ROSSITTO COME RUI
A dicembre dimenticammo improvvisamente Batistuta per merito di Terim. Dopo un inizio stentato, la squadra cominciò misteriosamente a volare e alla seconda vittoria consecutiva, di ritorno da una trasferta ad Udine, cominciai addirittura a fare tabelle scudetto. Fu proprio in quella partita in Friuli che assistemmo ad un vero e proprio miracolo calcistico, qualcosa che avrebbe richiesto spiegazioni trascendentali: all’inizio del secondo tempo, infatti, Rossitto cominciò a giocare divinamente. Dribblò anche tre uomini in fila e non sbagliò più un passaggio, roba da confonderlo con Rui Costa. Logicamente il merito era tutto di Terim, talmente bravo psicologicamente da convincere lui, Bressan, Pierini e Firicano di essere diventati dei fenomeni. Vincemmo ancora in casa contro il Verona, pareggiammo con uno spettacolare tre a tre a Torino con la Juve (il primo punto in dieci anni al Delle Alpi!) e strapazzammo il Milan al Franchi con un umiliante quattro a zero. Fantastico. Quasi troppo bello per essere vero, ed infatti, come da tradizione, trovammo il modo di rovinare tutto in poche settimane.

IL DEMIURGO
«Mario, ma perché hai deciso di venire a lavorare nel gruppo Cecchi Gori?»
«Perché io sono uno che risolve i problemi. L’ho sempre fatto nella mia vita e sarà così anche con Vittorio. Vedrai, ci divertiremo».
Il colloquio tra me e Sconcerti andò in onda a Radio Blu sabato 2 dicembre 2000, pochi giorni dopo l’addio del “direttore” al Corriere dello Sport-Stadio e a poche settimane dal suo ingresso nel gruppo Cecchi Gori. Mario venne subito a trovarci Canale Dieci per preparare la truppa a clamorosi cambiamenti editoriali.
«I soldi ci sono – ci disse – non fatevi ingannare da chi afferma il contrario, è solo gente che ce l’ha con Vittorio. Adesso però voglio da voi aggressività: dobbiamo essere ovunque, nulla ci deve fermare». Sconcerti era senz’altro un grande giornalista, ma sapeva di televisione più o meno quanto me di cucito, e dopo pochi giorni, di fronte ai mille problemi tecnici quotidiani, si era già dato una calmata. L’annuncio del suo arrivo venne dato durante la cena di fine anno dei giornalisti sportivi toscani, senza, pare, che ne sapessero niente Luna ed Antognoni. Non appena appresa la fatale notizia, Lucianone nostro sparì come era solito fare nei momenti difficili, mentre Antognoni cominciò la sua guerra neanche troppo sotterranea a colui che aveva sempre considerato un avversario.

NEMICO DEL MIO IDOLO
E così, ad un certo punto, sono entrato anch’io nella lista nera di Giancarlo. Provo con molti sforzi a capire cosa gli sia passato per la testa: siccome avevo lavorato (bene) con Sandrelli e da anni conducevo alla radio una rubrica con Sconcerti, non potevo che essere un loro alleato. E se ero un loro alleato, diventavo automaticamente un suo nemico. Questa storia, in fondo molto stupida, va avanti da troppo tempo e temo che le parole velenose di Antognoni abbiano involontariamente fatto breccia nella parte più idiota della tifoseria. Una volta, in piena bufera, presi carta e penna per scrivergli una lettera affettuosa, in cui mi sforzavo, nonostante tutto, di capire il suo stato d’animo giustificandolo pure, visto che aveva appena deciso di lasciare la Fiorentina. La sua risposta fu agghiacciante: dopo qualche giorno andò in una radio e disse che “Guetta si sa perché si comporta così (non ho mai capito a cosa si riferisse): vuole diventare addetto stampa della società”. Una falsità assoluta ed inedita, condita da un’altra dichiarazione in cui affermava che “di Guetta comunque non mi occupo troppo perché è un pesce piccolo”. Era chiaramente in guerra con il mondo e, attaccandomi, pensava di conquistare chissà quale fortino. Una settimana prima in televisione mi aveva urlato: “stai zitto te, che fai parte del clan dei Marsigliesi”. Potevo tranquillamente querelarlo, prendere un sacco di soldi, ma avrei fatto a botte con la mia coscienza e con quello che lui ha rappresentato per me nei quindici anni in cui giocava. Ho lasciato perdere e non me ne pento: i sogni di un ragazzo non possono essere svenduti in una causa per risarcimento danni. Meglio dimenticare.

