamente scenari mediatici a lui sconosciuti. Alla fine Pecci accettò, per centomila lire a trasmissione. In più convinsi il proprietario di Radio Blu, Rinaldo Pieroni, ad investire una discreta somma per un rimborso spese che mi avrebbe consentito di andare sempre a seguire la Fiorentina in trasferta, per realizzare interviste da proporre nel Pentasport del lunedì. Niente radiocronaca, tanto non le avrebbe sentite nessuno, solo le parole dei protagonisti.

SAN SIRO
Una giornata piovosa di fine settembre e poi il sole, una bella ragazza bionda che si toglie le scarpe e cammina felice in mezzo alle pozzanghere, io che regalo l’accredito della mia prima volta nello stadio simbolo del calcio italiano al mio amico Alessandro Canalicchio e vado con lei a vedermi la partita nel secondo anello. Ero emozionato come un bambino che entra a Eurodisney. San Siro è monumentale, fuori ci sono le targhe dei loro successi, tanti anche nei primi anni ottanta. La Fiorentina aveva vinto all’esordio in campionato rubacchiando un po’ contro il Como e adesso c’era il Milan di Radice, profeta in patria, Jordan, Tassotti e Battistini. Brutta partita, zero a zero finale ed una maledetta traversa di Graziani, “generosoâ€? come al solito. I viola si imposero poi a Catanzaro e in casa con l’Avellino, ma persero a Roma subendo un gran gol di Pruzzo, da ricordare per l’eccezionale colpo di tacco di Falcao che liberò il centravanti di Liedholm davanti all’incolpevole Galli. Poi ancora alti e bassi, culminati con l’inaspettata sconfitta di Cesena. La domenica dopo il nostro cuore cessò di battere per qualche secondo, insieme a quello di Giancarlo Antognoni.

ANTONIO, MON AMOUR
La mattina di quel freddissimo 22 novembre 1981 mi produssi in una delle poche spericolatezze della mia vita di centauro. Colpito da un attacco di improvvisa imbecillità, cercai di guidare la vecchia Honda 350 a mani incrociate, con il logico risultato di finire lungo disteso sull’asfalto. Sbertucciato e spaventato, mi presentai lo stesso allo stadio convinto della riscossa viola e non sapendo di stare per assistere a ben altro dramma. Quello che è successo lo sanno tutti: la folle uscita di Martina, l’impatto con la testa di Giancarlo, la disperazione dei giocatori fiorentini e dei genoani, il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca dell’incommensurabile “Pallinoâ€? Raveggi, la corsa all’ospedale, la paura di una città.
Solo in quell’anno Antognoni cominciava ad avere accanto a sé gente che gli assomigliasse almeno un po’ tecnicamente. Prima dell’ottima campagna acquisti dei Pontello del 1981, noi ragazzi di fine anni settanta avevamo vissuto una specie di schizofrenia calcistica: c’era la Fiorentina, mediocre, e c’era Antognoni, immenso. Ogni estate era il solito tormentone, con le grandi che lo richiedevano e i dirigenti viola che dicevano puntualmente di no, salvo poi comprare uno Zagano qualsiasi per “rafforzareâ€? la squadra. E poi c’era il rito polemico della Nazionale. Per noi di Firenze era palese il boicottaggio di Causio, Bettega e di tutta la banda di juventini che, pur di non farlo brillare, non gli passavano mai il pallone. Ero tra quelli che mettevano la foto di “Antonioâ€? accanto alla tv quando giocavano gli azzurri, così, tanto per urlare al mondo che lui era speciale e diverso dagli altri. Sette mesi e mezzo dopo la follia di Martina, non fui capace di esultare pienamente per il Mundial spagnolo, perché nella finalissima tifavo segretamente per un pareggio. In questo modo si sarebbe ripetuta la partita e Antognoni, immolatosi alla causa azzurra nella semifinale contro la Polonia, avrebbe potuto giocare. E non ero l’unico a Firenze a pensarla così… Una delle soddisfazioni più grandi fu leggere che lo avevano eletto migliore in campo nella parata di stelle a New York, andata in scena un mese dopo la maledetta sfida di Madrid. Antognoni più di Platini, Rossi, Rumenigge, Conti, Falcao, Boniek, Zico: noi lo avevamo sempre saputo che era il più bravo, gli altri cominciavano (forse) a capirlo adesso.

