C’è quel viale davanti allo stadio che domani ripercorrerò ancora una volta e là dietro ci sono i miei vent’anni.
Il militare finito da due giorni e lo scudetto perso.
Per sempre.
Io ce l’ho ancora addosso quella sensazione di disagio, di rabbia, che insieme al mio amico Maurizio provammo in quel bellissimo maggio del 1982.
Una primavera da urlo, dolcissima e crudele nello splendore della Sardegna.
Tornavamo a piedi verso l’albergo e ancora non sapevamo nulla del furto di Catanzaro, e nemmeno del perché era stato annullato il gol di Graziani.
Su tutto c’era un velo di cupa tristezza, quasi a presagire che così vicini a vincerlo questo benedetto terzo scudetto non ci saremmo mai più andati.
Ho due ricordi abbaglianti: lo smarrimento per come la Fiorentina aveva giocato la partita della vita (cioè non l’aveva giocata: troppo molle e rinunciataria) e De Sisti che nelle interviste al Sant’Elia mi dice nella calca generale “aho, che me lo vuoi far magnà ‘sto microfono?”.
Poi, quella lunghissima passeggiata ed infine la visione di “Novantesimo minuto”, che si apre con l’ennesima festa juventina.
Tutta la retorica del mondo su Brady, che aveva segnato il gol scudetto e se ne andava, e solo di sfuggita un accenno a quel fallo da rigore di Brio su Borghi.
Dormii molto male quella notte, come per cose calcistiche mi è capitato solo poche volte: la retrocessione del ’93, lo scontro Sconcerti-Antognoni con il sottoscritto a finire stritolato nel mezzo e i giornidel fallimento del 2002.
Avevo ventuno anni ed avevo perso lo scudetto e non solo quello: certe emozioni non sarebbero più tornate.