SCINTILLE
Ovviamente l’imperatore-due ed il demiurgo entrarono in rotta di collisione dopo nemmeno una settimana di lavoro insieme. Il pretesto era il rinnovo del contratto di Terim, ma si vedeva benissimo che si detestavano da tempo. Si scontrarono la prima volta a Bergamo, il sabato prima della partita, e nelle settimane successive continuarono a lanciarsi frecciate che facevano solo il male della Fiorentina.
Tutti noi, comunque, volevamo che il tecnico turco rimanesse e così in una fredda sera di gennaio andò in scena un corto circuito mediatico che a rivederlo ora può sembrare assurdo. Tutta Firenze si mise infatti in fila davanti alla casa del presidente-senatore-produttore ad aspettare il fatidico incontro risolutore Terim-Cecchi Gori.
«Non ci sono problemi, Fatih rimarrà con noi altri tre anni», dichiarò trionfante Vittorio, al termine della maratona.
«Me ne vado a fine stagione», rispose il giorno dopo l’imperatore-due, che si era già promesso al Milan. E noi lì, a fare dirette fiume di ore e ore per raccontare il nostro dolore per l’addio del grande allenatore. Ridicolo, semplicemente ridicolo. La Fiorentina si era nel frattempo dissolta in campo, con tre sconfitte consecutive che l’avevano ricacciata a metà classifica.

DIMISSIONI
Le due magie di Baggio in Fiorentina-Brescia del 24 febbraio 2001 segnarono il punto di non ritorno nella storia tra la Fiorentina e Terim. Con appena due pareggi nelle ultime cinque partite, Cecchi Gori decise che era finalmente (per lui) arrivato il momento buono per licenziarlo. Sconcerti provò ad opporsi con poca convinzione, mentre Antognoni dette coerentemente le dimissioni da una vita in viola perché non era assolutamente d’accordo con l’iniziativa, e aveva ragione. L’imperatore-due prese però tutti in contropiede e convocò una conferenza stampa in un albergo per annunciare che non sarebbe stato Vittorio a licenziarlo, ma lui ad andarsene, insieme a tutto lo staff tecnico, più Antognoni.
Andai anch’io all’ultimo incontro di Terim con i giornalisti e mi trovai precipitato nel peggiore degli incubi. Scoprii però il lato più vero di Antonio Di Gennaro, un gentiluomo d’altri tempi, che in preda a chissà quali fantasmi della mente mi aggredì in mezzo alla hall, accusandomi di aver manipolato alla radio dei fax per attaccare Antognoni. Una cosa idiota e pazzesca, e ogni altra parola sul signore in questione mi pare sinceramente sprecata. Poi venni avvicinato da un tifoso che conoscevo solo di vista e che voleva picchiarmi in quanto “servo di Cecchi Gori”. Si trattava di Gaetano Lodà, che due giorni dopo appose davanti al suo locale un simpatico cartello con scritto “noi non possiamo entrare”, e sotto la mia foto insieme a quella di Cecchi Gori, Sconcerti e Sandrelli, intanto rientrato in Fiorentina. Infine, il colpo ad effetto. Prima che iniziasse la conferenza stampa, davanti ad una cinquantina di giornalisti, Terim mi invitò ad uscire dalla stanza perché la mia presenza non era gradita. Il gentiluomo Di Gennaro rincarò la dose sogghignando: “e adesso cosa rispondi? Eh, vediamo un po’ cosa dici”. Fu particolarmente apprezzabile la solidarietà dei colleghi: nessuno mosse un dito in mia difesa, ma io non mi spostai di un centimetro.