SENZA DI LUI
Il calcio è mistero agonistico. La definizione è di Gianni Brera, una delle più azzeccate tra le sue mille che ci accompagnano da oltre quaranta anni. Improvvisamente si scoprì che senza Antognoni la squadra girava meglio, forse perché tutti davano qualcosa in più per far vedere che ce la potevano fare lo stesso. In quei giorni sfruttai la conoscenza con Miani, che all’inizio della stagione nessuno considerava e che era destinato ad indossare la maglia numero dieci.
Nella settimana successiva all’infortunio del capitano e prima della trasferta in casa della Juve, Miani mi confidò di non essersi mai sentito così bene in vita sua e di non avvertire assolutamente il peso della sostituzione. A pensarci bene non si poteva che essere d’accordo con lui: aveva 25 anni, era nel pieno della carriera e nessuno avrebbe mai fatto paragoni con uno dei migliori calciatori del mondo. Insomma, da quella avventura Miani non avrebbe avuto altro che da guadagnare. La galoppata viola nelle partite successive fu entusiasmante e cominciò con un pareggio per zero a zero a Torino, incarognito da una traversa colpita da Daniel Bertoni a Zoff battuto. Sembrava un punto benedetto ed invece era un punto perso perché, se fosse entrato quel pallone, nell’albo d’oro della Fiorentina adesso ci sarebbero stati tre scudetti.

SEMPRE PIU’ SU
Tutto girava alla perfezione. A Bologna Pecci azzeccò un tiro straordinario e pochi minuti dopo, qualche fila sotto la mia postazione, si accasciò Piero Pasini, voce storica della Rai, colpito da infarto e morto nel “suoâ€? stadio. I gol a ripetizione di Graziani e Bertoni stesero Napoli e Inter in casa, l’entusiasmo era alle stelle.
Intanto compivo il mio apprendistato radiofonico proprio con Pecci, che mi massacrava dialetticamente con continue battute e prese di giro. Facevo finta di non prendermela, ma in verità ci soffrivo molto, non capendo che stavo imparando qualcosa. Spesso venivano fuori aneddoti sui compagni di squadra di Torino e Bologna o sulla Nazionale. Come quella volta in cui al Mondiale argentino, in omaggio ai clan, i giocatori di Torino e Juve si divisero in due gruppi ben distinti per partecipare a dei “simpaticiâ€? convegni organizzati da alcune compiacenti signorine di Buenos Aires. Fra quelli del Toro c’erano pure degli infiltrati, ma solo in nome del gemellaggio tra le due tifoserie… Se Pecci avesse studiato fino all’università, sarebbe diventato un ottimo manager, ma anche così non se l’è cavata male. Aveva la fissa di voler prendere un ingaggio superiore di cinquanta milioni a quello di Antognoni, e ci riusciva sempre (o così almeno diceva), sfruttando il grande ascendente che aveva su Flavio Pontello. «E’ il più intelligente fra i miei dipendenti che tirano calci ad un pallone», raccontava divertito il Conte, e forse non aveva torto. Una sua massima, “il pallone corre sempre più veloce di qualsiasi giocatoreâ€?, l’ho utilizzata ogni volta (cioè quasi sempre) in cui venivo accusato di essere lento nelle mie scarse prestazioni calcistiche.

UDINE
«Ma lei vuole anche il telefono per fare la radiocronaca?». Il telefono? E che me ne facevo del telefono, e che mi importava di fare la radiocronaca? A me interessava solo avere l’accredito per la tribuna stampa e per fare le solite interviste a fine partita. Il 10 gennaio 1982 io e Rinaldo arrivammo a Udine dopo sette ore di treno, con una temperatura a mezzogiorno di meno dieci. Dopo un quarto d’ora di gara il freddo era diventato così insopportabile che chiedemmo asilo politico a Sandro Ciotti, che stava commentando la partita al caldo della cabina di “Tutto il calcio minuto per minutoâ€?. Da lì vedemmo segnare Bertoni, pareggiare Muraro e infine Graziani far vincere la Fiorentina, in un tripudio di bandiere viola. In settimana avevo fatto una scommessa con Picchio De Sisti per cui, se avessimo vinto, lui avrebbe parlato prima con me e poi con Rai e giornali. Lo fece e, lo confesso, provai una leggera vertigine, ma non solo per quello. Avevamo due punti di vantaggio sulla Juve ed eravamo quindi matematicamente campioni di inverno. Senza Antognoni, ma con la squadra caratterialmente più forte del campionato. Nessuna invidia nello spogliatoio e davvero tutti per uno e uno per tutti, alla faccia di chi ci considerava al massimo da Uefa.

CIUFFI PER CASO
Non è che il gioco fosse brillantissimo, ma in difesa con Galli, Vierchwood, Contratto ed il miglior Galbiati possibile, non passava nessuno. Ad Ascoli pareggiammo zero a zero in una partita che mi è rimasta nella memoria per il prima e per il dopo. Mi avevano rifiutato l’accredito per entrare in tribuna stampa e rimasi un paio d’ore ad elemosinare l’ingresso ai vari dirigenti dell’Ascoli che si avvicendavano nei paraggi. Alla fine, scocciati e forse impietositi, mi fecero entrare proprio al fischio di inizio. Il dopo gara fu caotico, c’erano state contestazioni per un rigore non fischiato all’Ascoli e i teppisti locali cominciarono a spaccare le macchine targate Firenze. Non è un caso che due anni dopo gli unici due ceffoni in ventidue anni di trasferte li abbia presi proprio ad Ascoli. Nel parapiglia generale mi ritrovai così quasi spinto dalla folla su un pullman ancora integro e vidi là in cima, vicino al guidatore e a mo’ di capoclasse, un signore di una cinquantina d’anni che si agitava come un matto. Era Ciuffi, ancora misconosciuto alla platea televisiva, ma già trascinante e acclamato da quelle decine di persone a cui lui pagava tutto. In quanti si sono approfittati di Ciuffi in quegli anni di sfrenata ed illogica allegria finanziaria, magari gli stessi che poi lo hanno vessato nelle stagioni più amare. Gli ho voluto bene da subito, qualche volta mi sono arrabbiato, spesso mi è sembrato di fargli da babbo, credo che in tanti gli debbano qualcosa.

IL RITORNO
Un altro pareggio maledetto a Torino, con annesso discutibile rigore per i granata, e siamo all’incredibile rientro di Antognoni. Incredibile perché anticipato, e di molto, sui tempi previsti per il recupero, dopo il terribile infortunio alla testa. Il 21 marzo 1982 al Comunale (non ancora Franchi) contro il Cesena, l’aria era da attesa messianica. Nessuno aveva notizie certe, tutti aspettavano trepidanti l’annuncio delle formazioni. Siccome me lo sentivo che sarebbe tornato, registrai la voce dello speaker e nella cassetta rimase inciso prima quel cognome e poi il grido di gioia di una città che riabbracciava il figlio prediletto. Antognoni giocò bene, mandò in gol Casagrande e vincemmo con il solito uno a zero. La settimana successiva, in un clima da guerriglia urbana, pareggiammo a Marassi contro il Genoa e potevamo vincere. Poi l’inutile zero a zero in casa con la Juve, la vittoria, naturalmente per uno a zero, contro il Bologna ed infine il “suoâ€? capolavoro a Napoli.
Una cosa fantastica. Mancano otto minuti alla fine, il risultato non si sblocca e la Juve sta vincendo in casa contro l’Inter. Ad un certo punto Massaro, vera e propria rivelazione del campionato, prende il pallone e parte in contropiede tagliando fuori quasi tutta la difesa partenopea. Passaggio ad Antognoni, che vede Castellini un po’ fuori dai pali: tiro a metà tra il pallonetto e lo “shootâ€? puro e gol spettacolare che vale l’aggancio ai bianconeri. Vado in estasi. Nello spogliatoio un solo tormentone per il capitano: “cosa rispondi a chi sosteneva che la Fiorentina senza di te era più forte?â€?. “Nulla, mi interessa solo vincere il campionatoâ€?. Nel viaggio di ritorno in treno passai tre ore a dormire per terra in una carrozza inondata di viola. Arrivai a casa a tarda notte, lercio ma felice.