SQUALLORE TELEVISIVO
Ripartii stravolto dall’albergo della conferenza stampa per andare a condurre il Pentasport, ma una volta arrivato a Prato venni pregato da Sandrelli di tornare a Canale Dieci perché Sconcerti aveva sciaguratamente deciso di esternare. Ero perplesso, ma non potevo mandare uno dei miei giornalisti allo sbaraglio e poi Massimo mi aveva rassicurato, dicendomi che anche Isler di Rete 37 avrebbe partecipato alla trasmissione. Insomma, non sarebbe stato un monologo senza contraddittorio. Una volta giunto in televisione, mi accorsi con terrore che avevamo più o meno dieci minuti per preparare il programma e, soprattutto, che di Isler non c’era traccia. Chiesi ai giornalisti presenti se avessero voluto intervenire, ma se la dettero tutti a gambe, tranne Manola Conte, che mi venne coraggiosamente in soccorso.
La rissa televisiva se la ricordano (purtroppo) quasi tutti, con l’uscita infelice di Sconcerti ad Antognoni (“ma si può sapere cos’hai fatto tu per la Fiorentina”), le urla isteriche via telefono della moglie di Giancarlo e le farneticazioni sconcertiane sul futuro roseo della società. Ero distrutto da una giornata piena di veleni e non riuscii a tenere le redini della trasmissione. Sbagliai anche a non mandare in diretta Di Gennaro, che aveva chiesto di intervenire telefonicamente. Due giorni dopo quella serata da incubo, andai da Sandrelli in Fiorentina per annunciargli che me ne andavo da Canale Dieci perché non reggevo più la tensione di una contestazione che trovavo assurda. Massimo mi chiese di non mollare, di defilarmi magari un po’, ma di continuare a condurre il Ring dei Tifosi. Mi convinse con una frase: «se te ne vai adesso, sembra che tu abbia preso posizione, schierandoti con Terim. E invece se sei sempre stato equidistante tra le parti: è come se avessi qualcosa di cui ti vergogni o delle colpe da farti perdonare». Aveva perfettamente ragione: non dovevo farmi perdonare proprio niente.

GUETTA CIRCONCISO
Mi hanno fatto striscioni offensivi, inciso svastiche sulla moto, inviato vergognose lettere anonime a casa, minacciato fisicamente, e posso facilmente immaginare quale mente eccelsa si sia nascosta dietro a queste operazioni. Ma quello che mi ha fatto più paura è ciò che accadde una sera a casa mia. Suonò il cellulare e Valentina voleva andare a rispondere, come era già successo tante altre volte. «Lascia Vale – gli gridai – vado io!». Dall’altra parte una voce di ragazzo mi urlò: «Guetta, ebreo di m…., ti conviene non girare da solo, perché prima o poi ti spezziamo le gambe». Rimasi senza fiato: e se avesse risposto mia figlia di cinque anni, si sarebbero fermate queste bestie? Non credo. La domenica dopo la rissa televisiva, fra i vari striscioni offensivi su di me, ce ne fu uno che nessuno fece togliere. C’era scritto “Guetta circonciso”, e con questo i delinquenti che lo avevano innalzato credevano di avermi offeso. Il giorno dopo, chiamai la Comunità ebraica e chiesi di essere nuovamente iscritto, quattordici anni dopo che me ne ero andato.

MANCINI A TUTTI I COSTI
Sandrelli mi ha sempre detto che dovendo ricostruire da zero e in pochi giorni uno staff tecnico, era logico prendere subito un bel po’ di gente. Può anche darsi che abbia ragione in teoria, ma certamente sbagliarono nelle scelte e negli stipendi concessi. Sconcerti era diventato l’amministratore delegato della Fiorentina e non poteva non sapere la situazione in cui versava il bilancio viola. Per ingaggiare Mancini, che aveva cominciato la stagione come vice di Eriksson, venne messa su un’operazione a tutto campo con la Federazione, che alla fine concesse la sospirata deroga tra mille polemiche. Al nuovo tecnico vennero incredibilmente promessi gli stessi soldi di Terim, una follia in considerazione della differenza di esperienza e di prestigio tra i due. E andò molto peggio con Giuseppe Pavone e Ottavio Bianchi, due autentici bluff, smascherati definitivamente solo nell’estate del 2002.