SCIAGURATO CASAGRANDE
Quanti gol sbagliò Casagrande a San Siro contro l’Inter il 2 maggio 1982? Sei, sette, ma forse è la rabbia che ancora non mi è passata a confondermi un po’ la memoria. Riepiloghiamo: la Juve recupera Paolo Rossi dopo la squalifica e va a giocare a Udine, noi invece andiamo a San Siro senza cinque titolari e facendo addirittura esordire in difesa il giovane Baroni. Fa un caldo assassino e Daniel Bertoni, che in assenza di Graziani avrebbe dovuto prendere in mano la squadra in attacco, si defila completamente, andando spesso a cercare le poche zone d’ombra di un pomeriggio afosissimo. Ciò nonostante, l’organizzazione di gioco di De Sisti funziona alla grande e mettiamo sempre uno davanti a Bordon. Solo che quell’uno è lo sciagurato Casagrande, che sbaglia tutto. Lui si mangia i gol e noi il fegato. Pareggiamo, la Juve vince addirittura per cinque a uno e ci passa davanti. Meno male che la domenica dopo “Giaguaroâ€? Castellini, oltre che per il Napoli, gioca anche per la Fiorentina: para tutto a Torino, inchioda i bianconeri sullo zero a zero mentre noi strapazziamo la solita Udinese per tre a zero. Siamo primi a pari merito.

IL PROCESSO
La settimana prima della fatale Cagliari accadono cose strane. Il primo giorno di un’attesa lunghissima e snervante va in scena “Il processo del lunedìâ€?, che parla solo del clamoroso acquisto juventino di Platini ed è tutto un fiorire di previsioni su quanto il fuoriclasse francese sarà utile perché i bianconeri riescano finalmente a vincere la loro prima Coppa dei Campioni. Come sarebbe a dire Coppa dei Campioni? Fiorentina e Juventus sono a pari punti ad una giornata dal termine e tutti sono sicuri che Platini e Boniek giocheranno in Coppa dei Campioni. Da dove i vari Cazzaniga, Cascioli e De Cesari traggano le proprie convinzioni è un mistero che verrà risolto solo alle 17 e 45 del 16 maggio 1982. Da quel giorno ho sempre digerito mal volentieri il Processo e mai avrei potuto immaginare che sarei stato uno dei protagonisti dell’ultima storica puntata biscardiana alla Rai nel giugno di undici anni dopo.
Poi c’era la storia dello spareggio, che avrebbe stravolto la preparazione della Nazionale di Bearzot in vista dei Mondiali spagnoli. Era vero, ma che cosa si poteva fare? Magari assegnare lo scudetto a tutte e due le squadre, però il regolamento non lo prevedeva. Meglio, molto meglio, che lo spareggio non ci fosse e che a vincere fosse una sola. Ma senza dimenticare che Platini doveva giocare in Coppa dei Campioni…