SCHIZZOFRENIA
E la squadra? Trascinata da un Chiesa stratosferico e dai soliti Toldo e Rui Costa, la Fiorentina resse in campionato, evitando di venire risucchiata nella zona retrocessione. Buona parte del merito fu anche di personaggi come Luciano Dati, Marcello Manzuoli ed Alberto Benesperi che al di là delle ottime capacità professionali riuscirono a tenere unito il gruppo. I terremoti societari e gli stipendi non pagati per mesi non incisero più di tanto perché lo spogliatoio si dimostrò granitico.
In più c’era la solita Coppa Italia, dove i viola, con Terim ancora in panchina, avevano conquistato la finale a spese del Milan. Mancini fu bravo a capire che non era davvero il caso di procedere a delle rivoluzioni e fece di necessità virtù, schierando spesso la squadra con una sola punta (l’immenso Chiesa, che segnava sempre) e Rui Costa accanto. Il portoghese non gradì molto, ma si adeguò come sempre per il bene collettivo. Dopo una bella vittoria contro la Roma di Batistuta, che avrebbe poi vinto il campionato, uno Sconcerti scatenato annunciò a Canale Dieci l’intenzione della società di allungare il contratto a Mancini fino al 30 giugno 2003. Accidenti che fretta, forse un po’ troppa per i miei gusti.

SCUSE E SPIEGAZIONI
Ho sempre considerato Stefano Sartoni, il leader storico del Collettivo, una persona leale con cui a volte posso anche non essere d’accordo e mi piace che sia un tipo che non sfugge mai al contraddittorio. Fu solo per questo rapporto speciale che accettai di partecipare all’incontro che mi propose, un incontro strano con Gaetano Lodà e Dimitri Rocchi proprio nel locale dove io non sarei mai potuto entrare perché indesiderato. Chiesi a Luis Laserpe di accompagnarmi, sia per precauzione che per avere un testimone. Ero molto arrabbiato con Lodà, che mi fece correttamente le scuse per ciò che era successo il giorno delle dimissioni di Terim ed anche per quel cartello che lui considerava solo una goliardata. Cominciammo quindi a parlare del futuro della Fiorentina e mi venne disegnato uno scenario assolutamente inedito, quasi da fantapolitica calcistica. Lodà, Rocchi e Sartoni esibirono fogli e documenti degni del miglior giornalismo investigativo. Considerandomi (bontà loro) una voce importante per i tifosi, volevano che anch’io fossi a conoscenza di come la società viola stesse inevitabilmente andando verso la rovina. Mi dissero che i giochi non si facevano a Firenze, in piazza Savonarola, ma a Roma, dove sul pianeta calcio regnava incontrastato il banchiere Cesare Geronzi. Lo stesso arrivo di Mancini era stato “imposto” dalla GEA (la società che cura gli ingaggi e i diritti di immagine di diversi calciatori e allenatori e di cui fa parte anche la figlia di Geronzi), per cui non ci dovevamo stupire delle cifre concesse ad un tecnico esordiente. Uscii da quelle tre ore di colloquio perplesso e turbato: e se avessero avuto ragione loro?

COPPA ITALIA
A maggio cominciò la triste stagione degli addii. In una struggente serata di campionato, dopo Fiorentina-Atalanta, Toldo salutò tutti piangendo e commuovendo uno stadio intero. Lo avevano già venduto al Barcellona e con lui se ne andava uno dei più grandi portieri della storia viola, particolarmente ricca di straordinari numeri uno. Rui Costa e Chiesa invece sembrava che dovessero rimanere, e anzi Sconcerti, probabilmente dimenticandosi del bilancio, aveva già promesso al portoghese un sostanzioso aumento di stipendio, che peraltro Rui non aveva neanche chiesto. Intanto erano stati concordati gli ingaggi di Stankovic, Mihajlovic, Andersson e Marchioni, tutta gente che sarebbe stata probabilmente pagata con i soldi del Monopoli.
Il 13 giugno vincemmo la nostra ultima Coppa Italia, pareggiando in casa contro il Parma, già sconfitto all’andata. Il clima era surreale, le bandiere tornavano allo stadio dopo lo sciopero dei mesi precedenti e Cecchi Gori in tribuna sembrava imbambolato, come se sapesse che era la sua ultima volta al Franchi. Che differenza col successo di cinque anni prima. Sconcerti si scaraventò felice negli spogliatoi per festeggiare, mentre i tifosi andarono a piazzale Michelangelo per coprirlo quasi interamente di viola. La domenica dopo, per una serie di eventi causali, custodii per una notte la Coppa a casa mia. E mentre la guardavo appoggiata sul divano del soggiorno mi dicevo che era senza dubbio bellissima, ma che in fondo l’avevamo già vinta molte altre volte. Lo scudetto, invece, era tutta un’altra cosa: se solo avessi immaginato quello che stava per succedere…