CAGLIARI
I tifosi viola: “coloreremo il mare di viola!â€?. Il conte Flavio Pontello all’aeroporto di Elmas: “Agnelli? Ma via, è solo un metalmeccanicoâ€?. Battute. Sogni. Bischerate in libertà. Tutto è permesso nella settimana che precede uno scudetto. Andammo in diecimila a Cagliari e non dimenticammo mai più quei giorni. Ero personalmente stravolto perché avevo avuto informazioni, poi rivelatesi sbagliate, sulla modifica da lì a pochi mesi del mio stato anagrafico e la futura eventuale mamma proprio non voleva che la lasciassi sola. Partii lo stesso con Maurizio Passanti, il mio amico di sempre. Pur avendo all’epoca un’esperienza minima del calcio, rimasi colpito dalla scelta dell’albergo viola: Hotel Mediterraneo, sulla strada principale della città. Un po’ troppo sulla strada principale per resistere all’assalto festoso dei nostri tifosi che consideravano già vinto lo scudetto. L’indirizzo naturalmente lo conoscevano benissimo anche i cagliaritani, che passarono buona parte della notte a strombazzare là sotto con le macchine e a urlare ossessivamente un “forzaccagliariâ€? che mi pare di sentire ancora adesso. La mattina della partita il popolo viola reclamò qualcuno alla finestra per un discorso della vittoria, una circostanza che evidentemente ha sempre portato sfiga, nel 1940 come nel 1982. Si affacciò Massaro e assicurò tutti che avremmo conquistato il tricolore, si intravide anche la sagoma di Galli che si stava facendo la barba, ma siccome Giovanni è sempre stato un saggio, preferì tacere. Arrivammo al Sant’Elia con un anticipo di circa due ore rispetto al fischio di inizio del “ricordato per sempre Matteiâ€?. Qui però si incorre in un falso storico, perché il vero furto del tricolore non si perpetrò nel momento in cui il “principe di Macerataâ€? annullò un gol di Graziani per fallo di confusione (un po’ come avrebbe fatto diciannove anni dopo De Santis con Cannavaro in un famoso Parma-Juve). E nemmeno è da discutere il rigore pro-Juve di Catanzaro, perché il tiro di Fanna venne effettivamente bloccato con la mano quasi sulla linea. No, il vero furto fu il mancato rigore concesso al Catanzaro sullo zero a zero, per un’evidente gomitata in area di Brio a Borghi. Evidente per tutti, ma non per l’infido Pieri, che non fischiò. Quando Brady, già sbolognato alla Sampdoria, segnò dagli undici metri, immolai al mancato scudetto la fedele radiolina con cui da anni seguivo “Tutto il calcio minuto per minutoâ€? e la frantumai in mille pezzi per la rabbia. La gara di Cagliari era stata preparata malissimo, giocata peggio e di sicuro non eravamo preparati con la testa a certe sfide, però il tricolore ce lo avevano letteralmente rubato. Nella calca dello spogliatoio le prime parole di De Sisti (come a Udine) furono per me: «Aho’, ma che me lo vuoi fa’ magna’ questo registratore?». In effetti gli ero vicino, ma non più delle altre volte, solo che questa era una volta speciale.
Nel tardo pomeriggio di una splendida giornata quasi estiva, mentre rientravo all’albergo con un magone inestinguibile, mi chiedevo quando mai ci sarebbe capitato di andare così vicino a vincere quello scudetto che per me era sempre stata solo una storia del passato. Una favola raccontata ad un bambino di otto anni, mischiata a qualche partita vista e al ricordo di una città vestita a festa nel maggio del 1969. Entrammo in un bar e “succhiammoâ€? le immagini di Catanzaro, Trapattoni e Boniperti che facevano i complimenti di rito alla Fiorentina, Bearzot contento per il mancato spareggio, mentre a noi mancavano le parole. Le trovò due giorni dopo Paolo Melani che con il suo Brivido Sportivo distribuì un adesivo destinato ad entrare nella storia di Firenze: MEGLIO SECONDI CHE LADRI.

SCOOP MONDIALE
Come sia andato il mondiale spagnolo lo sanno tutti, silenzio dei giocatori compreso. Ciò che nessuno sa è che il silenzio stampa più famoso della storia del calcio è stato infranto per ben due volte a Radio Blu da Antognoni e Graziani, miracolosamente pescati prima della semifinale con la Polonia e della finalissima contro la Germania. Entrambi accettarono di parlare in barba ai divieti e la cassetta della registrazione è sigillata nel cassetto dei ricordi più cari. Col senno di poi ho pensato che avrei potuto telefonare ad un giornale e “vendereâ€? le interviste, ma non ero nessuno e se avessi chiamato qualche redazione avrebbero pensato ad un mitomane. Se invece avessero accettato, avrei messo in grande difficoltà i due azzurri-viola. In fondo è stato meglio così, quelle interviste, adesso, restano solo una cosa mia.